Don Massimo Camisasca. Preti felici con Dio tra la gente

Silenzio, preghiera e studio, ma anche una vita affettiva intensa, ricca di amicizie e segnata dall’esercizio della paternità spirituale. I fondamentali per i sacerdoti del nostro tempo.
23 Febbraio 2010 | di


Msa. Oltre alla ricorrenza dell’anno sacerdotale indetto da Benedetto XVI, qual è stato il motivo principale che l’ha spinta a scrivere questo libro?

Don Camisasca. Il libro nasce dal desiderio di raccontare l’esperienza di questi ultimi venticinque anni della mia vita. Mi sono interamente dedicato all’educazione dei giovani in cammino verso il sacerdozio e alla guida della Fraternità sacerdotale che ne è nata. Mi è sembrato utile offrire, ai preti che ne fossero interessati, il succo di questi miei avvincenti anni. Ne è uscita una confessione della mia vita e anche, penso, l’individuazione di una strada di riforma della vita sacerdotale.

Nell’introduzione monsignor Bruguès dice che il libro non è né una riflessione teologica, anche se la teologia non manca, e nemmeno un trattato sociologico, quanto piuttosto un viaggio che punta all’essenziale della vita del prete. In cosa consiste questa essenzialità?

Il prete è un uomo chiamato da Dio a condividere la sua vita e la sua missione. Non c’è un compito, fra tutti quelli che si possono vivere, potenzialmente più aperto alle dimensioni universali cui aspira ogni uomo. Ciò che quindi è essenziale nella vita di un sacerdote, l’àncora della sua vita, non può essere l’attività. Egli deve nutrirsi continuamente del rapporto con Dio, cosa che può avvenire certamente anche attraverso l’attività. Ma questa non basta. Senza la ricerca continua del volto di Dio ogni azione svuota, stanca e infine distrugge. Dentro l’attivismo, spesso inconsapevolmente, si nasconde l’illusione di salvare gli altri attraverso il nostro fare. La carità, invece, ci spinge a diventare collaboratori di un’opera che ci precede e ci supera.

Da quanto scrive la figura del prete emerge in tutta la sua concretezza e umanità, perfino fragilità. In aggiunta c’è da dire che oggi la vocazione sacerdotale non è più sostenuta dal contesto sociale come poteva essere un tempo. Quali attenzioni richiede la nuova situazione?

Il sacerdote ha bisogno di essere radicato nel silenzio e nella preghiera. Senza silenzio e preghiera non c’è vita sacerdotale. D’altra parte non c’è neppure vita cristiana. Il più grande sostegno per il sacerdote arriva a lui attraverso ciò che è chiamato a fare: la predicazione e la sua preparazione, la celebrazione della messa e degli altri sacramenti, l’educazione delle persone… Certo, tutto può diventare routine, abitudine, rito. Occorre essere riscattati continuamente dalla grazia che ci porta a stupirci dei doni ricevuti, a immergerci nella carità di Cristo, a ringraziare, e a tuffarci nei bisogni degli uomini.

A un certo punto affronta di petto il discorso del celibato, e si dice convinto del fatto che la cancellazione del celibato non aumenterebbe il numero dei preti. Un pensiero controcorrente…

Sì, lo trovo un pensiero tanto ovvio da essere spesso sconosciuto. E mi stupisco anche che l’esperienza del celibato, che illumina così fortemente la vita sacerdotale, molte volte non trovi posto nella mente dei teologi e talvolta anche degli ecclesiastici. Certo il celibato non è una necessità assoluta ma è altamente conveniente per la vita sacerdotale. Ci immerge direttamente nella vita di Cristo, porta il nostro cuore a una continua purificazione degli affetti e permette alla nostra esistenza di essere interamente dedicata alle persone che Dio ci affida. La famiglia è una grande vocazione, come il celibato. Si illuminano a vicenda e si sostengono reciprocamente. Non è certo la legge del celibato a diminuire il numero delle vocazioni sacerdotali. La ragione va cercata piuttosto nella scarsità del numero dei figli, nell’assenza di educazione cristiana dei piccoli, nella povertà di educatori al sacerdozio. Dio chiama sempre e abbondantemente. Laddove i vescovi riporteranno al centro del loro ministero l’educazione dei giovani e la cura dei formatori, i seminari torneranno a crescere.

Mi ha colpito l’insistenza sullo studio. La preparazione culturale, cioè, non dovrebbe essere limitata al periodo del seminario. Se è vero che solo un prete aggiornato può servire bene il Signore e la sua Chiesa, come la mettiamo con tutto quel che c’è da fare per la gente?

La gente non ha bisogno di un prete che ripeta sempre le stesse cose. Ha bisogno di un uomo che si abbevera continuamente alla Scrittura, alla testimonianza dei santi, che dilata in tutta la giornata la sua celebrazione del Sanctus. Cioè che attraverso la meditazione e lo studio trova le parole, sedimentate lentamente dentro di sé, per parlare agli uomini.

Il libro ha un avvio che definirei «robusto»: dopo una breve introduzione in cui tratteggia la figura del sacerdote, parla per ventidue pagine del silenzio (il capitolo più lungo). E tutto, anche dopo, muove da lì.

È la mia esperienza personale. Da quando ho preso l’abitudine di iniziare la mia giornata con un lungo tempo di silenzio e di preghiera, tutto è lentamente cambiato. Ho scritto nel libro che il silenzio è la preghiera abitata di nomi. Occorre preparare nel dialogo con Dio gli incontri che si avranno nella giornata, le parole da dire, financo, se possibile, il tono di queste parole. Certo, mettendo poi tutto nelle mani di Dio, con una grande leggerezza piena di fiducia.

Finalmente un prete che parla bene delle amicizie dei preti, nel senso che l’amicizia è descritta come nutrimento dell’anima, realtà non solo utile ma irrinunciabile. Quanto hanno contato nella sua vita gli amici e le amiche per diventare, ma, soprattutto, per continuare a essere sacerdote?

Hanno avuto un peso fondamentale. L’amicizia è stata ed è l’esperienza centrale della mia vita. Penso che Dio mi abbia concesso degli amici per aiutarmi a comprendere quanto lui mi sia amico. Le amicizie più significative sono nate con i miei collaboratori. Non si può infatti essere veramente amici se non lavorando assieme a qualcosa di grande. Non ho mai vissuto da solo nessuna mia responsabilità nella vita. Ho dedicato moltissimo tempo all’educazione dei miei collaboratori. È un’attenzione che consiglio a chiunque.

Ai sacerdoti consiglia esplicitamente la pratica della vita comune. Mi risulta, però, che in proposito ci sono resistenze teoriche ma soprattutto pratiche.

La nostra fraternità è una Società di vita comune. Viviamo in case di tre o più sacerdoti. Ma non tutti nella Chiesa sono chiamati a una tale forma di vita. Tutti però siamo chiamati alla comunione. Essa ci sostiene. Penso alla possibilità di pregare assieme ad altri, agli incontri conviviali, alle Fraternità sacerdotali…

Occorre però che tali incontri non siano formali, ma realmente voluti e guidati. Sì, non c’è vita comune senza un’autorità che la orienti, la guidi e la sorregga. Oggi si pensa da molte parti alla vita comune come a un rimedio per la scarsità dei sacerdoti. Ma la vita comune non si improvvisa. Essa ha bisogno di una lunga preparazione e di una lunga conversione.

Un prete singolare è stato certamente don Giussani, il più citato nel libro. C’è qualcosa che amava dire quando parlava ai sacerdoti?

Don Giussani ha avuto una cura particolare per i sacerdoti. Li incontrava periodicamente, ogni due, tre mesi a Milano, a Bologna, a Napoli e poi annualmente predicava loro gli esercizi spirituali. Ricordo, negli anni Ottanta e Novanta, che questi raccoglievano più di cinquecento partecipanti. A loro parlava della vita cristiana, di quello che è richiesto a tutti, che anima la vita di tutti. Di fatto non ha parlato molto della vita sacerdotale. L’ha vissuta e attraverso la sua testimonianza ha attratto al sacerdozio moltissimi giovani.

Due parole sul titolo, che a prima vista potrebbe apparire enigmatico. Sacerdozio è in qualche modo, dalla lettura che ne propone, sinonimo di paternità. In che senso?

Molte pagine del mio libro sono dedicate alla vita affettiva del sacerdote. In particolare, la mia esperienza di questi anni mi porta a vedere nella paternità la cifra riassuntiva dell’esperienza del sacerdote. Egli è veramente chiamato a essere padre in un mondo in cui molto spesso i padri sembrano venir meno. Vedo in tutto ciò l’umorismo di Dio. Forse i padri di famiglia possono ritrovare le strade del loro compito educativo, così difficile, anche attraverso l’esperienza di questi padri putativi che sono i preti.



La vita


Massimo Camisasca è nato a Milano nel 1946. È stato ordinato prete nel 1975. L’incontro che ha segnato la sua vita è avvenuto a 14 anni al liceo Berchet, quando ha conosciuto don Giussani. Responsabile prima di Gioventù Studentesca e poi di Comunione e Liberazione, è stato anche presidente diocesano dei giovani di Azione Cattolica di Milano. Insegnante di filosofia nei licei, all’Università Cattolica di Milano, alla Pontificia Università del Laterano a Roma, dal 1993 al 1996 è stato vicepreside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo Il per gli Studi sul Matrimonio e la Famiglia. Ha fondato la Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo, di cui è superiore generale. Tra le sue numerose opere ricordiamo: Comunione e Liberazione (3 voll., 2001-2006), Terra e cielo (2006), Il vento di Dio (2007), Una voce nella mia vita (2008), Don Giussani (2009), Armonia delle stagioni (2009).

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017