Tenere Dio tra le braccia
Msa. Padre Cappelletto, che significato assume per voi frati questa ostensione del corpo del Santo?
Padre Cappelletto. Per alcuni di noi, soprattutto i più giovani, questa è la prima, e probabilmente anche l’unica volta, in cui sarà possibile vedere il corpo di sant’Antonio. Per tanti altri, compreso il sottoscritto, è invece la seconda volta, avendolo già visto nel corso dell’ostensione del 1981. Per tutti, comunque, si tratta di un evento speciale ed emozionante sia da un punto di vista umano che di fede, perché rappresenta un richiamo forte alla nostra realtà di frati. Essere, anche se impropriamente, chiamati «frati antoniani», ci dà una responsabilità enorme (così come essere radicati nella figura di san Francesco d’Assisi che è il fondatore del nostro ordine): mostrare nel senso biblico, cioè far sperimentare, alle persone che incontriamo l’amore misericordioso di Dio per tutti. L’aspetto che più di altri accomuna Francesco e Antonio, cioè il Maestro e il Discepolo, è proprio il non negare a nessuno la possibilità di un incontro personale – capace, quindi, di far maturare la propria fede – con il volto misericordioso di Dio testimoniato da Gesù Cristo.
Credo che, per noi frati, sia questo il senso profondo dell’ostensione: un’opportunità unica di mettersi di fronte a un corpo che non è semplicemente – mi si passi l’espressione – uno «scheletro», ma il messaggio vivente di una misericordia fondata in Dio e possibile per tutti. Francesco e Antonio, infatti, hanno testimoniato che ogni persona davanti a Dio è recuperabile, anche quella che la società tenderebbe a emarginare o a condannare. Basti pensare al lupo di Gubbio per Francesco, o ad Ezzelino da Romano per Antonio: con entrambi, i due Santi hanno voluto e saputo, anche se con esiti differenti, entrare in una dimensione relazionale.
Che cosa vuol dire per un frate accogliere e portare avanti l’eredità spirituale di Antonio?
È una grande sfida che dobbiamo vivere giorno dopo giorno. È un richiamo continuo a una conversione non tanto dei comportamenti esteriori quanto degli atteggiamenti del cuore. Antonio, che ha coltivato la relazione con Dio in modo talmente profondo da giungere ad averlo tra le braccia [il riferimento è all’episodio, tramandato dalle cronache, avvenuto a Camposampiero: il Santo fu visto in estasi con Gesù bambino in braccio, ndr], ha saputo trasmettere, a chi l’ha incontrato e ha avuto la fortuna di poterlo ascoltare, la sua esperienza di creatura amata da Dio. Qui a Padova, per esempio, ciò avveniva soprattutto durante le sue confessioni e le instancabili predicazioni.
Antonio è ancora oggi testimone dell’amore di Dio: i milioni di pellegrini che continuano a visitare la sua Basilica, a rivolgersi a Dio attraverso la sua intercessione, dicono proprio questo. È chiaro che l’amore immenso di Antonio nei confronti di Dio scopre la nostra pochezza, ci rende consapevoli, cioè, di quanto cerchiamo, spesso, di «arrangiarci» con Dio. La sfida, dunque, è di passare dall’arrangiarsi al fare esperienza concreta del volto di Dio al punto tale da «tenerlo tra le braccia», perché questo ci permette il nostro Dio.
Quest’anno la Chiesa sta celebrando l’anno sacerdotale. Francesco e Antonio ebbero nei confronti dei sacerdoti due atteggiamenti, almeno all’apparenza, profondamente diversi. Francesco invitava i suoi frati a essere sottomessi ai sacerdoti nonostante le loro eventuali mancanze. Antonio, nei Sermoni, ha scritto pagine davvero critiche nei confronti del clero. Che cosa ci dicono questi due grandi santi in quest’anno così importante per tutta la Chiesa?
È vero. Mentre Francesco raccomanda ai suoi frati di rispettare sempre il sacerdote (anche quando avrebbero motivi per non farlo) perché è colui che ha il compito di rendere presente il corpo del Signore, Antonio ha delle pagine piuttosto dure contro i prelati e i religiosi del suo tempo che, per dirlo in un linguaggio moderno, «baravano al gioco», mancavano cioè di coerenza.
