Lettere al Direttore

28 Aprile 2009 | di

Lettera del mese. Maternità al bivio


A Emanuela, mamma precaria


Il mondo del lavoro, che un tempo ha consentito alla donna di emanciparsi, oggi sembra essere luogo dei diritti negati. Complice la crisi. Ma non solo.


«Caro direttore, ho 39 anni e sono una delle tante lavoratrici atipiche. Da un anno e mezzo sono mamma di Chiara: l’ho voluta caparbiamente, dopo aver atteso per anni un impiego stabile. Al lavoro mi sono data sempre da fare, ho ricevuto grandi apprezzamenti ma, al momento del dunque, i miei esami non finivano mai. Nonostante tutto trovavo sempre un’occupazione: garantivo lavoro qualificato a basso costo. Dopo l’ennesimo contrattino, mi sono resa conto che stavo perdendo la possibilità di diventare madre. Quando ho scoperto di essere incinta, la felicità iniziale ha presto ceduto il passo al panico. Ho tenuto il “segreto” il più a lungo possibile, poi la cosa si è risaputa e sono diventata improvvisamente “inabile al lavoro”. Anche mio marito ha un lavoro precario e abbiamo un mutuo. Se oggi non ci fossero i nostri genitori, avremmo seri problemi. Le confesso che sono stanca di tutta questa ipocrisia intorno alla famiglia e alla denatalità. Siamo passati dalla tutela alla colpevolizzazione della maternità, nel silenzio omertoso di tutti. Per fortuna, mi basta guardare la mia Chiara per tirare un sospiro di sollievo, quasi come se l’avessi guadagnata a dispetto del mondo intero».

Emanuela ’70


Cara Emanuela, sono d’accordo con te: il problema della maternità negata non è trattato nella giusta prospettiva e con il risalto che meriterebbe. Sembra quasi che sia uno dei tanti capitoli da sacrificare sull’altare del cambiamento economico in corso, dando per scontato che il mondo del lavoro attuale non può più dare certezze. Solo che quando si tratta di figli, non si sta parlando di una variabile qualunque, bensì del futuro delle famiglie e, per esteso, di un intero Paese. Una ricerca dell’Eurispes rende noto che il 90,5 per cento delle donne con contratti atipici ritiene il diritto alla maternità poco o per nulla garantito. Fa riflettere il fatto che solo il 6,5 per cento degli atipici (maschi e femmine) tra i 18 e i 40 anni, abbiano uno o più figli. Mentre affiora un altro sommerso, che credevamo di esserci lasciati alle spalle: aumentano i casi di aborto per «precarietà».
Forse che gli italiani non vogliono più diventare genitori? Così non sembra, almeno stando all’Istat: il numero di figli che si desidererebbe avere, «numero atteso», è superiore a due (2,19) per donna, anche se poi, per varie ragioni, si finisce per fermarsi al figlio unico.
C’è una traccia di welfare anche per il mondo precario, basta rivolgersi ai sindacati dei lavoratori atipici per verificare la propria posizione. Eppure anche quando si ha la fortuna di aver diritto a qualche tutela, la coperta risulta sempre corta, non copre e nemmeno riscalda a sufficienza. Di fatto, per molte donne la gravidanza significa uscire dal mondo del lavoro, con grandi interrogativi sul futuro e nel bel mezzo di una crisi economica di dimensioni epocali, dove a pagare il prezzo più alto sono proprio i precari. Da questa situazione ricavo due riflessioni: mai come di questi tempi i figli sono diventati un mero fatto privato. La seconda è che proprio il mondo del lavoro, che un tempo ha consentito alla donna di emanciparsi e far fruttare i propri talenti, oggi diventa il luogo dell’emarginazione e dei diritti negati. C’è allora da farsi delle domande. Quali sono le priorità che un Paese davvero evoluto dovrebbe avere? La strada della non tutela è davvero l’unica che abbiamo davanti? Nel lavoro, flessibilità fa per forza rima con precarietà?
Non mi sento in grado di darti consigli, però mi piacerebbe lasciarti un pensiero. Se hai deciso di diventare mamma malgrado tutto, tu hai già dentro una grande forza interiore. Spesso quando la politica latita, i valori camminano sulle gambe delle donne e degli uomini in carne e ossa, che scelgono ben conoscendo le conseguenze ma sapendo che ne vale la pena. Cerca lavoro, continua a lottare, richiedi attenzione – come hai fatto con questa lettera – per permettere un giorno a Chiara di diventare una mamma serena. Io continuerò a incoraggiare le madri come te dalle pagine del mio giornale.


Sobrietà, parola da usare con misura

«Caro padre, non ne posso più di un certo modo ottimista e quasi allegro di parlare della crisi. Sento poi affermare di continuo: in fondo è un’occasione per essere più sobri. Bella cosa la sobrietà, ma solo se è una scelta vissuta da chi può permetterselo. E chi invece ha perso il lavoro? Chi non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena, cosa dovrebbe dire?».

Un lettore infuriato


«Sobrietà» è una parola tornata in voga solo di recente, dopo essere stata relegata per anni nel «ghetto linguistico cattolico». In pratica si tratta di un invito a stabilire delle priorità, a individuare l’essenziale scremando il superfluo, negli acquisti ma non solo. Lei però mette opportunamente in guardia dal rischio di sovrapporre sobrietà e povertà, un fenomeno da contrastare senza tentennamenti. Lo dice bene Benedetto XVI nel Messaggio per la giornata della pace 2009, dal significativo titolo «Combattere la povertà, costruire la pace», nel quale il Papa sottolinea la necessità di stringere la forbice del divario tra ricchi e poveri, che va invece allargandosi sempre più.
Ma non basta la solidarietà – soprattutto quando si danno agli altri soltanto le briciole del proprio benessere – a motivare questo atteggiamento. Dice ancora Benedetto XVI: «Se c’è una grande speranza, si può perseverare nella sobrietà. La moderazione non è solo una regola ascetica, ma anche una via di salvezza per l’umanità. È ormai evidente che soltanto adottando uno stile di vita sobrio, accompagnato dal serio impegno per un’equa distribuzione delle ricchezze, sarà possibile instaurare un ordine di sviluppo giusto e sostenibile. Per questo c’è bisogno di uomini che nutrano una grande speranza e possiedano perciò molto coraggio».
Dubito che la sua sfuriata sia rivolta contro chi sostiene e vive una sobrietà di questo tipo, mettendo prima di tutto in discussione il proprio stile di vita opulento.

C’è invece in circolazione un ottimismo facilone, superficiale, che è francamente irritante, a maggior ragione se proviene dalle istituzioni. Bisogna comunque calarlo nel gioco delle parti della politica: la maggioranza da sempre ha il dovere di dare fiducia al Paese senza squalificare la sofferenza che c’è; l’opposizione ha invece il compito di denunciare le storture e fare controproposte concrete, evitando le strumentalizzazioni. In ogni caso, una sobrietà delle istituzioni (politiche innanzitutto) sarebbe una risposta seria e credibile alla crisi, in grado di parlare a tutti i cittadini.



Rialzàti dall’amore di Dio

«Prima di tutto desidero farle i complimenti per il “Messaggero” al quale sono da poco abbonata, ma che in pochi mesi ha già portato nella mia vita tanti buoni frutti. Ne approfitto per riprendere una “Lettera del mese” pubblicata sul numero di gennaio: “Per ogni vocazione c’è una seconda chiamata”. La suora che le scrive, inizia dicendo che “si vergogna un po’”; ora invece a scriverle è una persona sposata che, come quella suora, si vergogna e preferisce mantenere l’anonimato. Credo però che, come l’esperienza di quella religiosa ha fatto bene a molti (a me di sicuro), la stessa cosa possa succedere con queste mie parole per chi è coniugato. Nella sua risposta mi colpiva l’insistenza, del tutto positiva, sulla “seconda chiamata”. Sapesse padre, come questo è stato vero nella mia vita! Partita nel matrimonio con alti e solidi ideali di fedeltà, dopo poco tempo ho preso la classica “sbandata” per il mio capo ufficio, e mi sono così trascinata per due anni in una vita fatta di compromessi, di inganni, di infelicità. Pur rimanendo “praticante”, quanta lontananza dal Signore… Lui però è stato più forte del mio male… Anche grazie a una mamma che ha sempre pregato per me, a un certo punto ho compreso l’abisso in cui stavo precipitando e mi sono “rimessa in carreggiata”. Ottenuto il perdono sacramentale, ho riscoperto la mia vocazione di moglie e di madre. Tutto ciò mi ha fatto toccare con mano la Misericordia del Signore: come il Figlio Prodigo, mi sono sentita “rivestita con il vestito più bello, con l’anello al dito e i calzari ai piedi”. Ho iniziato, anche grazie ai figli, un cammino di conoscenza più approfondita del Signore, ho sentito il desiderio di lavorare come potevo nella sua vigna come catechista e nel volontariato per i poveri…».

