Il diritto di essere tristi
Qualche tempo fa ho ricevuto una lettera molto intensa, (auto)ironica e diretta, da parte di Elena, lettrice con la quale capita spesso di scambiarsi opinioni epistolari: un commento a una citazione inserita all’interno di una bella monografia di «HP-Accaparlante» del 2001, dedicata alla sessualità delle persone disabili (Le passeggiate sono inutili, di Cristina Pesci e Donata Lenzi). Anzi, più precisamente, la lettera traeva origine da un estratto per raccontare qualcosa di più, secondo un formidabile meccanismo che la fruizione di un oggetto artistico, letterario, culturale riesce a innescare con grande facilità e per il quale da lettori «passivi» diventiamo produttori attivi di pensiero, idee, arte, cultura…
Per l’esattezza la citazione dalla quale Elena prendeva spunto era questa: «La mia follia è uno stato depressivo che tengo accuratamente nascosto agli altri. È una lotta perpetua per dimostrare loro che sono qui, e che ci sto bene. Così tutti i rapporti sono falsi, perché vita esteriore e vita interiore non corrispondono. (...) Mi sforzo di nascondere tutto quello che potrebbe sconvolgere gli altri». Era, la citazione in questione, tratta da Babette, handicappata cattiva di Elisabeth Auerbacher, Edizioni Dehoniane 1991, Bologna.
Elena, disabile-giovane-donna, a proposito di quella citazione scriveva: «Mi ritrovo molto in queste parole. Mi succede spesso di sentirmi dire dalle persone che mi vogliono bene: “Che brava che sei, io non ce la farei mai al posto tuo”. È un segno di affetto, di stima, ma palesa anche il fatto che forse non è così chiaro che non ho scelto io di stare male, anzi, se potessi scegliere, ne farei volentieri a meno, altro che brava! Oppure, parlando con chi fa volontariato a fianco di persone con disabilità, sento gli animatori o gli educatori dire quasi sempre che “loro (i disabili) sono più forti”, “loro sono più sensibili”, “loro sono meglio degli altri”... Non tutti i disabili sono più forti degli altri, non tutti sono sempre sereni e affrontano le difficoltà con il sorriso. (...) Anche loro hanno il diritto di piangere, di sfogarsi, di essere di cattivo umore, magari per una cavolata. Sembra quasi che dobbiamo giustificarci agli occhi del mondo se ogni tanto cadiamo... Sembra che dobbiamo giustificare la nostra stessa esistenza. Come se a noi fosse concesso di esserci solo a patto che dimostriamo di essere sempre meglio degli altri. È una fatica. Anche io soffro di depressione e nessuno lo sa, è un mostro che mi divora dentro senza che nessuno se ne accorga. Eppure anche quando mi sento morire sfoggio il mio splendido sorriso perché nessuno se ne accorga, perché a me (in quanto invalida, in quanto donna, in quanto giovane) non è concesso essere triste, mentre chi sta davvero bene, chi ha davvero tutto, non fa altro che lamentarsi, e senza nemmeno doversi giustificare per questo».
Forse vi ricorderete che il termine «persona» deriva etimologicamente dal greco prosopon, che significava «volto dell’individuo» ma anche «maschera», quella utilizzata dagli attori teatrali. Nel tempo, poi, questa parola ha assunto il significato e le sfumature che intendiamo oggi e che ci portano a distinguere profondamente i due termini. Invece, è come se alle persone disabili la parola «persona» venisse ancora attribuita nel significato di maschera, con un limite in più, ovvero che questa maschera deve avere sempre la stessa espressione e che esse sono pertanto costrette a recitare sempre la stessa parte. Se vogliamo confrontarci con delle vere persone disabili dobbiamo riconoscerne anche il «diritto a essere tristi». E poi imperfette, inaffidabili, impreparate, volgari… Ringraziando Elena per la sua lettera, vi ricordo che potete scrivermi a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook.