Non sprechiamo la crisi
Ormai oltre il tunnel… niente sarà più come prima, si sente dire. Anche se qualche sfumatura fa intuire che il peggio è passato, la percezione generale non vede la crisi alle nostre spalle. Con il Pil (Prodotto interno lordo) che precipita di 5 punti e la disoccupazione poco sotto il 10 per cento, non è consigliabile abbassare la guardia. Con grande pragmatismo, nella sua relazione di fine maggio, Mario Draghi – governatore della Banca d’Italia – ha affermato che «i recenti segnali di un affievolimento della fase più acuta della recessione provengono dai mercati finanziari e dai sondaggi d’opinione, più che dalle statistiche finora disponibili sull’economia reale». Quasi una voglia che le cose vadano meglio, perché la finanza resta per sua natura volatile, imprevedibile, e i sondaggi d’opinione sono pur sempre una fucina di desideri. Di fatto da fine maggio poco è cambiato e le difficoltà economiche continuano a mettere in difficoltà le imprese, con ricadute pesanti sulle famiglie: non poche boccheggiano, e la paura strisciante è di essere travolti e trascinati nella fascia grigia della povertà, che si va ingrossando. Dire poi che l’Italia sta affrontando meglio di altri Paesi la congiuntura economica, è dimenticare che già nel 2007 – quando il meccanismo della crisi si è innescato – le cose non andavano poi così bene.
Ma veniamo al secondo punto: niente sarà più come prima. Riflettendo sul «dopo» crisi, molti commentatori intravedono mutamenti sostanziali: meno finanza e più economia reale; più regole per controllare il far west dei mercati; consumi non al di sopra delle proprie possibilità, più equilibrati e soprattutto socialmente ed ecologicamente più sostenibili. Che però banche intraprendenti che hanno praticato per anni un’allegra finanza mettano la museruola alla propria avidità, che dopo un rallentamento forzato il «turbocapitalismo» non riprenda la sua folle corsa, che le regole tanto invocate sull’orlo del precipizio siano poi onorate da tutti, che un nuovo stile di consumo venga abbracciato dai più, non è facile da credere. All’austerity degli anni ’70, solo per fare un esempio, in Italia seguì il ventennio del consumismo opulento e rampante, come se nulla fosse accaduto. L’avidità, se l’economia tira, non è facile da tenere sotto controllo, e, come sostiene Roland Jen Marc Benabou – economista candidato al Nobel –, anche quando i segnali di allarme risultano evidenti vi sono due modi di reagire: fermarsi (che significa tra l’altro ammettere di avere sbagliato) o intraprendere un’escalation di operazioni rischiose (giochetto sconsigliato, come dimostrano le proporzioni della crisi attuale).
Prendiamo per buoni i segnali che indicano almeno uno squarcio di azzurro nel cielo ancora fosco e movimentato da nuvoloni dell’economia mondiale. Ma cerchiamo anche di non sprecare questa crisi, nel senso di pensare che una volta passato il temporale si possa riprendere tutto tale e quale a prima. Dobbiamo capire, per non ripetere gli stessi errori, che il destino dell’umanità è di gran lunga più in comune di quanto si creda: da un certo processo di globalizzazione non si torna indietro, e preoccuparsi del bene di tutti (pensiamo alla shoccante situazione del continente africano) è un modo serio e concreto per pensare al proprio bene: ce lo ricorda il Papa nella recente enciclica Caritas in veritate. In secondo luogo c’è da ricostruire quella fiducia di base che sta alla radice di ogni buon funzionamento dell’economia. Se la paura ha paralizzato i mercati, reso diffidenti le banche e stagnanti i consumi, ricreare fiducia significa ritessere e riqualificare i legami, evitando le derive di una finanza anonima e un’economia fatta di solo profitto, ritornando inoltre a considerare il capitale umano (le persone) come principale risorsa.