Sulla strada delle «Casère Noie»
La passeggiata alle Casère Noie era la meta ufficiale di mezz’agosto. Si raggiungevano dopo un’oretta di cammino verso la chiesetta di San Mauro, in cima alla montagna, che rappresentava uno sforzo maggiore e non era alla portata di tutte le gambe. Ma le Casère erano più abbordabili, e offrivano uno spettacolo inquietante e affascinante: un gruppo di costruzioni abbandonate in cima a un grandissimo prato in pendio, ormai incolto. Il sentiero proseguiva a lato, e man mano si faceva più ripido.
La prima volta che ci arrivammo, era solo da poco tempo che non ci andava più nessuno a fare l’alpeggio, e sembrava che fossero state abitate fino al giorno prima. C’erano attrezzi e un carro da fieno nella legnaia, gerle posate in un angolo, bidoncini di plastica per il latte, una ciotola scheggiata di ceramica a fiori appoggiata sul tavolone, come lasciata da un pastore che si fosse momentaneamente allontanato: tracce della semplice vita estiva che si notavano dappertutto, mentre il grande prato, in fondo al quale luccicava un ruscello, non era ancora scomparso in mezzo agli arbusti e ai cespugli di noccioli: l’erba era cresciuta, selvaggiamente, ma le tracce del morbido declivio dove pascolavano le mucche si intravvedevano ancora.
Cupe storie di guerra e di fantasmi aleggiavano intorno alle Casère. Si diceva che lassù si erano rifugiati dei disertori, e che erano diventate un rifugio di partigiani, data l’eccezionale posizione, in cima a uno slargo della stretta valle, che permetteva di individuare da molto distante ciò che avveniva all’imbocco, ogni movimento di gente sconosciuta, ogni presenza minacciosa.
Ma proprio lassù era poi avvenuta una sanguinosa retata, e i partigiani erano scappati più in alto, «rinunciando anche alla protezione di sant’Antonio», mi disse Eh-la-vita, il vecchio falegname che tutti conoscevano con questo soprannome, visto che questa frase era un po’ il suo biglietto da visita, e compendiava la sua serena filosofia.
L’edicola del Santo di Padova era infatti più in basso, poco dopo l’inizio del sentiero che portava a San Mauro. Era qualcosa di molto semplice, una capannuccia di legno con un tettuccio di lamiera, collocata a sinistra del sentiero, in una piccola cavità della roccia ad altezza d’uomo. Non si poteva ignorarla, passandoci di fianco, per la quantità di fiori che qualcuno non dimenticava mai di metterci, in barattoli di latta o vasetti di marmellata: l’importante era che dei fiori ci fossero sempre, a dimostrare che la venerazione per il Santo non veniva mai meno. Lui se ne stava quieto dentro la capannuccia, dietro un vetro, con la sua brava aureola bene in vista, e il Bambino; il giglio no, forse perché di fiori ne aveva tanti davanti.
Ma, a detta di tutti, era un sant’Antonio davvero speciale. Durante la guerra, aveva protetto la gente della vallata; ma, appunto, la sua protezione, mi disse molto serio Eh-la-vita, non si estendeva fino all’alta chiesetta di San Mauro sullo sperone di roccia, di fronte all’imponente Monte Pizzocco. Là governavano altri santi, meno affidabili, «forse distratti», e così quelli che, abbandonando le Casère Noie, avevano tentato di scappare da quella parte, avevano «quasi» fatto una brutta fine. Solo che all’ultimo momento, circondati dai tedeschi, il capo, «benché ateo e mangiapreti», si buttò in ginocchio e chiamò Antonio con voce sommessa, impegnando a future preghiere tutte le donne di casa sua. «E tuti i altri i ga dito lo stesso per le loro fémene», aggiunse Eh-la-vita: e così il Santo si contentò della promessa e mandò un temporalone con fulmini così forti che perfino i tedeschi dovettero fermarsi, e gli altri riuscirono a scivolar via. «È un santo così piccolo – concluse mio nipote – ma è come un terremoto di ottavo grado». E su questo, ci trovammo tutti d’accordo.