Il ritorno

Entriamo in un santuario per amare di più Dio. Ma se non ne usciamo per amare di più gli altri, avremo anche percorso migliaia di chilometri, ma non ci saremo schiodati di un centimetro da noi stessi.
23 Febbraio 2010 | di


Immaginiamoci per un attimo il nostro pellegrino medievale che andava lemme lemme a Santiago o a Gerusalemme (e noi, nonostante il tempo trascorso, gli assomigliamo ancora tanto: forse non nell’abbigliamento e nei mezzi di trasporto, ma certo in ciò che ci fa muovere verso i luoghi santi). Stanco, più povero di cose rispetto a quando era partito ma carico di chilometri fisici e mentali, il nostro amico, dopo aver raggiunto la meta tanto agognata nelle notti insonni sotto le stelle, se ne tornava con nostalgia a casa, rifacendo il percorso a ritroso, e portando con sé il segno dell’avvenuto pellegrinaggio: la conchiglia iacopea o la palma di Gerico (o per noi una delle tante chincaglierie che oggi, come allora del resto, si possono trovare negli innumerevoli banchetti che attorniano i nostri santuari).

Ed è così simbolicamente importante «riportarsi indietro qualcosa», che siamo disposti ad acquistare oggetti che, quanto a qualità, mai ci sogneremmo di comprare in altro contesto!


Ma con passo diverso sta ora camminando il pellegrino. Con in testa propositi che non vede l’ora di mettere in pratica. Col cuore più caldo: quante cose da fare una volta arrivato a casa. Miriadi di episodi strabilianti da raccontare: cose viste, opere d’arte ammirate, amicizie fatte, paure, momenti di difficoltà superati con impensati aiuti… Ragazzi, che viaggio!

Ma soprattutto un modo diverso, ormai, di vedere le cose e di considerare la propria vita. La consapevolezza che, sì, abbiamo bisogno di muoverci, di spostarci, ma che l’unico posto dove dobbiamo e possiamo veramente traslocare è all’interno dei nostri e altrui cuori. Per questo il momento più importante del pellegrinaggio è il ritorno: il bello viene proprio allora! E per questo un pellegrinaggio non finisce mai: perché camminare è esercizio che ha se stessi come tappa che si ripete spostandosi in avanti. E se si torna, si torna sempre «altrove»: perché il pellegrinaggio (l’esperienza fatta, il santo davanti alla cui tomba abbiamo pregato, i sacramenti a cui ci siamo devotamente accostati) ci si «attacca addosso»: ci segna, lascia tracce di «radioattività spirituale» nel nostro cuore. Siamo stati via anche solo un paio di giorni, ma tutto ora ci sembra più piccolo: perché l’esperienza vissuta ci ha allargato il cuore e la vista. Ci ha aperto nuovi, misteriosi e ben più impegnativi percorsi…


Voglia il cielo che tutti capiamo come l’unico vero pellegrinaggio che ora ci resta da intraprendere è quello verso il nostro fratello e la nostra sorella: il vicino di casa o di pianerottolo sono ora la «chiesa» da visitare; il povero accanto al quale passiamo ogni mattina è la nostra «Terra santa»; l’altro è l’«immagine sacra» di fronte alla quale mi devo inchinare e che devo baciare con passione. Perché entriamo in un santuario per amare di più Dio, è vero. Ma se non ne usciamo per amare di più gli altri, avremo anche percorso migliaia di chilometri, ma non ci saremo schiodati di un centimetro da noi stessi…

Buon ritorno a casa!

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017