Una paralisi non basta a salvarci…
A volte mi capita di incontrare amici disabili che non vedo da tempo e coi quali ho condiviso gli anni della scuola e poi tante occasioni formali e informali. A colpirmi è sempre il fatto che persone più o meno coetanee, provenienti dalla stessa città, e qui residenti per buona parte della loro vita, con una formazione scolastica e culturale analoga, spesso con lo stesso tipo di disabilità, abbiano avuto delle esistenze molto diverse l’una dall’altra. È vero, infatti, che le differenze che caratterizzano le nostre vite possono essere lette come il segno della libertà con la quale abbiamo potuto determinarle; ma alcune di queste esistenze hanno caratteristiche tali per cui le definirei «incompiute», almeno in parte. Vite passate all’interno di una struttura, con possibilità ridotte di sviluppare rapporti di amicizia… che confronto con la mia esperienza, connotata da caratteristiche di segno opposto, soprattutto in relazione a questi aspetti: il domicilio (come spazio fisico e di socialità) e l’amicizia (la rete di relazioni).
Non riuscivo a farmi un’idea chiara della questione finché non mi è tornato in mente, di nuovo, il brano del paralitico guarito (Mc 2,1-12), di cui già ho parlato in un articolo sul «Messaggero di sant’Antonio» del febbraio 2009. Quel brano del Vangelo mi ha fornito una chiave di lettura non consolatoria, né riduttiva. Nell’articolo precedente associavo la remissione del peccato all’instaurazione della relazione, cosa diversa e meno semplice dell’«azione» rappresentata dal compimento finale del miracolo e unica in grado di mutare il contesto e i rapporti di forza: era proprio questo che i farisei non capivano o non volevano capire… Qui, quello che mi interessa sottolineare è che Gesù, come prima cosa, non «risolve» la disabilità del paralitico: avrebbe dovuto, allora, risolvere quella di tutti i paralitici, per non essere «ingiusto» e, ancor prima, avrebbe dovuto vedere in quella disabilità qualcosa da rimuovere. Si preoccupa, invece, di riconoscere il valore salvifico e rivoluzionario dei rapporti di fiducia, di amicizia e fede in cui il paralitico stesso era inserito: tanto che si potrebbe dire che lui viene salvato dalla fede di chi ha attorno e l’ha aiutato a raggiungere Gesù, più che dalla propria; dalle sue relazioni e non dallo stato di paralisi in cui versava. Infatti, la guarigione è il «residuo» del gesto di Gesù, non l’obiettivo. Gesù, quindi, vuole modificare il contesto in cui un paralitico vive: solo un cambiamento a questo livello può portare a un salto di qualità nei rapporti delle persone con il paralitico stesso e, da qui, tra le persone in generale. Con la remissione del peccato, Gesù vuole valorizzare, di fronte alla folla che assiste, l’importanza del contesto relazionale del paralitico: perché la folla ne capisca il valore e possa interrogarsi, modificando a sua volta le proprie relazioni.
Ho come la sensazione che per alcuni disabili il rapporto con il proprio deficit sia tutt’altro che risolto e che essi lo considerino, anche dopo tanti anni di «convivenza», una condizione dalla quale fuggire, da nascondere e non da condividere: da qui la vita in una struttura e la mancanza di rapporti d’amicizia e fiducia. Sono come concentrati sull’obiettivo sbagliato, secondario – la loro condizione e il suo eventuale superamento (peraltro impossibile, in senso fisico) – e non riescono a partecipare alla creazione di un contesto di fiducia che, unico, può portare a un salto di qualità culturale e politico. Sono il primo a sapere che è necessario attendere un cambiamento da parte degli altri nei confronti delle persone con disabilità; ma è altresì fondamentale che siano anche queste a disegnare i contorni e a costruire la sostanza di questo cambiamento. E voi, cari lettori, in che modo siete riusciti a farlo? Scrivete a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook.