Diversa-mente. Il vegetale e i due complici
L’Università di Bologna mi conferirà una laurea honoris causa per il ruolo educativo da me svolto in questi trent’anni di lavoro. È il riconoscimento accademico di un lavoro di squadra, che trova la sua origine nell’educazione lungimirante dei miei genitori. Occorre fare un salto indietro di cinquant’anni. «A quel tempo» la disabilità era davvero handicappante. Può esserlo ancora oggi, ma negli anni Sessanta l’ostinazione di quel meccanismo era pervasiva, sancita anche a livello legislativo e istituzionale e confermata a quello pedagogico; si rifletteva anche sulla qualità delle relazioni che potevano instaurarsi. Se oggi avere un figlio disabile è considerato come una sfortuna, al tempo poteva essere una vera e propria maledizione. C’è una bella differenza tra sfortuna e maledizione, quest’ultima è come caduta dall’alto e non lascia vie di fuga.
La famosa frase del dottore, pronunciata scuotendo la testa dopo avermi visitato, all’età di due anni, «Non c’è nulla da fare, sarà un vegetale», dai miei genitori è stata lì per lì subìta proprio come si subisce una maledizione. Da quel momento hanno dovuto cominciare un percorso solitario e al buio. Dapprima riconoscendo che io ero loro figlio, una bella creazione e, in quanto tale, cominciando a darmi fiducia. Ancor prima, costruendo un rapporto forte di fiducia reciproca tra di loro e il senso di un’intesa forte: «Io ci sono e anche tu ci sei». Fiducia mista a complicità. Questa, ed è un ricordo molto vivido, si traduceva anche nella creazione di ingranaggi dalla meccanica e dalla tempistica perfette e funzionali, ad esempio per l’espletamento delle attività domestiche di tutti i giorni: mio padre mi alzava dal letto, mi portava da mia madre con la quale facevo colazione, la quale mi riportava da mio padre che mi sciacquava la faccia e mi lavava. Fiducia e complicità come un primo mattone solido per costruire il «resto». E per darmi la sensazione certa di non essere di peso, di non «interferire» troppo nella vita dei miei genitori: questo ha aumentato anche la stima che provavo nei miei stessi confronti, perché già da piccolo potevo sentirmi come non del tutto dipendente o, almeno, potevo avvertire la mia dipendenza come non pienamente vincolante per gli altri e, di qui, per me stesso.
A quell’età si scoprono i primi spazi di autonomia e libertà, si impara a muoversi nell’ambiente e in rapporto agli altri che lo abitano, è un processo graduale che per una persona con deficit rischia di svilupparsi con molta lentezza, spesso con un ritardo significativo rispetto ai suoi coetanei e in modo incompleto. Ho avuto la fortuna, al contrario, di vivere quel «flusso» di esperienze e di crescita sin da piccolissimo e nonostante i deficit che indubbiamente avevo. Ribadisco che questo è merito della «scommessa» dei miei genitori, dell’investimento, magari rischioso, che hanno fatto sulla costruzione della mia libertà e della mia identità autonoma. E la stima verso me stesso è stata un primo elemento fondamentale per il futuro ruolo di educatore, perché è difficile educare altri alla stima senza provarla nei propri confronti. Ma è proprio su quel «resto» cui accennavo poco sopra, che dovremo tornare, perché riguarda la costruzione di un modello genitoriale, educativo e relazionale che, per ragioni ovvie, risponde appieno alla cultura del «fatto in casa» e che però, in seguito, si è rivelato pienamente trasferibile anche nel mio ambito lavorativo. Provando a riconoscere in che modo i miei genitori hanno agito come educatori, scopro anche i termini in cui io lo sono stato e gli ambiti nei quali ho provato a esercitare questa professione. Ma questa è un’altra storia… Scrivete come sempre a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook.