Son tutte belle le mamme del mondo
Tra la posta che mi arriva c’è anche la rivista on-line «Il Punto di Creazzo». Nel numero del 6 marzo scorso ospitava una lettera sul tema della maternità delle donne disabili. L’argomento è certamente molto interessante, ma poco trattato e discusso; forse non si ha il coraggio di affrontarlo in profondità. Solitamente si parla di genitori normodotati che hanno figli con disabilità, quasi mai di famiglie in cui, a essere disabili, sono i genitori. Cosa comporta la scelta di affrontare la genitorialità nonostante il deficit? Si può essere autonomi nella cura del proprio figlio nonostante la disabilità? Ci si può sentire genitori, comunque adeguati, anche quando il deficit impedisca un’«autonomia» piena? Quali paure possono insorgere in una situazione simile?
I limiti e le difficoltà da affrontare sono essenzialmente di tre tipi: fisici, psicologici e sociali. Questi, agendo insieme, creano delle precondizioni che non possono essere eluse e che qui accenneremo soltanto: la necessità per la persona con disabilità di comporre o ricomporre un’immagine positiva di se stessa e di sentirsi «degna di essere amata»; quella di avere fiducia in se stessa e nella capacità di riuscire ad assolvere al ruolo di genitore; il superamento dello stereotipo che vuole la madre, la donna, in grado di prendersi pienamente cura del proprio figlio; la mancanza di modelli femminili simili cui riferirsi e con i quali potersi confrontare in merito a dubbi, timori e aspetti pratici; la mancanza di immagini sociali di riferimento… Ho pensato di utilizzare delle parti dell’articolo non per fornire un modello valido per tutti, ma come testimonianza utile per capire e far capire che essere madri disabili non è di per sé una «follia». La lettera sottolinea che «nel momento in cui inizia un rapporto di coppia nella convivenza, le problematiche sentimentali diventano le stesse delle persone normodotate» e che «la scelta di creare una nuova vita, quando i presupposti sono ottimali, avviene nella piena libertà della coppia, del tutto consapevolmente e indipendentemente dalle caratteristiche o dalle problematiche fisiche». L’autrice riconosce che l’accettazione esterna dell’eventualità di una mamma con deficit è cambiata in senso positivo e, a una variazione del clima culturale generale, spesso corrispondono variazioni delle scelte da parte delle singole persone: «Il superamento di tante barriere psicologiche ha fatto in modo che, solo negli ultimi anni, ci sia stato un incremento delle nascite da madri con problemi fisici. Ci auguriamo sia dovuto principalmente all’evoluzione della forma mentis, e quindi al nuovo pensiero comune raggiunto con la consapevolezza che una disabile sia sempre e principalmente una donna. I tempi evolvono, oggi c’è minore bisogno di lottare contro i preconcetti e le convinzioni sulla maternità chiamata diversa; ci auguriamo che le donne, anche se in sedia a rotelle, non siano più “sigillate” nel mondo delle “signorine”, speriamo non sia più chiesto se il loro bambino è stato adottato…».
Altrettanto interessante è notare come spesso le resistenze più ostinate si manifestino in ambito medico-scientifico, laddove tra l’altro non ce lo aspetteremmo. Tutto ciò perché, solitamente, si attribuisce alla scienza un ruolo di «motore di sviluppo», anche culturale, e in parte è certamente così. Ma «ascoltiamo» le parole dell’autrice della lettera: «Per una disabile è triste doversi scontrare con lo stupore e i preconcetti di ginecologi turbati dal desiderio di una diversamente abile di essere mamma. Sovente è ridicolizzata la richiesta dell’anticoncezionale, è chiesto se serve per regolarizzare il ciclo mestruale… Oppure i paramedici che chiedono come sia possibile per una donna in sedia a rotelle presentarsi da sola in ambulatorio e pretendere di voler salire sul lettino senza un accompagnatore».