Conoscere l’altro. La scommessa educativa
Che l’ignoranza sia un ingrediente del fondamentalismo non è difficile da dimostrare. Del resto, non conoscere qualcosa o qualcuno genera l’impressione immediata di essere sotto minaccia e, quasi automaticamente, una reazione di chiusura che spesso può prendere una forma aggressiva. È chiaro, tuttavia, che oltre a queste dinamiche emotive, del tutto normali, occorre tener conto di un altro ingrediente, senz’altro meno evidente ma non meno efficace dell’ignoranza: l’ideologia, che spinge la paura del diverso, dell’altro che non conosco, in direzione di una «verità» preconfezionata che, a sua volta, alimenta di rimando la paura, giustificando così la reazione aggressiva. È come se l’ideologia dicesse all’ignoranza: fai bene a temere l’altro, il diverso, perché l’altro è davvero la minaccia che immagini.
Questo circolo apparentemente infrangibile tra ignoranza e ideologia, al servizio del fondamentalismo, non è certo una grande scoperta: l’uso politico della paura è cosa ormai nota, essendo diventato una strategia abituale, sia in Occidente che in Oriente, tanto da parte delle cosiddette frange politiche estremiste, quanto, purtroppo, da parte di alcuni governi. Quello che forse può essere utilmente spiazzante è intendere il fondamentalismo come una «patologia dell’educazione»: se educare significa mettere in gioco una verità che non si attesta come tale senza coinvolgere la libertà di chi la testimonia e di chi la riceve, allora è chiaro che la «verità» ideologica veicolata dal fondamentalismo è tutt’altro gioco, che implica piuttosto la trasmissione meccanica di un sapere incontestabile. Vuol dire allora che per evitare il fondamentalismo basta eliminare la verità? Questa celebrazione della libertà euforicamente svincolata da ogni riferimento, che molti oggi ritengono una conquista di civiltà, non è certo la soluzione, non foss’altro perché la «libertà senza verità» tendenzialmente scatena la spinta contraria del fondamentalismo, riportandoci così al punto di partenza di una «verità» ideologica, senza libertà. Si può allora provare a cercare un’alternativa a questa patologia, obiettivo divenuto quanto mai urgente, scommettendo su un’autentica esperienza educativa.
Tale è stata la proposta del convegno annuale della Fondazione internazionale Oasis (promossa dal patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola) che si è tenuto alla fine di giugno in Libano, proprio sul tema Educazione tra fede e cultura: esperienze cristiane e musulmane in dialogo. Sotto questo profilo, la scelta del Libano non è casuale, essendo questo un Paese che – come noto – possiede un sistema educativo sorprendentemente vasto e variegato. E se si dà un’occhiata al dettato costituzionale, si capisce che l’educazione non è trattata come un dettaglio marginale della vita pubblica, ma addirittura come l’impresa da cui dipendono le sorti stesse del Paese. In particolare, gli articoli 9 e 10 della Costituzione libanese del 23 maggio 1926 (vedi riquadro a lato) stabiliscono chiaramente quello che Antoine Messarra, docente all’Università Saint-Joseph e membro del Consiglio costituzionale, chiama «federalismo personalistico in materia di fede e di insegnamento».
Ma qual è la ragione profonda di questa enfasi anche giuridica sull’educazione, sulla libertà di educare e di partecipare alla gestione politica dell’impresa educativa? Il fatto è, come spiega il patriarca Scola, che dove l’impresa educativa riesce a realizzarsi come «incontro di libertà» nel gioco serio della verità testimoniata, si genera quell’esperienza irrinunciabile per essere umani che è l’«essere-insieme». Questo è il sapere non ideologico che può salvarci dal fondamentalismo: essere-insieme, infatti, è una verità antropologica che si realizza solo coinvolgendo le persone che, conoscendosi, liberamente decidono di fare legame. In mancanza di questa esperienza originariamente relazionale, su cui è indubbio che si giocherà la partita decisiva delle religioni, la violenza ci aspetta dietro l’angolo.
C’è però un’obiezione molto facile, che vale la pena affrontare. Se la proposta del Libano è di scommettere sulla libertà di insegnamento, non c’è il rischio che il sistema educativo finisca semplicemente per riprodurre le differenze e i contrasti comunitari? In che senso il pluralismo educativo dovrebbe generare l’essere-insieme e non invece una pericolosa frammentazione del tessuto sociale? Non sarebbe meglio cercare di realizzare una sorta di melting pot scolastico, amalgamando così le differenze?
Il rischio di arroccamento è indubbiamente reale. Come racconta amaramente lo sceicco Hani Fahs, membro dell’Alto Comitato sciita libanese, è inutile nascondere la difficoltà di «curare l’avversione, le tensioni e le ipersensibilità di qualsiasi studente elementare sciita, in qualsiasi scuola, rispetto a qualsiasi studente sunnita o cristiano o l’avversione, le tensioni e le ipersensibilità di qualsiasi studente druso rispetto agli sciiti o ai sunniti». Eppure l’ideologia del miscuglio intercomunitario, tramite un intervento pianificato e unificatore da parte dello Stato, non è così convincente: oltre a essere percepita come artificiale, non risolverebbe affatto il problema. Il punto, infatti, non è mescolare materialmente gli studenti nello stesso edificio, ma permettere che le persone si conoscano e si raccontino. E sono molte le scuole e le università private che sono riuscite, a dispetto delle permanenti tentazioni fondamentaliste, a realizzare questa irrinunciabile esperienza di condivisione tra studenti di religioni diverse, favorendo cioè un incontro reale di libertà e non una sterile fiera delle differenze.
