Sono ancora persone?
Si presenta, nuovamente, l’occasione di partire dallo scritto di un lettore per affrontare un argomento importante. Il signor Benedetto Arancio ha voluto condividere con me alcune riflessioni sul rapporto tra sofferenza e disabilità, scorgendo correttamente, in molti miei articoli, l’intento di dissociare i due termini.
«Certo sarebbe assurdo dimostrare stati compassionevoli di fronte a persone che per un qualsiasi motivo avessero delle minorazioni fisiche. Anche perché ci sono disabili che nei confronti dei cosiddetti normali ci guadagnano – e di molto – suscitando ammirazione e stupore. Ma quando le minorazioni sono di natura psichica, magari gravi, si può usare lo stesso metro di valutazione?». Poi, ricordando una visita all’Istituto Cottolengo: «Ho visto anche il reparto dei macrocefali e quello dei microcefali. Stavano lì, a vegetare. Possiamo parlare ancora di persone? Gli ospiti dei reparti non visitabili sono, erano ancora persone?». Infine, appoggiandosi al commento di un sacerdote, conclude: «Gesù non ha mai esaltato il dolore e la sofferenza, ma ci ha insegnato a superarli con l’amore. Amore, aggiungo io, che nei casi dei ricoverati al Cottolengo non può che essere compassionevole».
Sono riflessioni molto interessanti e non affatto semplici da trattare. Vorrei subito precisare che il mio intento di allontanare disabilità e sofferenza non vuole negare la seconda condizione (per sua natura innegabile e spesso presente laddove c’è disabilità), ma vuole allargare la prospettiva, in quanto sono convinto sia necessario modificare il punto di vista sulla disabilità, aprire possibilità al cambiamento dove tutto sembra destinato a non evolvere. Ritengo fondamentale smarcarsi da un atteggiamento di pietà, di assistenza, per creare le condizioni grazie alle quali ognuno possa realizzare le sue aspirazioni, essere soggetto della cultura e soggetto politico. Creare, quindi, quelle condizioni per cui una persona possa non soffrire della sua condizione, né subirla: questa è la semplice e profonda differenza tra deficit e handicap. Il signor Benedetto, però, va più a fondo: con persone che sembrano non poter fare altro che espletare i più basilari bisogni fisici, e nemmeno in autonomia, è possibile una relazione che non sia solo di amore compassionevole? È possibile affrontare una condizione di (quasi certa) passività con un atteggiamento che non abbia le medesime caratteristiche? E, in definitiva, quelle persone sono… persone? A quest’ultima domanda è più semplice rispondere: in quelle persone vedo esseri viventi, vedo cioè qualcosa che è uguale a me. Degno in quanto tale.
Alle altre questioni invece credo non sia possibile dare una risposta univoca: entriamo in un campo in cui, secondo me, è difficile decretare anche la passività o meno di un sentimento e di un’azione. È ciò che ci lega a queste persone a determinare la natura del vincolo e a decretare la qualità del nostro fare e sentire, e in definitiva a darci gli elementi per capire quali decisioni possono essere assunte in loro vece e quali no. Si confondono i piani del giusto e dello sbagliato, dell’utile e del dannoso. Sono situazioni che invocano una sospensione del giudizio a priori e «a distanza» e una delega della scelta soltanto a chi si trova a vivere quella particolare situazione o a essere in rapporto con essa. Forse resterete delusi dalla mia risposta, ma spero capiate che non si tratta di un cedimento: certe situazioni si sottraggono alla possibilità stessa di descriverle da fuori. A meno di non ritrovarsi, convenzionalmente, d’accordo attorno a una legge che lo faccia al posto nostro: ma in questo ambito, davvero, credo sia meglio essere legibus soluti, ovvero muoversi al di là delle leggi… Scrivete tutte le vostre (in)certezze a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook.