L'intervista. Aldo Cazzullo

«L’Italia è fatta e sono fatti anche gli italiani. E, siccome diamo il meglio nelle difficoltà, i prossimi anni potranno essere migliori di come si annunciano». Parola di Aldo Cazzullo, da pochi giorni in libreria con il suo «Viva l’Italia!».
25 Ottobre 2010 | di

Le celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia non sono ancora cominciate, ma già si fa un gran parlare di Risorgimento, periodo storico fondamentale della nostra storia patria, ma, ahinoi, spesso sconosciuto nei suoi capitoli più significativi. A gettare un po’ di luce su quegli anni, ma anche sulla Resistenza e sulla Grande Guerra (gli eventi che più hanno concorso a «fare» l’Italia) è arrivato da poco nelle librerie Viva l’Italia!, di Aldo Cazzullo.

Msa. Cazzullo, dopo Outlet Italia e L’Italia de noantri ora è in libreria con Viva l’Italia!. 150° a parte, la sua è solo curiosità giornalistica o c’è qualcosa di più in questa lunga, attenta e disincantata osservazione del Belpaese?

Cazzullo. C’è un profondo amore per il mio Paese, che cresce man mano che ci vivo e lo percorro. Ma c’è anche il rifiuto delle piccole Italiette rancorose, ripiegate sul mugugno, che si assomigliano parecchio tra loro. I leghisti di Adro hanno molti punti di contatto con i neoborbonici del Sud: negano le pagine migliori della nostra storia, se la prendono con Cavour e Garibaldi in nome di improbabili nostalgie per gli Asburgo e i tiranni che governavano con festa, farina e forca; si trincerano nel loro particulare: il clan, il campanile. Non si accorgono che la storia del Risorgimento – e della Resistenza – è una storia gloriosa, di cui andare fieri. E che il mondo globale rappresenta per l’Italia, «l’Italia tutta intera» di De Gregori, una straordinaria opportunità: perché dal Brasile alla Cina cresce una grande domanda di Italia. Gli altri vorrebbero mangiare, vestirsi, parlare come noi. E molti di noi rinnegano se stessi. Assurdo.

Il sottotitolo del libro recita: Risorgimento e Resistenza: perché dobbiamo essere orgogliosi della nostra nazione. Ecco, appunto, perché? Di motivi d’orgoglio oggi non se ne vedono tanti.
Perché un popolo diviso da secoli seppe unirsi contro gli occupanti austriaci. Non è vero che il popolo è assente dal Risorgimento: nel 1848 insorgono tutte le città italiane, da Palermo a Osoppo, e in particolare le città padane: Milano, Brescia, Venezia e tutte le città venete tranne Verona, la caserma degli austriaci (che nel 1866 la lasceranno sparando sulla folla e uccidendo una popolana incinta). E non è vero che la Resistenza è «una cosa di sinistra»: la fecero per primi i militari, dai cinquemila fucilati di Cefalonia alle migliaia che morirono nei lager tedeschi pur di non andare a Salò; e poi monarchici, aristocratici, contadini, liberali, cattolici, civili. E, certo, anche i comunisti. Ma non da soli. La Resistenza, come il Risorgimento, rappresenta un patrimonio di tutta la nazione.

La prefazione è affidata a Francesco De Gregori, autore di Viva l’Italia, inno a una nazione «derubata e colpita al cuore, ma che non ha paura e non muore». Com’è, Cazzullo, la «sua» Italia?
Un Paese spaventato, poco affezionato alla propria storia e con poca fiducia nel futuro. Studiare, prepararsi, lavorare, affrontare sacrifici sono considerati perdite di tempo; si cerca la scorciatoia dei rapporti personali. Non è importante frequentare una buona scuola, ma inserirsi in una rete di relazioni. Però l’Italia resta un Paese straordinario. Il più bello del mondo, come ci ripetiamo spesso, quasi per consolarci. Ma non dev’essere una consolazione; dev’essere uno sprone. L’eredità dei padri ce la dobbiamo meritare, la dobbiamo mettere a frutto.