Così, a coloro che accusano la scuola libanese di essere la «fonte» dei contrasti comunitari e del loro perpetuarsi, Messarra rivolge una domanda del tutto pertinente: «Come ha potuto la società civile libanese reagire contro il complicato intreccio di guerre tra il 1975 e il 1990, e come ha potuto il Libano ritrovare la sua unità? Molte scuole e università hanno rappresentato, per dirlo con una frase del padre Abdallah Dagher, una riserva per l’avvenire».
È dunque questo avvenire la posta in gioco del sistema educativo perché, come ha detto ancora il patriarca Scola, non è possibile educare veramente senza supporre «un’adeguata antropologia, fondata sull’io-in-relazione con Dio, con gli altri e con se stessi». Per quanto certamente difficile, come ha aggiunto il cardinale Tauran intervenendo al convegno di Oasis, non dovrebbe tuttavia essere impossibile per i religiosi cristiani e musulmani sensibilizzare i legislatori e gli insegnanti sull’opportunità di proporre regole di comportamento, quali «il rispetto della persona che cerca la verità di fronte all’enigma della persona umana; il senso critico che permette di distinguere tra vero e falso; l’insegnamento di una filosofia umanista in grado di offrire risposte sulle questioni riguardanti l’uomo, il mondo e Dio; l’apprezzamento e la diffusione delle grandi tradizioni culturali aperte al trascendente, che esprimono la nostra aspirazione alla libertà e alla verità».
Conoscere l’altro per essere-insieme, questa è la sfida educativa che il Libano non ha mai smesso di lanciare e che noi non possiamo assolutamente permetterci di lasciar cadere.
Notes. Dalla Costituzione libanese
Articolo 9. La libertà di coscienza è assoluta. Rendendo omaggio all’Essere Supremo, lo Stato rispetta tutte le confessioni e ne garantisce e protegge il libero esercizio, a condizione che non si rechi danno all’ordine pubblico. Lo Stato garantisce parimenti alle popolazioni, a qualunque rito appartengano, il rispetto dei loro statuti personali e dei loro interessi religiosi.
Articolo 10. L’insegnamento è libero in quanto non contrasti l’ordine pubblico e i buoni costumi e non sia lesivo della dignità delle confessioni religiose. Non si pregiudicherà in alcun modo il diritto delle comunità di avere le proprie scuole, fatte salve le prescrizioni generali sulla pubblica istruzione emanate dallo Stato.
Zoom. Scuola cattolica in Medio Oriente
In Medio Oriente, zona tra le più tribolate del mondo, fucina di conflitti e tensioni che spesso hanno ripercussioni a livello globale, luogo di testimonianza al limite del martirio per un numero sempre maggiore di cristiani, c’è una nota di speranza che vale la pena rilevare: una significativa presenza di scuole cattoliche. Tanto per dare un’idea: 35 sono le scuole cattoliche in Terra Santa, 50 in Giordania, 89 (tra istituti cristiani e scuole cattoliche) in Palestina, 365 in Libano. Sono scuole aperte a tutti, frequentate anche da allievi musulmani e nelle quali insegnano pure docenti non cattolici.
«Gli istituti scolastici – ha spiegato a “Gente Veneta”, il settimanale del patriarcato di Venezia, padre Marwan Tabet, responsabile delle scuole cattoliche in Medio Oriente – mostrano alcune caratteristiche comuni nonostante le diversità: primo elemento di convergenza, lo spazio dedicato alla persona, all’allievo, all’insegnante, al personale educativo, amministrativo o di servizio e al genitore; secondo punto di convergenza è costituito dalla volontà di collocare nel cuore stesso dei progetti delle scuole e degli istituti formativi un fondamento interculturale e interreligioso, pur insistendo nel solco della proposta del Vangelo; il terzo punto consiste nel ruolo essenziale che la Chiesa e l’insegnamento cattolico possono svolgere nei Paesi di cultura araba
e musulmana».
La sfida principale riguarda invece il problema del fondamentalismo «che imperversa nella regione. Nel corso degli ultimi trent’anni – prosegue padre Tabet – l’area costituita dal Medio Oriente ha assistito a una forte propagazione dell’integrismo, che è riuscito a insediarsi proprio nel cuore del sistema formativo, limitando da questa collocazione la libertà di azione delle scuole e riducendone l’iniziativa. L’apertura di alcuni istituti o scuole dominate da movimenti o organizzazioni fondamentaliste, nelle quali vengono diffusi i valori integristi, è in contrasto con i valori veicolati dall’insegnamento cattolico».