Una lettrice riconoscente


Gentile signora abbonata da poco, grazie per il suo «grazie», motivato dal fatto che il «Messaggero» ha già portato nella sua vita molti buoni frutti.
Lei si è rispecchiata nella vicenda della lettera del mese di gennaio, e devo dire che non è stata la sola: qualcuno mi ha scritto, come nel suo caso, parlando di sbandamenti e di ritorni in carreggiata, qualcun altro mi ha invece raccontato di una dolorosa e sofferta immobilità, di percezioni negative circa la propria situazione vocazionale (matrimonio, vita religiosa o sacerdotale, vita da single). Comprendere che il Signore ci aspetta anche un solo passo più in là, che ogni situazione – anche la più torbida – non è irrimediabile, che in noi giace pur sempre un barlume di libertà che può farci cambiare rotta, è guardare alla vita in modo evangelico.
Che c’è spazio per il trionfo dell’amore di Dio in noi, questa è fede vera, non tanto il credere che siamo deboli, infangati, facili a cadere in tentazione: questo è un inossidabile dato di fatto.
La «seconda chiamata» esiste davvero, e in essa ci vengono ridati il vestito, l’anello e i calzari, proprio come nella parabola del figlio prodigo.
Ciò che cambia, rispetto alla prima, è il fatto che di questi segni di dignità riacquistata non possiamo più vantarci in proprio.
Essi parlano con eloquenza dell’amore di Dio più che della nostra bravura.



Fare spazio alle quote rosa? Meglio grigie

«Gentile direttore, ormai è quasi tempo di consultazioni elettorali. Ancora una volta mi ritrovo a pormi la stessa domanda: avranno messo qualche donna in lista? O dovremo per l’ennesima volta rassegnarci a essere rappresentate quasi esclusivamente da (euro)parlamentari maschi? Non voglio fare un discorso veterofemminista, per carità, non sarebbe nelle mie corde. Ma un po’ di uguaglianza in più, soprattutto nella “stanza dei bottoni”, non penso farebbe male. Anzi. Spesso ho l’impressione che se qualche volta fossero le donne a decidere sulle questioni più importanti – soprattutto quelle che riguardano valori come il rispetto della vita, la difesa dei diritti umani, la giustizia – le cose andrebbero un po’ meglio. Forse ci vorrebbero davvero quelle “quote rosa” da più parti auspicate. Lei, da uomo di Chiesa, cosa ne pensa?».

Lettera firmata


Teoricamente la sua richiesta e le motivazioni che porta per sostenerla non fanno una grinza. La fine di un maschilismo strisciante – non più di tanto – in politica e un maggior numero di donne al «potere», non potrebbero che portare dei vantaggi alla convivenza civile. Non per fare mielosi complimenti al gentil sesso, ma c’è da dire che chi sa mandare avanti una famiglia, un ufficio, un’azienda, destreggiandosi nella complessità che caratterizza il vivere moderno, ha tutte le carte in regola per occuparsi del bene comune dei cittadini. Oso un’espressione che a prima vista potrebbe apparire eccessiva: tra i due sessi, le donne sono quelle che il bene lo mettono maggiormente in comune, che pensano la realtà a partire da ciò che è vitale, da chi nella collettività ha più bisogno. Danno istintivamente la precedenza alle necessità altrui, forse anche troppo, mettendo al primo posto figli, mariti, genitori...

Nonostante ciò, anche questi ottimi argomenti non sono sufficienti a sostenere l’applicazione di quote rosa alla vita politica italiana o anche sovranazionale, europea in questo caso. Mi ha colpito, nel corso del recente Festival internazionale del giornalismo a Perugia, un intervento di Gianni Riotta, recentemente passato a dirigere «Il Sole 24Ore». Alla domanda di un giovane giornalista o aspirante tale che gli chiedeva perché nei quotidiani o anche in Rai non viene stabilita una quota giovani, ha risposto più o meno così: «Non credo sia la soluzione giusta, perché sul posto di lavoro dovrebbe valere il criterio della competenza e unicamente quello». In sostanza, mettere delle quote (nei giornali, nella politica, ecc.) significa riconoscere un’emergenza e cercare di risolverla con un escamotage che non incide sulle logiche di fondo. Si risponde cioè a una logica di privilegio cercando di accaparrarsi una piccola parte di quel privilegio. Invece di stabilire un principio che vale per tutti – ad esempio la competenza, la bravura, la preparazione, mettendo, per quanto possibile, tutti alla pari sulla linea di partenza o in riferimento alla meta da raggiungere – ci si accontenta di vedersi attribuita quasi d’ufficio una fetta di «potere».
Se a prevalere fosse il «criterio competenza», non ho alcun dubbio sul fatto che le donne non avrebbero alcuna necessità di quote proporzionali a garanzia della propria professionalità, anche e soprattutto in politica. Se nella distribuzione delle cariche, dei ruoli e delle responsabilità si applicassero le «quote grigie», che fanno onore al merito e all’intelligenza e solo a questi, non si dovrebbe andare in cerca di complicati e discutibili sistemi di compensazione.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017