Il richiamo di Antonio alla coerenza è fermo e deciso. In un suo sermone, afferma: «Tacciano le parole, parlino i fatti», cioè i gesti, le scelte concrete. Anche se va chiarito che coerenza con il Vangelo non significa ricerca di una perfezione moralistica, psicologica o esistenziale. La gente vuole preti credibili, ai quali poter dire: «Sei uno di noi, ci accompagni nel nostro cammino perché nelle scelte, negli atteggiamenti, nei sentimenti, anche se sei pienamente umano, ti dimostri capace di incarnare quella grazia che il Signore ti ha dato».
Lei ha insegnato per molti anni la «Parola», come biblista, nell’Istituto teologico Sant’Antonio dottore; la missione di predicare la Parola fu quella che più caratterizzò la vita di Antonio. In che modo, oggi, i frati si fanno carico di questo impegno?
Come docente, per molto tempo ho cercato di trasmettere l’amore per la Parola all’interno di uno Studio teologico. Ora che non insegno più, mi sto rendendo conto che non è comunque venuta meno per me la possibilità di servire la Parola, sia nella predicazione (cioè nell’omiletica, preparandomi in modo coscienzioso per non parlare a vanvera) sia nella confessione, sia, infine, nella direzione spirituale. L’incarico di Ministro Provinciale mi sta offrendo anche un’altra opportunità di essere al servizio della Parola: il colloquio personale con i frati. Il dialogo con il confratello è un momento molto intenso e fruttuoso, che mi chiede di andare al di là delle norme giuridiche, oltre il senso del dovere, dei «bisogna», «si deve», «dobbiamo fare», per raggiungere il cuore della Parola, che interseca e tocca la vita. Stimo e apprezzo i miei confratelli che cercano di diffondere la Parola in qualsiasi contesto si trovino: in Basilica, così come nelle parrocchie o negli altri santuari, attraverso la predicazione o l’ascolto delle persone; al «Messaggero di sant’Antonio» attraverso quel pulpito mediatico; al «Pane dei poveri» o alla «Caritas Antoniana» cercando di incarnare quella Parola che sta alla base della nostra vita di credenti. Poi, è ovvio, ciascuno di noi fa questo con i limiti umani che noi stessi conosciamo e che la gente qualche volta ci sottolinea.
La Provincia padovana di Sant’Antonio dei frati minori conventuali ha iniziato da qualche tempo un cammino che la porterà all’unificazione con la Provincia bolognese, anch’essa dedicata a sant’Antonio. Il legame comune con il Santo potrà essere di stimolo in questo cammino di unificazione?
Sant’Antonio è vissuto per quasi un anno a Padova dove ora il suo corpo riposa: per questo motivo la nostra Provincia religiosa è a lui dedicata. Ma sant’Antonio è vissuto anche nelle zone vicine a Bologna: per un anno e mezzo circa ha sostato a Montepaolo dedicandosi a vari compiti, dalla celebrazione eucaristica alla preghiera, alle faccende domestiche. Ed è proprio a Montepaolo che è «esploso» l’Antonio che tutti conosciamo, maestro di predicazione e profondo conoscitore della Parola di Dio. Per queste sue doti Francesco gli affida il compito di «insegnare teologia» (disciplina all’epoca tutta centrata sulla Scrittura) ai frati, purché non estingua – come dice ancora Francesco –, lo spirito di orazione, vale a dire l’esperienza della preghiera e dell’ascolto profondo. Quindi Antonio ha un legame storico anche con la Provincia bolognese.
Questo aspetto indubbiamente ci unisce: siamo legati non da vincoli giuridici ma dalla stessa esperienza di Antonio. Proprio nel suo nome stiamo vivendo il processo di unificazione, che avverrà giuridicamente nel 2013, e io credo che avere lui come criterio di unità sia una grande risorsa.
Il cammino svolto guardando insieme ad Antonio verrà sancito dal nome della nuova realtà che si chiamerà proprio Provincia di sant’Antonio di Padova.