Cattedra di dialogo, ponte tra culture
Le ricadute sono relazioni
Nel frattempo è già in cantiere l’edizione numero tre della Cattedra, a conferma che questo laboratorio di riflessione a Ragusa sta trovando terreno fertile per produrre frutto.
Intervista. La cultura motore della carità
Frasi secche, senza intercalare, precise, pungenti, che sembrano ancor più perentorie perché accompagnate da uno sguardo penetrante: è così che monsignor Paolo Urso (nella foto), pastore della Diocesi di Ragusa, ci parla della Cattedra di dialogo tra le culture, in occasione dell’inaugurazione del secondo anno di attività.
Msa. Come nasce l’iniziativa della Cattedra?
Urso. A partire dall’insistente domanda di formazione religiosa, soprattutto da parte dei laici. A Ragusa si avverte il bisogno di trovare risposte agli interrogativi che accompagnano sia le persone che le comunità. Poi è una proposta nel segno del dialogo. Nel nostro territorio abbiamo una forte presenza di persone provenienti da altri Stati, e questo costituisce anche per la Chiesa motivo di riflessione e di impegno pastorale. L’esperienza dell’anno scorso è stata molto positiva, perché ha permesso di attuare un confronto reale. Il dialogo, infatti, è la premessa per accogliere, per non discriminare, per cogliere la ricchezza delle persone.
Quali invece le sottolineature di questa seconda edizione?
Quest’anno si è sentita la necessità di porre l’accento sulla relazione educativa. Il tema si inserisce nel nostro piano pastorale, che ha l’obiettivo di educarci alla testimonianza della carità. E poi il tema della formazione e dell’educazione è un tema ricorrente quanto urgente. Diventa un’occasione per laici attenti e sensibili, portatori di domande e instancabili cercatori di risposte.
Il vostro Piano pastorale è intitolato «Educhiamoci alla testimonianza della carità». Come si coniugano cultura e carità? C’è chi li mette addirittura in contrapposizione.
Sono convinto che anche grazie alla conoscenza si possa giungere a una migliore accoglienza. Noi abbiamo bisogno di trovare le ragioni del vivere e del nostro impegno: la cultura diventa allora un modo concreto per educarci in questo, fermandosi in disparte per meditare e incontrarsi. Poi la cultura può essere un forte elemento di confronto, se è accompagnata da serietà e se non viene intesa come fine a se stessa. Anche il confronto, cioè, deve rispondere a certe regole, come quella del rispetto, quella del pensare che l’altro può essere illuminante per me. Così la cultura – garantita per la Cattedra anche dal proficuo collegamento con una facoltà pontificia – diventa strumento validissimo per far crescere le ragioni dell’esistenza.
Sempre nel Piano pastorale si legge che lo stile di accoglienza di Gesù è scandaloso. Che cosa significa accogliere nel contesto della sua diocesi?
Intanto significa testimoniare il Vangelo. Come persone e come Chiesa dobbiamo seguire quell’esempio. Non abbiamo e non vogliamo avere altri maestri. Non vogliamo seguire un criterio di prudenza umana, che si muove nel segno della paura. Vogliamo che il Vangelo sia una parola di luce, vera, che costruisce relazione autentica.
Il Vangelo ci dice che Gesù accoglieva, difendeva i deboli, si poneva contro ogni forma di discriminazione anche provocando reazioni molto forti. Questo deve diventare uno stile per noi come singoli credenti e come Chiesa. Ora lo stiamo vivendo sul terreno dell’accoglienza degli immigrati, ma dovremmo viverlo nei confronti di qualunque altra discriminazione. Altri potranno dire: facciamo i conti, vediamo se è conveniente o meno, muoviamoci in ordine a un piano europeo o nazionale. Ma noi dobbiamo dire: questi sono fratelli, sono sorelle, hanno bisogno, stanno bussando alla nostra porta, dobbiamo aprire. Naturalmente con intelligenza, per evitare di porre queste persone in situazioni degradanti.