Lettere al direttore

23 Febbraio 2011 | di

Che cosa significa digiunare?

«Caro direttore, il fatto che quest’anno la Pasqua cadrà tardi mi ha colto un po’ di sorpresa: dopo i bagordi natalizi e quelli carnevaleschi a seguire, ero solita salutare con sollievo l’arrivo della quaresima in febbraio. Ne ho accennato a mio marito, che però mi ha ulteriormente spiazzata, chiedendomi se intendessi digiunare per Cristo o per la linea. A questo punto le chiederei di spiegarmi bene quale significato ha il digiuno oggi».
Chiara - Viterbo
 
Ambire a una maggiore sobrietà è cosa positiva. Certo, quel che conta poi è l’intenzione, il motore vero dell’azione. La quaresima è un periodo di più intenso allenamento spirituale in vista di una migliore sequela di Gesù, non un’occasione per risparmiare, per dimagrire, per esercitare la volontà o per acquistare presunti crediti nei confronti di Dio con i nostri «fioretti».
Benedetto XVI, nel messaggio per la quaresima 2009, afferma che digiunare «è in primo luogo una “terapia” per curare tutto ciò che impedisce di conformare se stessi alla volontà di Dio». E prosegue definendo il digiuno «un’arma spirituale per lottare contro ogni eventuale attaccamento disordinato a noi stessi». Basterebbe questo per rendere evidente l’attualità del digiuno oggi: chi può dire, infatti, di essere del tutto esente da disordini?
Un personaggio affidabile che ha molto riflettuto sull’argomento è Enzo Bianchi: «Una prassi personale ed ecclesiale di digiuno – argomenta il priore di Bose – fa parte della sequela di Gesù che ha digiunato, è obbedienza al Signore che ha chiesto ai suoi discepoli la preghiera e il digiuno (Mt 9,15; Mc 9,29; cfr. At 13,2-3; 14,23), è confessione di fede fatta con il corpo». Il coinvolgimento del corpo nella preghiera non è quindi secondario, perché – sottolinea ancora Bianchi – «la fatica e la lotta contro le tentazioni non possono essere ridotte a una dimensione intellettuale».
Auguro allora a lei e a tutti i lettori un buon cammino di quaresima, affinché possa essere l’occasione per discernere di che cosa abbiamo davvero fame e che cosa davvero ci nutre.
 
 
Oltre il dolore per una cultura della vita

«Caro padre, sono un affezionato lettore del “Messaggero”, rivista che seguo sempre con profondo interesse. Qualche mese fa è morto mio fratello, dopo una lunga e dolorosa malattia. Negli ultimi giorni alternava momenti di lucidità a momenti di torpore, e quando era presente continuava a chiedermi di aiutarlo a morire. Io non l’ho fatto; ho atteso accanto a lui che arrivasse la fine. Ma ora ho bisogno che qualcuno mi spieghi perché, dandomi anche solo una ragione per dire che l’eutanasia non è lecita. Mi creda padre, una cosa è fare bei discorsi dall’altare e un’altra è assistere alla fine atroce di un proprio caro. Il suo destino ormai era segnato: perché ha dovuto patire fino alla fine?».
Gino
 
