La salvezza in un «quasi»
Stavo facendo il pieno di benzina quando squillò il telefono. Mi sorprendo sempre quando suona il telefono, faccio un balzo sulla carrozzina, è più forte di me. A volte la sorpresa è giustificata, come lo era in quel caso. L’interlocutrice si è presentata e ha chiesto di incontrarmi di persona per parlarmi di un progetto che aveva avviato in Tanzania. Mi ha dato appuntamento per la settimana successiva.
Bruna Fergnani è una signora elegante, pacata, ma al tempo stesso dalla forte personalità. Di certo, capace di trasformare i «casi» in opportunità. Incontrandomi, Bruna mi ha descritto il suo progetto. Lascio a lei la parola: «Cercherò di far intuire cosa significa essere disabili in Tanzania. Grava sulla madre – ritenuta responsabile della nascita di un figlio diverso – la condanna all’isolamento sociale; grava sul figlio l’essere spesso considerato figlio del demonio. I padri quasi sempre scappano; a volte poi si dileguano anche le madri, abbandonando la prova della loro indegnità nelle mani di nonne che non possono fuggire.
In un mondo perennemente in cammino, chi non può camminare è condannato all’isolamento; in un mondo che lotta per la sopravvivenza, chi non può badare a se stesso è condannato all’oblìo. Accade anche che il disabile impari a tendere una mano, a trascinarsi sulla strada e a sorridere diventando fonte di guadagno per l’intera famiglia, o, al contrario, che sia preda di fanatici, convinti che basti un pezzo del suo corpo per guarire dall’aids. Ma queste persone hanno un nome. Viki, sedici anni, cammina come una paperetta e si comporta come una bambina di quattro mesi; molti sono convinti sia figlia del demonio e ne hanno paura. Ageni, tredici anni, era la più brava della scuola: molti pensano che il malocchio gettato su di lei dagli invidiosi l’abbia resa incontinente e paralizzata negli arti inferiori. Ageni spera che un esorcismo le restituisca l’uso delle gambe. La mamma di Stevin, quindici mesi, è stata cacciata da casa perché aveva messo al mondo un bambino che non sta seduto e non parla; il marchio di colpevolezza le ha indurito il viso. Viki, Ageni, Stevin e altri come loro vivono a Iringa; malattia, superstizione, ignoranza e miseria hanno quasi annientato la loro umanità, ma in quel “quasi” c’è posto per muoversi insieme verso una ritrovata dignità».
Bruna e il marito, dopo una vacanza in Tanzania, hanno fondato l’associazione Nyumba Ali (www.nyumba-ali.org) e aperto un Centro diurno a Iringa, per cercare di allargare gli spazi di quel «quasi» di cui parla Bruna. Non facile, se di mezzo c’è il demonio! Ecco un elemento interessante, l’associazione tra disabilità e diabolico. Proprio come in Occidente fino a trecento anni fa: ce n’è voluto di tempo per fare passi avanti. Lo spazio di manovra è ristretto, perché ci si relaziona con un piano trascendentale e assiologico: giusto-sbagliato, puro-impuro, buono-cattivo. Ovvio che per affrontare la disabilità occorre posizionarsi altrove, interrompere la catena del giudizio, scendere dal cielo, salire dagli inferi e restare sulla terra. Abbandonare la magia, le categorie e affrontare le persone. Non dobbiamo imporre una cultura a qualcun altro: questo non risolve i problemi. Ma nulla vieta di provare a inserirci negli spiragli di «quasi» che permettono, forse, un cambiamento. Nyumba Ali fa così: lavora sulla cultura, attraverso la pratica, fuggendo qualsiasi giudizio sulla realtà in cui opera.
Ancora oggi in Italia, quando passo, c’è qualcuno che si fa il segno della croce: quanto è difficile cambiare una mentalità! Occorre tenacia, pazienza, non avere paura del tempo che passa. E voi quanti «segni della croce» vi fate ancora? Scrivete a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook. Io, intanto, vi auguro buon Natale e un nuovo anno meraviglioso.