«Aiutami a non avere paura»

Genitori di bambini malati raccontano la loro sofferenza. Ma lanciano anche un messaggio di speranza: con la malattia di un figlio si può convivere, purché non ci si isoli.
23 Febbraio 2010 | di

Bambino-futuro. Malattia-cronica. Il gioco delle associazioni funziona se i primi due termini non incontrano i secondi. È «normale» pensare che il figlio che aspetti, quello che muove i primi passi, sarà un giorno un uomo o una donna padrone della sua esistenza. Come è «ovvio» collegare la malattia all’idea di vecchiaia. La vita, di solito, funziona così. Se però ti trovi in quella percentuale di genitori che hanno un figlio malato cronico, sai quanto sia difficile fare i conti con l’idea di futuro: l’orizzonte sembra chiudersi, il domani tingersi di nero, la vita dirigersi su binari mai pensati prima di allora. «Quando apprendi la notizia, resti sconcertato: quello iniziale è un momento drammatico, ti senti solo di fronte a malattie dalle sigle sconosciute, non sai minimamente di cosa sta parlando il medico».

Fabrizio Lanfiuti Baldi ha iniziato la sua «nuova» vita sette anni fa, quando a suo figlio, tre anni, diagnosticarono una sindrome da immunodeficienza. Rimase per un mese ricoverato con il piccolo al Bambin Gesù, a Roma, a seguito di quello che per altri bambini sarebbe stato un semplice colpo di freddo. «Questi soggetti non creano gli anticorpi, o li producono in numero insufficiente – aggiunge Fabrizio –. Una ferita, un’influenza, espongono a un alto rischio di infezioni. Anche un raffreddore può portare complicanze a livello polmonare. Proprio com’è successo a mio figlio, che per una bruttissima polmonite è stato quindici giorni in rianimazione: praticamente non respirava più». Quarto di sei figli, il piccolo ha giocoforza catalizzato l’attenzione di mamma e papà, e i turni in ospedale, le lunghe assenze da casa hanno creato degli squilibri tra fratelli e genitori: «Si va dalla semplice gelosia, perché le attenzioni vengono rivolte al figlio malato, a problemi più seri. Abbiamo cercato di essere equilibrati dal punto di vista affettivo con gli altri figli, ma non è facile, anche perché ognuno deve fare i conti con le proprie paure».

In questi anni Fabrizio e la moglie hanno chiesto ai figli maggiori di accompagnare il bambino, che oggi ha dieci anni, nei day hospital a cui si deve sottoporre almeno una volta al mese. «Dopo aver visto il fratello attaccato alla flebo per cinque ore sono diventati più premurosi. Questo non evita il conflitto, ma ha creato una maggiore consapevolezza del disagio e della sofferenza». Se prima, a proposito di immunodeficienze, si parlava di «sopravvivenza» del malato, oggi la categoria usata è quella della «qualità di vita»: le aspettative si sono allungate e le terapie mediche, per buona parte dei casi, permettono al bambino di fare una vita relativamente «normale», anche se «ritmata» da una frequente ospedalizzazione che lo costringe ad assentarsi da scuola una o due volte al mese. Una «diversità» che segna il rapporto dei genitori con i fratelli, e mette a dura prova il legame di coppia. «Mia moglie e io ci siamo sostenuti con la preghiera comune. Certo, il confronto va cercato e costruito ogni giorno. E non è scontato: in alcune coppie c’è il rifiuto da parte di uno dei due di accogliere la novità della malattia e allora, o il papà o la mamma, si ritrovano da soli ad affrontare la situazione. A volte, però, attraverso il dialogo, il supporto psicologico, le risorse personali, la spaccatura si può ricucire. Insomma, se non è automatico che il rapporto si rinsaldi, non lo è neanche che si rompa». Per Fabrizio è stata di grande aiuto la sperimentazione psicologica che sta facendo al Bambin Gesù, attività che coinvolge i pazienti in età pediatrica, i genitori e anche il personale infermieristico. Ma un sostegno è giunto pure dall’Associazione immunodeficienze primitive (Aip – www.aip-it.org), di cui Fabrizio è diventato responsabile per il Lazio. L’associazione raccoglie genitori di malati in età pediatrica e pazienti in età adulta, promuove scambi di conoscenze tra pazienti e medici e sostiene progetti di ricerca. «Quando incontro un genitore di un altro bambino malato, lui capisce di cosa parlo e viceversa. E già questo è di conforto». Il primo consiglio che Fabrizio rivolge a chi è nella sua stessa situazione è immediato: «Non disperarsi, non chiudersi in se stessi, perché altrimenti prima o poi si crolla. Cercare di mantenere, se possibile, il proprio lavoro, per non essere completamente assorbito dalla malattia. Pregare, se si ha fede, e confidare nell’aiuto di Dio. E poi ricordare sempre che con una malattia cronica ogni giorno è regalato: io lo penso ogni volta che vedo giocare e sorridere mio figlio. Insomma, bisogna imparare a vivere un pochino alla giornata, senza cedere alla tentazione di vedere un futuro nero che chiude ogni prospettiva di speranza».

Da Roma a Torino. Il consiglio di Fabrizio rimbalza nelle parole di Cristiana Voglino: «Non rimanere soli nel dolore, dare qualità ai pochi momenti in cui si sta insieme, imparare ad ascoltare se stessi e i propri bambini». La malattia, che cinque anni fa i medici del Regina Margherita di Torino diagnosticarono a una bambina di sette anni, la figlia di Cristiana, non ha una sigla per addetti ai lavori, anche se risulta difficile da pronunciare: cancro al cervello. «Ci siamo sentiti “schiantati”, devastati dalla diagnosi. Come spesso accade nei casi di tumore cerebrale, noi genitori non avevamo avuto il tempo di vedere i sintomi». I forti legami creati da subito dentro e fuori la struttura ospedaliera hanno aiutato Cristiana e il marito a non precipitare nell’abisso della disperazione. Dagli operatori sanitari al neurochirurgo, dalla maestra dell’ospedale alla neuropsichiatra, alla fisioterapista della Asl, un «esercito» di persone ha vissuto l’avventura della malattia. E alla fine ha chiesto a Cristiana, attrice e musicista, impegnata in corsi e seminari di didattica teatrale, di scrivere quella storia che non avrebbe mai voluto raccontare. Da qui è nato Aiutami a non avere paura (ed. Claudiana), un libro corale che raccoglie l’esperienza di uomini e donne che per lavoro o storia personale – molti costretti dalla malattia di un figlio – hanno dovuto fare il «grande salto»: assumere in carico il dolore, elaborarlo e seguire quello che l’autrice chiama «il durissimo ma ricco cammino verso la pedagogia del coraggio». Aiutami a non avere paura è il grido di aiuto lanciato da un bambino affetto da una gravissima malattia. Nel racconto assume un valore trasversale: vale per il bambino, vale per il genitore, ma vale anche per il medico. «Credo non sia giusto negare la paura. Fortunatamente con il passare degli anni si impara a mettere in atto una serie di strategie per controllarla e talvolta aiuta a migliorare se stessi» afferma la neurochirurga che ha operato la figlia di Cristiana (che oggi ha dodici anni, ha subito l’asportazione di una parte del tumore, rivelatosi benigno, e convive con la sua malattia). Intorno al libro sono nate varie iniziative (www.aiutamianonaverepaura.it): tra queste l’associazione culturale «Ante scena» che, tra le varie attività, debutterà il prossimo aprile con lo spettacolo teatrale tratto dal testo ed è impegnata nel «tic», il «teatro in corsia», tra i letti degli ospedali infantili nei reparti di lungodegenza.


La «seconda vita» dei genitori

Senza nascondersi dietro le parole, le pagine del libro, illustrate dai disegni dei bambini del Regina Margherita, raccontano «la seconda vita» dei genitori che si ritrovano in un reparto di oncologia pediatrica: l’ospedale che diventa la «prima» casa e alla fine rischia di essere un’oasi sicura contro la «normalità» esterna; il mondo di complicità che si crea con gli altri genitori; il «fare il tifo» gli uni per i bambini degli altri e la difficoltà a trovare le parole per chi non ce l’ha fatta; le diverse reazioni di amici e parenti di fronte alla malattia; ma soprattutto la trasformazione della realtà nel mondo magico dei bambini che riescono a creare spazi di gioco e di meraviglia anche tra drenaggi e flebo, tra risonanze magnetiche e riabilitazioni motorie.

«I bambini sono fantastici. Anche chi sapeva che quelli sarebbero stati i suoi ultimi giorni, continuava a preservare il suo mondo magico. Loro ti insegnano che tutto è possibile. E in quel tutto c’è anche la morte». «Nella malattia – aggiunge Cristiana – i piccoli non ti consentono di dire bugie. Da mia figlia ho imparato che, nel dolore, è fondamentale che ognuno mantenga il suo ruolo: l’adulto fa l’adulto e il bambino il bambino. Loro ti chiedono di dare delle risposte, e se non le hai devi ammetterlo». Cambia la relazione con il partner? «Sarebbe più facile dividersi che stare insieme. Uno sta in ospedale, l’altro lavora, ti incontri solo per darti indicazioni su pasti, antibiotici, terapia. La coppia finisce per svanire, si diventa due genitori con figlio. Uomini e donne reagiscono in modo diverso. Ma se riesci a recuperare il valore della differenza, la coppia cresce. È banale dirlo, ma è così: si rivede la propria scala di valori, dando molta più importanza alla bellezza degli istanti, all’intimità fatta di piccole cose, agli sguardi».