Caro Gino, ho letto e riletto molte volte la sua lettera, prima di trovare il coraggio di abbozzare una risposta. So che stare accanto a una persona cara che soffre è un’esperienza straziante, soprattutto se ci si sente impotenti di fronte a un destino che appare ineluttabile. Assistere a un dolore che cresce fino a invocare la morte è esperienza che porta sul crinale della disperazione e segna per sempre la nostra vita, lasciando una ferita interiore che, forse, nemmeno il tempo potrà lenire.
Comprendo anche la rabbia, che qua e là traspare dalle sue parole, per una sofferenza incontrollata, e credo di poterla condividere. Una delle questioni da sollevare è questa: come si possa ancora oggi morire in una sofferenza che porta alla disperazione quando ormai le cure palliative (quelle cioè che intervengono sui sintomi senza incidere sulle cause delle malattie) sono così sviluppate da poter agire con grande efficacia proprio sul controllo del dolore. Purtroppo la sua esperienza non è infrequente, perché ancora non è sufficientemente diffusa quella cultura del conforto e del sostegno nei confronti di chi non può ormai più guarire e non per questo deve essere considerato incurabile.
Bisogna tuttavia riconoscere che la lotta al dolore si sta diffondendo e va crescendo la rete delle cure palliative, anche se molto resta ancora da fare. Un «molto» che è importante sia fatto presto, perché sappiamo che la domanda di eutanasia nasce spesso dalla disperazione del soffrire e dall’abbandono che isola i malati giunti alla fine del loro calvario. Proprio l’ultimo tratto di vita chiede un incremento di dignità e significato.
L’ultimo perché della sua lettera è un macigno che pesa sulle nostre coscienze, per tutto ciò che ancora non facciamo e che invece potremmo e dovremmo fare per chi deve affrontare la prova del dolore. Rivolgendo lo sguardo verso l’orizzonte del prendersi cura, possiamo forse comprendere come la scelta dell’eutanasia per chi soffre sia solo una scorciatoia facile che deresponsabilizza e disimpegna tutti noi, negandoci la possibilità di dare un senso a quel segmento di vita che è il vivere che va verso il morire. Prenderci cura delle persone in «fine-vita» è l’unica vera risposta non ideologica che può contrastare la cultura della morte cercata e provocata, sottesa alle procedure di eutanasia. Fin dal suo nascere, la vita umana chiede di essere circondata dall’affetto e dalla solidarietà, e se ciò non accade aumenta inesorabilmente la quota della sofferenza. La capacità di attenzione alle situazioni di massima fragilità della vita segna la cifra di civiltà che una società è capace di esprimere, e la storia di suo fratello è da collocare in un contesto di fragilità in cui il sistema della cura non ha potuto essere presente in modo efficace. L’esperienza straziante che ha vissuto accanto a lui dev’essere un monito che non va perduto. Anche nelle situazioni più difficili la risposta non può mai essere l’anticipazione della morte, ma il sostegno alla persona, di modo che anche l’andare verso il morire possa essere un vivere autentico. Oggi questo è possibile perché abbiamo gli strumenti per farlo, abbiamo cioè la possibilità di riempire anche gli ultimi giorni di presenza e vicinanza amorevole.
 
 
Educare con severità e dolcezza

«Caro direttore, com’è difficile fare i genitori! Ora, come ho letto sull’articolo di Fulvio Scaparro (Msa 1/2011), rischiamo pure di essere puniti perché siamo severi. Abbiamo tutti sotto gli occhi i risultati della “morbidezza” nelle scuole e gli insegnanti che faticano a farsi ascoltare. Il mondo è duro, occorre avere una notevole disciplina, anche interiore, per affrontare le difficoltà quotidiane. Ho due figli adolescenti, ai quali, quando facevano i capricci, ho dato qualche sculaccione in età pre-scolare: adesso sono più bravi di tanti loro coetanei!».
Stefania
 
Non sono un genitore. Tutti i giorni, però, sono in contatto con famiglie alle prese con l’educazione dei figli. Da queste esperienze posso confermarle, cara Stefania, quanto sia difficile essere genitori, quanto questo «mestiere» sia imprevedibile, mai scontato eppure straordinario anche quando sfianca. A livello educativo, c’è chi pensa che valgano ancora le punizioni autoritarie, ritenendo magari che «se hanno funzionato con me…»; oppure, all’opposto, che basti il dialogo a risolvere ogni cosa, parlando ai bambini come se fossero adulti e facendo, in questo modo, un uso scorretto di uno strumento pur fondamentale per la crescita dei piccoli. In entrambe le situazioni si devono fare i conti con i rischi del caso: generalmente, sculacciate e ceffoni causano nei genitori struggenti sensi di colpa; d’altra parte, si finisce per essere troppo indulgenti e permissivi, tanto da farsi mettere i piedi in testa. Una ricerca, condotta lo scorso anno da «Save the children» e Ipsos, rivela come il 59 per cento dei genitori affermi di essere effettivamente meno severo rispetto ai propri genitori, percentuale che arriva al 68 per cento tra i genitori con figli più grandi. E se una punizione è necessaria, quelle più efficaci sono considerate l’«imposizione di una restrizione» (in media il 71 per cento), «sgridare i figli con decisione» (32 per cento) e «costringerli a svolgere delle attività non gradite» (21 per cento). Tuttavia, tra i genitori con figli da 3 a 5 anni, un 14 per cento ritiene utile ricorrere alla sculacciata, percentuale che diventa del 10 per cento per chi ha figli dai 6 ai 10 anni.
Credo che, tra tante teorie e relative scuole di pensiero, ognuna con la propria validità, ciascun genitore possa trovare un proprio compromesso tra sculaccione e carezza troppo indulgente, tra «sì» e «no», ma non solo. Nel rapporto tra genitori e figli, a mio avviso, molto si gioca nella netta distinzione dei ruoli, nello stabilire, sin da quando i figli son piccoli, un rapporto di affettuosa autorevolezza che può permettersi di far uso, senza mai abusarne, anche dello sculaccione o di un rimprovero più severo del solito. Basta solo che questi comportamenti non diventino «scorciatoie» che legittimano il venir meno alla propria responsabilità educativa. Responsabilità che va sempre esercitata nell’impartire quei «no» di fatto irrinunciabili.
 
I delitti familiari con gli occhi di un bambino

«Sono una maestra di scuola elementare e vorrei approfittare della sua rivista per stimolare una riflessione tra i genitori. In classe, parlando delle gemelline scomparse, uccise probabilmente dal loro padre, un bambino di 7 anni mi ha chiesto: “Maestra, allora non possiamo più essere sicuri neppure con i nostri genitori?”. Una domanda che rivela angoscia e che mina alla radice la più grande sicurezza di ogni bambino, quella di trovare sempre e comunque nei genitori infinito amore e protezione. Nell’era della comunicazione ma anche della confusione dei valori e dei messaggi, non dovremmo noi adulti prestare maggiore attenzione a ciò che ascoltano e recepiscono i nostri bambini?».
Lettera firmata
 

La ringrazio per il suo scritto che mette a fuoco una carenza educativa assai diffusa. Spesso, come lei giustamente rileva, trattiamo i piccoli come se fossero degli adulti in miniatura, non tenendo in debito conto che invece i bambini sono «a-selettivi», mettono, cioè, tutti i contenuti sullo stesso piano, non essendo ancora in grado di ordinarli, valutarli e distinguere tra vero e falso, bene e male, giusto e ingiusto. E tutto ciò li espone enormemente. Loro caratteristica è anche quella di sembrare distratti ma di assorbire in realtà come spugne i messaggi che circolano nell’ambiente in cui vivono, anche quelli di un tg lasciato distrattamente come sottofondo alla cena.
Se a questa fragilità fisiologica del bambino si aggiunge un’altra caratteristica, questa volta patologica, dell’informazione italiana di indulgere e amplificare con dovizia di particolari i fatti di cronaca nera, specie quelli che maturano in «contesti normali», il rischio per i più piccoli cresce in modo esponenziale. I dati dell’Osservatorio europeo sulla sicurezza hanno rilevato che nei primi sei mesi del 2010, il Tg1 ha dedicato ai fatti criminali l’11 per cento delle notizie trasmesse in prima serata, contro l’8 per cento dell’inglese BBC, il 4 per cento della spagnola TVE e di France 2 e il 2 per cento della tedesca ARD. A chi guarda la televisione di casa nostra, l’Italia rischia di apparire il luogo dei più efferati delitti familiari. In contrasto, tra l’altro, con quanto riportano le statistiche, che vedono il nostro Paese agli ultimi posti in Europa per questo tipo di crimine.
Motivo in più per vegliare sui messaggi che arrivano ai nostri bambini, dalla televisione ma non solo. Ne va della loro crescita psichica e, soprattutto, della loro serenità.
 
 
Il «Messaggero» a Koinè 2011

Farsi conoscere; incontrare; aggiornarsi. Sono i «buoni motivi per non mancare» a Koinè 2011, la rassegna internazionale biennale di arredi, oggetti liturgici e componenti per l’edilizia di culto, alla Fiera di Vicenza dal 12 al 15 marzo.

Quattro gli incontri a cura del «Messaggero» (Msa). Si inizia sabato 12 con «Sussidio liturgico on demand» (ore 15.00, con padre Paolo Floretta, vicedirettore generale Msa) e «La piattaforma cattolica Eliber per il libro elettronico» (ore 16.00, partecipano padre Ugo Sartorio, direttore generale Msa, e Manuel Tropea, Libreriadelsanto.it); il 13 marzo in programma «Evangeliario EMP» (ore 14.00) e la tavola rotonda «Rivista Liturgica: prospettive in vista del centenario» (ore 16.00), appuntamenti entrambi presenziati da padre Paolo Floretta.

Info: sito www.koinexpo.com
   

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017