Le lumache e le more

Nati e cresciuti a Milano, quando scendevano tra le colline del Monferrato, sembravano leoni cui fosse stata aperta la gabbia.
26 Gennaio 2010 | di

Quando anche la più piccola acquistò uno stabile equilibrio sulle due gambe cominciammo a portare i tre, la domenica, in campagna. Nati e cresciuti a Milano, abituati alle asfittiche aiuole dei giardini pubblici, quando scendevano dall’auto tra le colline del Monferrato sembravano leoni cui finalmente fosse stata aperta la gabbia. Chiudevo il cancello del cortile, e li lasciavo liberi di razzolare.

Le pozzanghere, le lumache, le more: ogni cosa era scoperta e tesoro. Giacche vecchie, stivali di gomma, potevano anche rotolarsi nel fango. Quando pioveva, le pozzanghere le andavamo a cercare: quelle grandi e profonde, quasi da guadare. Anzi a dire la verità ero io che li istigavo a sguazzarci dentro, proprio come facevo da bambina in montagna, quando passavo le ore a farci navigare le barche di carta stagnola. Sotto la pioggia, dentro le cerate procedevamo in fila, saltando, schizzandoci, ridendo. Volevo insegnare ai miei figli la meraviglia dell’odore della terra bagnata, e la bellezza del cielo che riappare quando le nuvole si aprono; e l’ebbrezza del vento forte in faccia, che quasi toglie il respiro. Bello era poi, a casa, il caldo del camino – altra cosa sconosciuta ai tre, e guardata con occhi spalancati, come un’arcana magia –. La cappa nera, e la prima fiamma, e i vecchi ceppi che lentamente cominciano ad ardere scoppiando in scintille: l’incanto del fuoco che ipnotizza e poi nel tepore intorpidisce, mentre fuori fa freddo. Quell’aria, poi, che ha tutto un altro odore: e a respirarla sembra un bicchiere d’acqua di sorgente (quante cose non sanno, i bambini di Milano). Oppure scoprire, una mattina, proprio fuori dalla porta di casa, che in una scatola una gatta ha fatto i gattini. Quattro, già voraci nel succhiare. La meraviglia dei figli, chini su quella culla come davanti a un presepe; lo stupore, nel vedere che anche una gatta sa accudire i suoi piccoli, e difenderli; e, «chi è che insegna a fare la mamma alle gatte?». Dietro le cose della natura, in trasparenza, la legge della vita.

Imparavano un altro alfabeto. Forse di più: un mondo. Perché è diversa la notte di un condominio metropolitano da quella della campagna, quando nel silenzio assoluto il canto di una civetta è così strano. Quando il vento che soffia tra i rami fa un po’ di paura; e ci si stringe allora tutti vicini, nel letto grande. E in cantina, quella cantina grande e oscura, cosa succederà di notte? Scricchiolìi, fruscii, come se la vecchia casa parlasse. «Ci deve essere un topo», li tranquillizzavo sorridendo.

A un certo punto la presenza di topi sconfinanti in cucina si fece un’evidenza. Come si combattono i topi? Ci occorre un gatto, decisi. Ci facemmo prestare dai vicini il loro, forte e ben pasciuto, cresciuto probabilmente, a giudicare dalla stazza, con i resti dei famosi bolliti piemontesi. Depositai dunque delicatamente il gatto in solaio. I bambini gli giravano attorno, eccitati, convinti di stare per assistere a un cartone animato. Il gatto si guardò attorno perplesso, si sedette, mi fissò come a dire: e adesso, che facciamo?

Lo lasciammo solo, pensando che dovesse concentrarsi. Dopo dieci minuti miagolava per ridiscendere in casa al caldo. Di topi, nessuna traccia (già, perché uno abituato ai bolliti dovrebbe dare la caccia ai topi?). I figli non se la presero, e consolarono il grasso gatto infreddolito. «Mamma, ma i topi, poi, che fastidio danno?». Bambini di città, cresciuti a cartoni animati. Cos’è un topo? È Ratatouille, è Topolino. «Mamma, non vorrai mica assassinare quei poveri topi?» (solo in gran segreto potei affidare a un vicino l’incarico di sterminare le bestiacce).         

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017