Ostensione, un anno dopo
Sembra ieri. Lunghe file di pellegrini incolonnati e diretti da Prato della Valle verso la Basilica del Santo, in un clima assorto di preghiera e attesa, con gli occhi emozionati e il cuore gonfio, fin dall’alba. Per sostare un paio di minuti di fronte ai resti mortali di sant’Antonio esposti per sei giorni (dal 15 al 20 febbraio) alla venerazione dei fedeli, per vivere un incontro a lungo desiderato. E con informazione tempestiva la nostra rivista ha registrato volti, voci, stati d’animo, preghiere affidate a un biglietto di carta, esperienze di grande spessore e di grande normalità, che il più delle volte è la stessa cosa. Sì, perché il popolo di sant’Antonio è un popolo semplice e vitale, pronto all’appello senza fare rumore, ed esprime la propria fede con delicatezza. Quanti colloqui in quei giorni, quanti nomi e storie affidati a una preghiera ritenuta più sicura («Lei che è frate, sempre vicino al Santo, preghi per me»); quante strette di mano date e ricevute come se si fosse amici da sempre: «Io, padre, ogni mese ho un appuntamento con lei. Quando arriva il “Messaggero” è un momento di grande gioia. Voglio dirle grazie»; quanti incoraggiamenti che ho poi condiviso con giornalisti e collaboratori, perché venivano da animi buoni e sinceri. Mi commuovo ancora…
L’avete capito, sono decisamente a favore degli anniversari, non fosse altro perché molti avvenimenti hanno bisogno, per essere compresi, della giusta distanza, anche dall’emozione. Le ricorrenze, quando non si risolvono in momenti solo celebrativi, servono ad attivare riflessioni più ponderate e profonde, a cogliere dietro dati anche impressionanti il fluire di tracce di contemporaneità, nel nostro caso religiosa, di devozione e di fede. Alludo alla ricerca realizzata dal «Messaggero di sant’Antonio» in collaborazione con l’«Osservatorio Socio-Religioso Triveneto», sulla base di 3.600 questionari somministrati a un campione di pellegrini negli ultimi due giorni dell’Ostensione (circa una persona ogni 26), e della quale in questo numero presentiamo una prima elaborazione che diventerà presto un libro. C’è da dire, innanzitutto, che da almeno un quarto di secolo non si sono fatte ricerche sociologiche sul campo per indagare quella che si usa chiamare «pietà popolare antoniana». Molte invece, forse troppe, le letture frettolose di un fenomeno che non manca di offrirsi con una propria originalità, anche spiazzando molti e infondati luoghi comuni.
Alcuni dati: sette pellegrini su dieci provengono dal Veneto (140.300), mentre dal Nord – escluso il Veneto – sono giunte a Padova 30 mila persone; 16 mila dal Centro-Sud e 13 mila stranieri. Da ricordare, a proposito, che solo poco più di un mese prima – agli inizi del 2010 – si sono decise le date dell’Ostensione e si è quindi potuto pubblicizzarle. Al di là dei numeri, però, è di particolare interesse lo spessore qualitativo del «popolo di sant’Antonio». Scrive Alessandro Castegnaro, sociologo responsabile della ricerca: «I pellegrini sono in prevalenza di età intermedia, di scolarizzazione piuttosto elevata, appartenenti alla popolazione attiva. In maggioranza sono donne, ma un po’ meno di quante non siano tra i praticanti. Già questi pochi dati parlano di provenienze sociali ben diverse da quelle che lo stereotipo prevalente del pellegrino e della religiosità popolare immagina. Ma se approfondiamo i dati la distanza è ancora maggiore». Ci allontaniamo, cioè, dallo standard percepito del devoto classico: molto anziano, con bassa scolarità, fuori dall’area produttiva e soprattutto con una religiosità di serie B. Il popolo di sant’Antonio è composito, e per fortuna non ci sono requisiti standard per poter essere amici del Santo, ma quello che colpisce è che la devozione antoniana può essere considerata, in un certo senso, «avanguardia» della fede. Leggere per credere.