De Gregori scrive: «Mentre si apprestano a celebrare i centocinquant’anni dalla fondazione del loro Paese, gli italiani sembrano essere sempre meno interessati a conoscere la loro italianità». Condivide questa visione?
Condivido il sembrano. Sono convinto che, in realtà, gli italiani siano intimamente e profondamente legati al loro Paese. Le celebrazioni per i centocinquant’anni possono annoiare, come ogni celebra­zione. Ma possono anche contribuire a riportare a galla quel sentimento latente di appartenenza, di orgoglio nazionale. E possono persino creare qualche imbarazzo alla Lega.

Lei parte dal Risorgimento per approdare, passando dalla Grande Guerra e dalla Resistenza, all’Italia di oggi e a quella che potrebbe essere l’Italia del futuro. Qual è il filo invisibile che unisce questi periodi storici?
I partigiani bianchi del Friuli si danno il nome di Brigate Osoppo, per ricordare la piazzaforte che durante il Risorgimento aveva resistito agli austriaci per sette mesi. Liberali, azionisti, ebrei, antifascisti si ricollegano al Risorgimento, ne rivendicano l’autorità. Tra l’altro, l’avversario era lo stesso: il soldato tedesco. Come nella Grande Guerra, che nel libro racconto contrapponendo alla retorica sanguinaria e alle imprese maldestre di D’Annunzio la guerra seria combattuta da due volontari, Carlo Emilio Gadda e Giuseppe Ungaretti: «Il tuo popolo è portato/ dalla stessa terra/ che mi porta/ Italia/ e in questa uniforme/ di tuo soldato/ mi riposo/ come fosse la culla/ di mio padre».

Nel suo libro lei tratteggia una serie di figure: ce n’è una che l’ha colpita più di altre?
Ci sono figure che magari nominiamo tutti i giorni e di cui sappiamo poco. Ad esempio, non sapevo, o non ricordavo, che, dopo aver conquistato un Regno, Garibaldi partì per Caprera non con i quadri di Caravaggio, i gioielli della regina, l’oro dei Borboni, ma con un sacco di fave, un sacco di sementi, trecento lire raccolte a sua insaputa da un collabatore e uno scatolone di merluzzo secco. Poi ci sono le figure dimenticate. Come il generale Perotti che, condannato a morte dai fascisti, interrompe i suoi uomini che tentano di discolparlo gridando: «Signori ufficiali, in piedi! Viva l’Italia!». Come i partigiani che scrivono alle famiglie: «Domani mi fucilano, ma ce la faremo a costruire un Paese migliore». Altrettanto impressionanti sono le lettere dei volontari della prima guerra mondiale. Ce n’è una, meravigliosa, di un ebreo triestino che rifiuta di combattere con gli austriaci «nei campi ghiacciati della Galizia per un patria che non era la mia», si arruola nell’esercito italiano e così prende congedo dalla famiglia: «Addio mia mamma amata, addio mia sorella cara, addio padre mio; se muoio, muoio coi vostri nomi amatissimi sulle labbra, davanti al nostro Carso selvaggio». Mi chiedo cosa direbbero Garibaldi, il generale Perotti, i partigiani impiccati, i volontari della Grande Guerra, dell’Italia di oggi.

Risorgimento e Resistenza si studiano a scuola. Ma al di là del mito che spesso li avvolge, che cosa furono davvero questi due periodi storici?
Due momenti di riscatto nazionale. Con le loro pagine nere, certo. Il bombardamento di Genova da parte dei piemontesi nel 1849, ad esempio. La strage di Porzus e le vendette nel triangolo emiliano della morte da parte dei partigiani comunisti, per fare un altro esempio. Pagine che vanno raccontate per intero. Ma che non devono inficiare il giudizio complessivo. Oggi il vero revisionismo non è dire che i partigiani non erano poi così buoni, ma che non erano poi così cattivi.

Ci fu anche un Risorgimento (e anche una Resistenza) combattuto dalle donne. Alla fine, però, «una medaglia o, al massimo, un anello a pietre tricolori». E ora siamo ancora qui a parlare di quote rosa.
Ci sono figure femminili straor­dinarie nel Risorgimento. Non solo la contessa di Castiglione, donna di grande modernità e spregiudicatezza intellettuale, certo in anticipo sui tempi. Non solo Anita Garibaldi. Ci sono aristocratiche e popolane che combattono fianco a fianco sulle barricate. Storie straordinarie, che ritroveremo nella Resistenza. Chi oggi conosce il nome di Irma Bandiera? Per farla parlare, i fascisti la portarono davanti a casa e le dissero che non avrebbe più rivisto i suoi. Lei non parlò. Le cavarono gli occhi. Lo stesso accadde a Gabriella Degli Esposti. Eroine di cui a scuola non si parla, che non vengono nominate in tv.

Lei scrive che gli italiani, al contrario di quanto accade ad altri popoli, non si vergognano del fascismo: perché?
Perché molti lo sono stati, anche se non tutti, e qualcuno persevera nell’errore. O magari non gliene importa nulla. È più facile rinnegare la storia patria che l’errore o l’autoinganno di un padre. E poi da anni ci siamo abituati alla retorica del duce buono: nonno affettuoso, amante appassionato, statista che fino al ’38 le aveva azzeccate tutte. Ma nel ’38 Mussolini aveva già provocato la morte di Matteotti, Gramsci, Gobetti, don Minzoni, dei fratelli Rosselli; aveva fatto bastonare don Sturzo e il beato Pier Giorgio Frassati, chiuso i libici nei lager col filo spinato, gasato gli abissini, imprigionato migliaia di oppositori. E aveva fondato un movimento politico che avrebbe devastato l’Europa. Eppure oggi non c’è scuola di Roma, la capitale d’Italia, priva di scritte inneggianti al duce, che nessuno si sogna di cancellare. Vengono pure pubblicati i suoi diari: falsi, che però – c’è da scommetterci – avranno grande successo.

L’Italia è fatta. Ora si vuole fare il federalismo. Non c’è il rischio di distruggere un’unità costata così tanta fatica?
Dipende da come sarà fatto. Di per sé, il principio è giusto. Ma se a pagare il conto del federalismo saranno i soliti lavoratori dipendenti, che verseranno più tasse (già si annuncia un’addizionale regionale Irpef del 3 per cento), e il Sud, che resterà senza soldi per gli ospedali e i servizi pubblici: la riforma non sarà servita a molto. Non ho grande fiducia nella Lega. Discetta di Padania, ma è il più mediterraneo dei partiti, basato sull’amicizia e sulla fedeltà al capo. E spesso governa in modo familista. La Padania in un certo senso esiste perché esiste una continuità culturale nella piana del Po. Ma senza il resto d’Italia la Padania sarebbe un flatus vocis, un suono vano. Cosa sarebbe il Nord senza la Toscana di Dante e Brunelleschi, senza la Roma dei cesari e dei papi? Cosa saremmo senza Napoli, quella fucina dell’identità italiana e di simboli: il sole, il mare, la pizza, la musica popolare, il cinema di Totò, il teatro di Eduardo? Cosa sarebbe la letteratura italiana senza gli scrittori siciliani, da Pirandello a Camilleri passando per Verga, De Roberto, Brancati, Sciascia, Consolo, Bufalino?

Da italiano e da giornalista che ha indagato in lungo e in largo il nostro Paese, che opinione ha degli italiani?
Che gli italiani si assomigliano tra loro molto più di quanto non pensino. Nord e Sud sono distanti per redditi e opportunità, ma uniti dalla mentalità familista e dalla diffidenza per lo Stato. Ormai non solo l’Italia è fatta; sono fatti anche gli italiani. Forse non sono venuti granché, ma non ne abbiamo altri. Possiamo migliorarci un poco alla volta. E, siccome diamo il meglio nelle difficoltà, i prossimi anni potranno essere migliori di come si annunciano.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017