Noi istriani «vittime invincibili»

Nelida Milani è una scrittrice e docente universitaria della minoranza italiana che è rimasta in Istria, mentre si verificava il grande esodo istriano. Ce ne parla in occasione della «Giornata del ricordo», il 10 febbraio.
27 Gennaio 2011 | di

Nelida Milani è stata tentata più volte di andare dallo psicologo. Le sarebbe piaciuto sedersi sul lettino e cominciare a raccontare il suo dramma, il dramma di chi si guarda attorno e non si riconosce, si cerca e non si trova, si volta indietro per cercare le proprie radici ma anche il passato diventa fluido e opalescente. Avrebbe voluto sedersi su quel lettino e raccontare questi tumulti dell’anima, l’itinerario di chi è vissuto in una perenne frontiera senza approdo, in una terra che è stata veneta, asburgica, italiana, jugoslava e poi croata. Ma su quel lettino Nelida non s’è mai seduta, ha scelto invece la pagina scritta per raccontare un itinerario sofferto: il suo personale e quello corale dell’Istria.

Msa. Nelida Milani, lei come si sente: italiana, istriana o croata?
Milani. Mi sento italiana. Ma è logico che mi senta pure istriana, perché il senso dell’appartenenza a una terra, a una regione, nulla toglie alla mia italianità: un’identità che si è formata sulla lingua e la cultura italiana. La lingua italiana è la mia area di consolazione e di conforto assieme al dialetto di Pola, lingua madre.

Dove sono le sue radici?
A Pola, in Istria.

Che significa avere radici?
Significa non galleggiare sulla superficie del mare, come le alghe. I luoghi che abitiamo e che sono stati addomesticati dai nostri genitori e nonni sono simboli e metafore del rapporto tra noi e il mondo. Sono immagini incancellabili dell’animo umano. Identità e appartenenza sono due stampelle e, se mancano, viene a mancare la consapevolezza di sé.

Il dramma che lei ha vissuto come istriana è stato un evento personale o collettivo?
Personale e collettivo.
Con l’esodo io ho perso tre quarti della mia famiglia, ho perso tre quarti della mia classe, ho perso tre quarti del mio rione, tre quarti del mio vicinato, ho perso tre quarti della mia città.

Ci sono ferite mai rimarginate dentro di lei?
Esistono dentro di me come dentro ogni persona anziana. L’implacabile trascorrere del tempo è la nostra condizione umana e questa condizione contempla una serie di perdite, di addii, di separazioni assolute. Il tempo è terribile, la vera nostra condanna. La scrittura consente di ridurre il suo peso opprimente.

Si può vivere senza patria?
Troppe cose orribili sono successe e succedono in nome delle bandiere e delle patrie. L’Italia non è per me tanto un Paese, quanto una metafora. È il luogo dove i miei parenti, le mie zie e le mie cugine, i miei amici, le mie amiche hanno imparato il significato di parole come speranza, dignità, felicità. In realtà non importa nemmeno tanto vivere in Italia: la nostra gente si è sparpagliata in tutto il mondo, come seme al vento. Ma ha portato l’Italia dentro di sé. Noi qui, invece, abbiamo vissuto in un altro mondo, fatto di illusioni ma praticamente bloccato nella dignità di minoranza.

Che cosa fu l’esodo?
L’apocalisse. Una traumatica emorragia della componente italiana (e non solo) sviluppatasi tra il 1945 e il 1956. Uno sradicamento. Chi sceglieva di restare, o era forzato a restare, vedeva attorno a sé crearsi il deserto, il vuoto, un tumultuoso processo di trasformazione che modificava profondamente e violentemente i connotati antropologici e sociali dell’ambiente. L’esodo ha significato proprio questo: un oltraggioso «spossessamento» dell’identità, perché è stato negato alle generazioni più giovani il diritto di ricordare, di recuperare la memoria, di riconoscersi. È un tema doloroso non ancora ben assimilato dall’opinione pubblica italiana né tantomeno da quella croata e slovena.

Gli italiani che allora rientrarono in Italia non vennero accolti bene. Il partito comunista – allora alleato di Tito – li bollò come fascisti. Perché?
La classe intellettuale italiana ha sempre preferito non occuparsi di questioni istriane per paura di essere accusata di revanscismo e di irredentismo. L’Istria era un argomento scomodo per gli intellettuali di sinistra, che, vuoi per una questione di «unità nazionale», vuoi per non vedersi costretti ad aprire gli occhi su ciò che veramente era il regime jugoslavo, preferirono all’analisi dei fatti la retorica della classe politica dominante. La colpa di tanti profughi, per le sinistre, fu quella di essere fuggiti dal «paradiso comunista».

Perché un giorno ha deciso di scrivere?
La scrittura è stata per me un atto di fede nella parola, quando mi son resa conto – tardi! – di quanto la nostra parola fosse diventata moneta fuori corso, svalutata, maltrattata e abbandonata. E allora c’è stato in me uno scatto, un moto di orgoglio e di rivendicazione del potere della parola. La mia scrittura è un po’ una battaglia culturale, una battaglia di minoranza, una battaglia dalla parte dei vinti. Dà modo di parlare dei tanti «nessuno» della storia, delle famiglie dimezzate, della gente che nessuno calcola e che è stata umiliata e derisa dalla sorte.

Come vive oggi la comunità italiana in Istria?
L’esodo ha rimosso, resecato, tagliato i rapporti che ci legavano attorno a una comune tradizione, intorno a un’unica matrice linguistica e culturale. L’esodo è stato una lacerazione che ha determinato conseguenze tangibili dal punto di vista del modo di fare e di vivere. I «rimasti» sono stati sottoposti alla dinamica di annientamento del «vecchio» e alla nascita apocalittica del «nuovo». Dopo aver percorso per decenni i territori della distruzione, il grande segno positivo è che si può imparare – perfino attraverso la tragedia – a ricostruire se stessi. La cultura è stata l’«arma» della resistenza quotidiana. La minoranza ha fatto della cultura il proprio segno distintivo, il proprio patrimonio più prezioso.

In Italia vivono milioni di immigrati: lei crede nella multiculturalità?
I discorsi sciropposi e anestetizzanti sulla multiculturalità, sul dialogo delle culture, sul mutuo arricchimento, sull’armonia delle differenze, presentano la pluralità e la diversità come degli stati acquisiti (basta proclamarle perché esistano). E invece esse sono il prodotto di una lunga costruzione, di una volontà comunitaria, di una volontaria conquista, nel rispetto delle singolarità, che implica però anche conflittualità, e cioè una grande sofferenza.

Qualcuno dice che in nome della multiculturalità si dovrebbe abolire anche il crocefisso.
Non si risponde alla multiculturalità annientando la propria identità, le proprie radici, le proprie tradizioni.

Le foibe. Una pagina tragica di storia per gli italiani dell’Istria. Quanti morirono e come?
Una quantificazione precisa è impossibile. Le vittime furono non solo rappresentanti del regime fascista e dello Stato italiano, oppositori politici, ma anche semplici personaggi della comunità italiana e potenziali nemici del futuro Stato comunista jugoslavo. Bisognava eliminare gli oppositori politici del partito comunista. Ma scomparvero anche tantissime persone solo perché italiane: uno andava in campagna a cercar di comprare farina e spariva, il macellaio andava nei paesi vicini a procurarsi carne per la sua macelleria e spariva. La maggioranza dei condannati fu scaraventata nelle foibe o nelle miniere di bauxite. Molti vi furono gettati vivi.

Dopo Tito è venuto in Croazia il nazionalismo fanatico di Tudjman: che cosa ha significato per gli italiani e per lei in particolare?
I peggiori anni della nostra, della mia vita, tanto per parafrasare Renato Zero. La transizione non è stata un percorso liscio, bensì disseminato di discrepanze, gretto etnocentrismo, crimini di guerra a volontà e non perseguiti, un sistema scolastico infarcito di miti nazionalistici presi terribilmente sul serio, stridenti lacerazioni e spinte contraddittorie e convulse delle nuove società.

Chi è oggi Nelida Milani?
Oggi? Mi sento italiana di un’altra specie. Sono un mosaico, un insieme di tessere che si incastrano tra loro. Con una cultura mista di precaria convivenza sociale e di sincera e cordiale convivialità interpersonale, di piccola serena umanità, di piccole consuetudini, di natura e di paesaggi, di sole-mare-vento-cielo, di cosmopolitismo sempre in fieri. Malgrado tutto, l’Istria, come l’araba fenice, nasce e rinasce e la vita continua.

C’è una frase in un suo libro che trovo splendida: «Ho avuto una vita disseminata di lotte e di fallimenti e ora ho imparato ad amare il mio fallimento».
È stato un po’ il gioco del caso a determinare la rottura dell’armonia della nostra nicchia biopsichica, un principio beffardo demolitore dentro la struttura dell’Istria. Inutile andare a rivangare il passato: mancanza di referendum, trattati di Parigi, di Londra, di Osimo. Non sono certamente stati una «doverosa correzione» di precedenti soprusi. In conseguenza di ciò le situazioni gravi sono state parecchie. Una minoranza, volente o nolente, deve abbracciare il compromesso. Io ho da tempo abbracciato l’imperfezione della vita e nella vita. E quando si riesce ad amare l’idea di fallimento, l’idea della disfatta, allora niente più sorprende, si è superiori a tutto quello che accade, si è una vittima invincibile. È proprio la scrittura che aiuta a diventare vittime invincibili.    

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017