L'Italia che riparte
Adelino Andreuzza ha 54 anni. Conosce la propria azienda – la Plastal di Oderzo, nel trevigiano – come le sue tasche. In ditta è arrivato nel novembre di trentuno anni fa. Ha fatto la gavetta Adelino. I primi passi li ha mossi in catena di montaggio, sporcandosi le mani, alle prese con i macchinari, quando ancora parlare di sicurezza negli ambienti di lavoro era una sorta di tabù. Ne ha fatta di strada, nel frattempo, l’operaio Andreuzza Adelino di Carbonera. Oggi, sempre all’interno della stessa azienda – leader italiana nella produzione di componenti per il settore automobilistico – che lo ha visto crescere, occupa un «bel» posto da dirigente. Fuori dal suo ufficio una targa con una scritta, in inglese, che specifica la sua mansione: coordinatore di tutti i processi che garantiscono, guarda caso, la sicurezza.
Anche Adelino, uno dei colletti bianchi con maggiore anzianità, non si è tirato indietro. «Da esperto in qualità ho accettato di tornare a lavorare in linea, allo stampaggio – afferma –. Era una situazione straordinaria e, per la verità, l’emergenza non si è ancora conclusa. Ci auguriamo che, entro l’anno – se andrà in porto l’acquisto da parte di un importante gruppo italiano – l’azienda ritrovi ossigeno. Sarei pronto a rifarlo se fosse necessario. Ho in mente l’imprenditore Adriano Olivetti. Quando la sua azienda si trovò in difficoltà, i dipendenti andarono a lavorare portando a casa, per tre mesi, uno stipendio simbolico, pur di salvare l’Olivetti».
Quella di Andreuzza è una delle tante storie che raccontano come l’Italia, con i suoi imprenditori e i suoi lavoratori, stia cercando di rimboccarsi le maniche e far fronte alla crisi. Colletti bianchi che tornano a mettere la tuta blu pur di non veder chiudere la propria azienda. Imprenditori e manager che, per primi, si autoriducono lo stipendio per far quadrare i conti e tentare di chiudere i bilanci un po’ meno in negativo. Operai che, dopo il licenziamento, hanno il coraggio di mettere in piedi essi stessi un’azienda. Storie che raccontano come, tra i fattori della produzione, il lavoro rimanga quello di maggior rilievo. Sono importanti la visione imprenditoriale e il rischio dell’impresa, ma altrettanto determinante è il capitale umano costituito dai dipendenti. Nel frattempo, a fotografare il contesto in cui avviene tutto questo, bastano solo alcuni numeri della crisi. Sulla base di una stima della Cgil, a settembre 2009, il ricorso alla cassa integrazione guadagni (cig) è stato di 104.921.800 ore (con un aumento rispetto allo stesso mese dell’anno precedente del 437,05 per cento), il più alto degli ultimi dodici mesi. La cig maturata fino a due mesi fa è stata di 622.048.920 ore con una crescita, rispetto allo stesso periodo del 2008, del 331,17 per cento. Eppure, nemmeno per chi è costretto a ricorrervi la decisione è così facile. «Per noi piccoli imprenditori, mettere in cassa integrazione un dipendente è un disonore – sostiene Giuseppe Morandini, alla guida della piccola e media impresa di Confindustria, che, tra crisi e stretta del credito, è tra i rami produttivi maggiormente colpiti –. Ci impegniamo la casa, piuttosto. Da noi i dipendenti hanno un nome, una faccia, una storia. Ci sono padri e figli nella stessa azienda, famiglie intere che lavorano con noi. Io sono sempre sul territorio e vedo un patrimonio inestimabile, gente che vuole andare avanti e non fermarsi».
Una ricchezza e una tipicità sottolineate anche dall’economista Giacomo Vaciago dell’Università Cattolica di Milano. «L’industria italiana sta stringendo i denti, ma non licenzierà – spiega il docente –. Se non l’ha fatto finora, è impensabile che lo faccia nei prossimi mesi, anche se dovrà ancora portare sulle spalle il peso della recessione. Le aziende del made in Italy hanno bisogno dei loro operai per ripartire. L’area che, secondo le previsioni, avrebbe dovuto subire il colpo peggiore era il trapezio industriale Torino-Trieste-Ancona-Firenze, ma qui le imprese non hanno licenziato, i buoni operai sono pochi e dalle competenze difficilmente sostituibili».
Lo sanno bene anche gli imprenditori che, dal cilindro, hanno tirato fuori soluzioni tra le più svariate pur di riuscire a traghettare le proprie aziende oltre l’empasse di un vertiginoso tracollo degli ordinativi, delle strette del credito e della pressione fiscale più alta d’Europa. È il caso di Ifi spa, sede a Tavullia (Pesaro), leader nel settore degli arredi per locali pubblici, che si è fatta garante con le banche nei confronti dei clienti. «Pur se in un momento di difficoltà generale – spiega il presidente Gianfranco Tonti –, stiamo cercando di dare maggiore respiro e tranquillità alla clientela sul fronte dei pagamenti, ricoprendo di fatto, con sacrifici e apprensione, un ruolo che spetterebbe a un istituto di credito. Ogni anno installiamo circa tremila arredi, il 70 per cento dei quali in Italia. Il nostro cliente non è l’utente finale – dunque il gestore di un bar o di un ristorante – ma una rete di concessionari, piccole aziende altamente specializzate. La crisi rischia di mettere al muro questo vero e proprio patrimonio aziendale fatto di capaci e appassionati imprenditori, così abbiamo deciso di intervenire in prima persona a loro tutela. Nel frattempo, la nostra esposizione finanziaria è aumentata del 27 per cento. Lavoriamo da molti anni con gli stessi clienti, gli stessi fornitori e le stesse banche, e questa forma di collaborazione di lunga data si è sempre dimostrata produttiva. Con rapporti collaudati nel tempo è più facile intendersi, soprattutto in momenti delicati come questo, in cui per poter andare avanti sono più che mai necessarie intelligenza e collaborazione. Si esce dalla crisi solo puntando sull’innovazione. Un esempio? Tonda, la prima e unica vetrina gelato rotonda e rotante al mondo, da noi progettata e prodotta, che ha già ricevuto importanti riconoscimenti».
Imprenditori credibili
Capita davvero di tutto in questo periodo. Ci sono imprenditori che ipotecano la casa per poter andare avanti, che mettono mano alle rendite personali per finanziare l’azienda, che riportano in Italia lavorazioni che erano state delocalizzate per pagare meno il costo del lavoro. Una crisi che si è cercato, quasi sempre, di affrontare insieme, aziende e sindacati, per ridurre al minimo gli impatti sull’occupazione. Alla Zannini di Castelfidardo, in provincia di Ancona, non appena i dipendenti sono andati in cassa integrazione, gli amministratori si sono ridotti lo stipendio del 30 per cento. «È una decisione che abbiamo preso senza pensarci due volte – ribadisce Marco Zannini, direttore generale di Zannini Spa, specializzata nella produzione di minuterie metalliche –. Nel primo trimestre di quest’anno abbiamo avuto un crollo di ordini del 30 per cento. Siamo stati costretti a ricorrere, per il 15 per cento dei 75 dipendenti, alla cassa integrazione. In contemporanea ci siamo tagliati lo stipendio del 30 per cento. Ritengo sia un gesto indispensabile per essere credibili nei confronti dei dipendenti ai quali chiediamo sacrifici e anche nei confronti delle banche. Sono convinto che almeno il 15-20 per cento dei miei colleghi abbia fatto altrettanto. Sono scelte che non dovrebbero neppure far notizia». Da ragazzo Zannini voleva diventare geometra e in fabbrica, anche se non gli piaceva andare, lo portava suo padre. La passione gli è venuta col tempo, stando in mezzo alle macchine, conoscendo da vicino le persone che vi lavoravano. «Mi sono posto, per i prossimi mesi, due obiettivi: avere il bilancio in pareggio, e ci riusciremo; quindi, conservare tutta la nostra forza lavoro, indispensabile per ripartire. A Katowice, in Polonia, abbiamo uno stabilimento. In quel Paese non ci sono ammortizzatori sociali: o si lavora o si licenzia. Ho radunato tutti i miei dipendenti e ho chiesto loro se erano disponibili a fare lavori umili, anche pulire un piazzale o fare sgrassaggi manuali. Mi hanno risposto che avrebbero fatto di tutto pur di continuare a lavorare. Così mi son messo a girare il Paese e a fare proposte. Sono riuscito a scovar fuori un lavoro di assemblaggio di piccoli particolari meccanici. In pochi mesi i dipendenti da dodici sono diventati cinquanta, e lavoriamo anche il sabato». La crisi è fatta anche di storie di disperazione e rassegnazione. Il rovescio della medaglia è quello di un’Italia che dovrà interrogarsi, e trovare soluzioni, di fronte a un numero sempre maggiore di famiglie sulla soglia della povertà. Nonostante il tasso medio di disoccupazione sia dell’8,5 per cento e i senza lavoro abbiano superato i 2 milioni 200 mila, in questo Paese dai mille volti l’Ufficio Studi della Cgia di Mestre stima un fabbisogno occupazionale di 524 mila unità. Le professioni più richieste dalle imprese italiane in questi mesi? Addetti alle pulizie, contabili, muratori e camerieri. Il 28,6 per cento di questo abbondante mezzo milione di nuovi lavoratori troverà un’occupazione nel Nord Ovest del Paese, il 28,3 per cento al Sud, il 23,2 per cento nel Nord Est e il 20 per cento al Centro. In termini dimensionali, invece, sono le piccole imprese a fare la parte del leone. Nel 62 per cento dei casi, infatti, sono proprio le realtà produttive con meno di cinquanta addetti ad aver dichiarato che, nel 2009, faranno ricorso a nuove assunzioni.
La sfida di Lorenzo
Non è mai troppo tardi, allora, per rimettersi in gioco. A volte possono bastare un piccolo aiuto dello Stato, tanta voglia di fare e un bagaglio di competenze acquisite all’interno di aziende costrette a chiudere i battenti. Lorenzo Costa ha 59 anni. Per quasi trentacinque è stato dipendente in un’azienda agroalimentare di Campobasso dichiarata fallita. Nonostante si sia trovato «a piedi» e senza un lavoro a un passo dalla pensione, ha deciso di aprire una cooperativa che produce la tipica pasta molisana. In questa nuova avventura ha coinvolto Antonio Rauso e Maurizio Pasquarelli, due ex colleghi, anche loro finiti in cassa integrazione e poi in mobilità. Ma lui le «mani in pasta» non le aveva mai messe.
Il lavoro di Lorenzo era sempre stato tra bolle di accompagnamento e fatture. «Era un’idea che avevamo in mente da tempo – spiega Costa –. L’abbiamo tirata fuori quando è stato il momento di uscire dalle difficoltà. Potevo accettare alcuni anni di mobilità e mettermi in congedo. Ho preferito rimettermi in gioco con i miei colleghi. Abbiamo dato vita a questa micro-cooperativa che produce pasta fresca col marchio “Granaio Molisano”. Facciamo solo pasta tipica, in formati unici, dalle trofie agli strozzapreti, dai cavatelli alle orecchiette. Siamo in tre, non abbiamo dipendenti. Stiamo in laboratorio, produciamo direttamente la pasta, la confezioniamo e poi la portiamo in giro. Siamo partiti con un investimento di 300 mila euro fatto di tanti piccoli pezzi: fondi europei e nazionali, riscatto della mobilità, Tfr. Per il momento abbiamo coperto i costi, vorremmo arrivare col tempo a un minimo di guadagno. Stiamo cercando di raggiungere la grande distribuzione. Non è facile, anzi oggi è ancora più dura. Ma abbiamo voglia di lavorare, il futuro non ci spaventa».
Per Lorenzo, Antonio e Maurizio la crisi sta rappresentando un’opportunità, un’occasione di riscatto.
Una visione diversa di cui è convinto lo stesso professor Vaciago per il quale «è stata una crisi subìta, non voluta e che non ci siamo meritati. Il nostro Paese è fin troppo strano: in questo momento non cresce, anzi, torna indietro, mentre il suo meglio, le sue eccellenze crescono ovunque, hanno successo e sono apprezzate in tutto il mondo. In attesa che il mondo cambi dobbiamo concentrarci sul merito, ma è difficile che un Paese lo faccia se non è abituato sin dai banchi di scuola. Per questo, la crisi è anche un’opportunità: ne può uscire un nuovo mondo. Il futuro sarà segnato, in tutti i campi, dal bisogno di cambiamento. E allora, come dice il Papa nella sua enciclica Caritas in veritate il “nuovo” che uscirà dalla crisi, grazie al discernimento della nuova progettualità, avrà bisogno di etica per il suo corretto funzionamento».
I numeri
8,5 %: tasso medio di disoccupazione nel 2009 (Germania 8,6%; Francia 9,6%; Spagna 17,3%);
8,8 %: tasso medio di disoccupazione previsto per il 2010;
2 milioni 200 mila: i senza lavoro in Italia;
524 mila: i nuovi lavoratori richiesti dalle aziende.
Emma Marcegaglia. Responsabilità e coesione sociale
Ci vorranno altri due-tre anni per uscire dalla crisi. Ne è convinta il presidente di Confindustria Marcegaglia: le nostre imprese, pur con grande fatica, hanno saputo mantenere la coesione sociale nel territorio.
È stata la prima donna a varcare, appena trentenne, il sesto piano di viale dell’Astronomia, sede di Confindustria. Presidente nazionale dei giovani imprenditori dal 1996 al 2000, presidente dei Giovani industriali europei dal 1997 al 2000, è stata prima vice presidente e oggi – da marzo 2008 – presidente dell’Associazione nazionale degli industriali. Prima donna a ricoprire tale carica (e anche la più giovane). Da quando è ai vertici di Confindustria il numero di piccole-medie imprese iscritte è aumentato del 7 per cento, toccando quota 135.320.
Presidente Marcegaglia, gli ultimi dati relativi alla produzione industriale parlano di un + 7 per cento registrato ad agosto. I più autorevoli osservatori sono convinti che la crisi sia ormai al giro di boa. È d’accordo?
Ci sono dei segnali positivi anche in Italia, non solo in Cina o in India. Stiamo uscendo dalla recessione, ma siamo ancora in emergenza. Il peggio non è ancora passato. La ripresa, come sostiene il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, sarà «lenta e fragile». Se ad agosto abbiamo recuperato il 7 per cento, dobbiamo altresì tener conto che il dato progressivo dell’intero anno è ancora negativo: siamo sotto del 18 per cento rispetto agli stessi indici dello scorso anno. Abbiamo settori che soffrono un calo del 30-40 per cento.
Quali sono le imprese che hanno sofferto di più?
La crisi è stata avvertita in misura maggiore dalle aziende del settore meccanico, dell’automotive, degli elettrodomestici. In alcuni casi ci sono stati crolli anche del 50 per cento. Per recuperare queste perdite ci vorranno anni. Non voglio fare la pessimista, ma è mio dovere dire le cose come stanno: sarà difficile, per i prossimi due-tre anni, tornare ai livelli precedenti la crisi.
Quali imprese sono ancora a rischio?
Quelle sotto-capitalizzate. A mio avviso, il tema della patrimonializzazione delle aziende è cruciale: imprese sotto-capitalizzate non possono reggere a quest’onda di crisi e nemmeno ai mercati mondiali post-crisi. Stiamo pressando con forza sulla leva fiscale chiedendo al governo di detassare i capitali o gli utili che vengono immessi in azienda dall’imprenditore.
L’Italia e la Francia sono capofila tra le nazioni che stanno uscendo dalla crisi. Il nostro Paese è riuscito a costruire un modello anche in tempi così bui?
Le nostre imprese hanno saputo stringere i denti. L’imprenditore e il lavoratore, grazie anche all’atteggiamento responsabile del sindacato in genere, sono riusciti finora, pur con grande fatica, a mantenere la coesione sociale nel territorio che per me rappresenta un bene assoluto. Mi dice Giuseppe Morandini, sulla scorta di incontri con centinaia e centinaia di piccoli industriali in giro per l’Italia, che non avverte rassegnazione, ma piuttosto un diffuso senso di solitudine. Dice che si sentono abbandonati da chi dovrebbe esercitare responsabilità politica.
Come rimettere in piedi l’Italia?
Penso ci siano dei punti irrinunciabili. Abbiamo avanzato una serie di richieste, a cominciare da soldi veri a favore della ricerca. In giacenza ci sono domande di credito di imposta per 700 milioni di euro presentate dalle piccole-medie imprese per poter investire in ricerca e innovazione. Chiediamo che vengano cambiate le regole in tema di appalti, in modo da velocizzare al massimo la costruzione di nuove infrastrutture. Chiediamo che sia alleggerita la pressione fiscale sui salari di secondo livello dei lavoratori, perché, d’accordo con il sindacato, pensiamo che, se non aumenta il reddito disponibile, non ripartono nemmeno i consumi. Serve grande responsabilità, da parte di tutti.