L’intervista. Accoglienza e ascolto


Come comunicare la malattia? Gianni Biondi, direttore dell’Unità operativa di psicologia pediatrica dell’ospedale Bambin Gesù, spiega come aiutare genitori e piccoli pazienti.


A volte sono i piccoli pazienti che gli chiedono di «non dire nulla alla mamma altrimenti si preoccupa». Sì, i bambini «capiscono il ruolo dello psicologo meglio degli adulti». Il dottor Gianni Biondi è direttore dell’Unità operativa di psicologia pediatrica dell’ospedale Bambin Gesù. Da quasi trent’anni è a capo di questo reparto che ha il compito di «accompagnare» figli e genitori nella convivenza con la malattia. Tanti e di tutti i tipi i casi che arrivano: lo scorso anno quasi 54 mila interventi di pronto soccorso, 930 mila interventi in ambulatorio, 24 mila interventi chirurgici, 30 mila ricoveri e 103 mila day hospital.

Msa. Come si comunica con il piccolo paziente e con i genitori?

Biondi. La qualità dell’assistenza si sintetizza in tre parole che iniziano per «A»: accoglienza, ascolto, accompagnamento. La prima «a» è relativa alla comunicazione della diagnosi, il mettere a suo agio il bambino e la famiglia di fronte alle prime pratiche cliniche. La seconda «a» è quella dell’ascolto delle domande dei bambini, ma anche dei silenzi, che a volte sono più eloquenti di tante parole; e infine l’accompagnamento, il dare continuità e qualità all’intervento nel tempo.

Cosa intende per diagnosi accogliente?

La comunicazione della diagnosi è fondamentale perché è in grado di influenzare la capacità dei genitori di fare fronte alla malattia del figlio, in termini di collaborazione e di minore ansia. Al contrario, abbiamo osservato che i casi in cui c’è una distanza tra genitori e medico, sono quelli che portano ai cosiddetti viaggi della speranza. Una delle mancanze più grosse delle università di medicina è quella di non soffermarsi sulla preparazione dei medici chiamati a comunicare la diagnosi, evento che per il malato e la sua famiglia è spesso come un pugno allo stomaco, che provoca grandi cambiamenti in tutto il sistema familiare.

Come cambiano le relazioni?

Chi giunge da noi con un figlio malato si porta dietro una grande sofferenza, a volte difficoltà di relazione, separazioni. Riuscire a sostenersi vicendevolmente è molto importante per il bambino. Specialmente nella malattia cronica complessa c’è il rischio che ci si faccia invadere, che la malattia prenda tutto, e chi paga il prezzo più alto molte volte sono i fratellini. In questi casi prendiamo in carico la famiglia e l’accompagniamo lungo tutto il percorso del ricovero e poi dei controlli.

Si comunica tutto anche ai più piccoli?

Più il bambino è informato e più sarà alto il suo livello di collaborazione. Le malattie croniche – diabete giovanile, celiachia, fibrosi cistica – pretendono grande collaborazione per la dieta e la terapia: se diamo al bambino la possibilità di poter fare domande avendo risposte serie, sarà più difficile che a livello adolescenziale si abbiano comportamenti oppositivi.

Come aiutate i genitori?

Lavorando su due elementi: il coping e la resilienza. Il primo termine indica la capacità di fronteggiare i problemi: nessuno immaginerebbe come i genitori siano in grado di tirare fuori tanta forza in quelle situazioni. Forse è la natura, di sicuro la fede può aiutare molto. La resilienza, invece, è una parola che viene dalla fisica e indica la capacità di un materiale di schiacciarsi per la pressione e poi di ricomporsi come prima, di riprendere nel tempo funzioni, capacità, attività psicologiche che si pensava di non riuscire a recuperare.

Un genitore che vive una situazione difficile cosa può chiedere al medico?

Di avere una continuità di informazione. Molte volte i colleghi informano anche bene, però rischiano di pensare che quella informazione singola sia stata esaustiva. Nella realtà, il trauma al momento della prima informazione è talmente forte che è difficile capire. Consiglierei di chiedere di poter rivedere il medico per fare tutte quelle domande che per ragioni diverse non sono state fatte. Farsi aiutare da un medico o da uno psicologo su come informare il bambino o l’adolescente; e chiedere che ci sia un unico referente che riassuma in sé le varie consulenze, in maniera tale che si crei una relazione e il genitore si senta più rassicurato.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017