La lingua bene-dicente

«Allora il venerabile uomo messer Bonaventura (…) prese con reverenza la lingua fra le mani e con il viso irrigato di copiose lacrime, al cospetto di tutti i convenuti.
26 Gennaio 2010 | di

Frate Bonaventura, generale dei francescani, in quelle prime ore dell’8 aprile 1263, ottava di Pasqua, quando, attorniato da confratelli salmodianti, sollevò trepidante il rozzo coperchio della bara in cui era stato deposto trentadue anni prima il suo confratello Antonio, restò come paralizzato da una sorpresa che gli risvegliava ricordi e gli poneva interrogativi.

Era la seconda volta che si misurava con i segni della santità che lascia tracce indelebili: era bambino quando, per le preghiere di sua madre, san Francesco l’aveva guarito da una grave malattia; e lui cosa avrebbe potuto fare se non essere discepolo di chi gli aveva voluto così bene? E ora, mentre tutti attendevano che il corpo glorioso di frate Antonio facesse il suo ingresso nella grande nuova chiesa a lui dedicata, ecco un altro segno di cui era il primo attonito testimone: tra i resti mortali del Santo di Padova si imponeva il rosso colorito di un apparato vocale rimasto intatto dopo tanti anni. Non c’erano dubbi né inganni possibili: quella era la lingua di frate Antonio, la stessa che – assemblando vari idiomi – con simpatica cadenza lusitana aveva trascinato uomini e donne alla conversione. Lo immaginiamo, frate Bonaventura il teologo e futuro cardinale della Chiesa che, senza trattenere le lacrime, raccoglie quella reliquia mormorando: «O lingua benedetta, che sempre benedicesti il Signore e lo facesti benedire anche dagli altri, ora appare chiaramente quanto sia stato grande il tuo merito davanti a Dio!».

Non esiste letteratura che non sviluppi al negativo il tema della lingua per l’uso cattivo che sotto ogni cielo vien fatto di questa minuscola facoltà umana. Che altro mondo sarebbe, invece, quello in cui si potesse benedire, come fece Bonaventura, le lingue degli educatori, dei predicatori, dei politici, dei giornalisti... Bella sarebbe questa riconsacrazione del corpo umano, riconosciuto finalmente in grado di servire il bene.

Antonio era stato uomo della Parola e di parola. Preso dallo studio amoroso della Bibbia, sapeva che la Parola di Dio si sviluppa e si realizza continuamente anche attraverso le parole dell’uomo, che devono per questo motivo essere poche e accorte secondo lo spirito del Vangelo: «Sia il vostro parlare: “sì, sì”, “no, no”, il di più viene dal maligno». La gente che lo sentì predicare nelle piazze e nelle chiese di Padova lo volle santo subito perché lo colse sincero, uno che chiamava bene il bene e male il male, senza guardare in faccia nessuno.

Dai Sermoni di Antonio possiamo trarre alcuni insegnamenti che derivano dal suo virtuoso comportamento. Innanzitutto circa il pudore della parola: si deve essere lenti nel parlare perché «la natura stessa ha insegnato questo, quasi chiudendo la lingua a doppia porta perché non uscisse liberamente, cioè i denti e le labbra, per indicare che la parola non deve uscire se non con grande cautela». Che senso ha una parola oziosa, disinformata, che scandalizza, che non educa? È veramente coraggioso il Santo che, anche di fronte ai prelati e alla gente che conta, non teme di fare accostamenti di parole che oggi ci imbarazzerebbero: «Ahimè, quanti religiosi stanno oggi senza mangiare carne, e poi con il dente della calunnia e della detrazione dilaniano i loro fratelli»; e aggiunge senza arrossire: «Serra dunque i denti, stringi le labbra, affinché la meretrice non entri nel lupanare». Sant’Antonio ci insegna che spesso la parola non pronunciata è la migliore. Sentiamolo mentre utilizza anche elementi della scienza naturale del suo tempo: «La saliva dell’uomo digiuno uccide il serpente; la lingua digiuna, cioè mortificata, è come una lingua nuova, il cui avvelenamento annulla il veleno». Mi sembra voglia dirci come spesso la pace e la guerra inizino sulla punta della nostra lingua.

Ma la lingua ci è preziosa e necessaria anche per riconoscere i nostri peccati, mentre la sua stessa forma lo facilita: «Nella confessione del peccato dobbiamo parlare, cioè confessare apertamente, totalmente e senza veli i nostri peccati; la lingua deve essere cedevole, molle, vale a dire bagnata dalle lacrime; deve essere larga nella riparazione di tutte le offese arrecate, nella restituzione di tutto il mal tolto e nella serietà del fermo proposito di non più ricadere in peccato».

Antonio seppe parlare, così come seppe tacere. Ho l’impressione che parlò ogniqualvolta fossero in gioco i bisogni e i diritti dei più poveri, come quando perorò presso il Comune patavino la causa dei debitori senza colpa o come quando affrontò il tiranno Ezzelino che spadroneggiava sulle vite altrui oltre ogni limite. Invece non risulta che abbia mai parlato per imporre la sua scienza, per scalare il potere, per affermare se stesso. Il pensoso frate Bonaventura che mostra ai frati e al popolo questo segno che nessuno si aspettava, si rendeva conto che Antonio non era solo un dispensatore di grazie, ma una persona che insegnava un preciso stile di vita. E quando qualcuno ci insegna uno stile di vita continuativo e costante, cioè a essere virtuosi, diventiamo meno disponibili all’errore.

Perciò la provocazione di quella lingua rimane sempre intatta.
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017