Giovanni Paolo II.

Un cammino di beatificazione eccezionale, quello di Karol Wojtyla, scandito da veloci tappe. Un iter che non basta a spiegare il segreto di una santità che ha radici profonde e ancora misteriose.
28 Marzo 2011 | di

Il vento della santità
di Aldino Cazzago

Anche a sei anni di distanza, la scena è ancora viva nella memoria di tanti: venerdì 8 aprile 2005, al termine della messa esequiale, mentre il cardinale Ratzinger sta benedicendo la salma di Giovanni Paolo II, dalla folla radunata in piazza San Pietro si innalza per la seconda volta – era già successo al termine dell’omelia – il grido «Santo subito». Sei anni dopo, quel grido, quella «richiesta» – come scrisse il giornale inglese «The Independent» in quei giorni – ha trovato esaudimento, perché il 1° maggio prossimo il servo di Dio Giovanni Paolo II sarà proclamato beato.
 
Verso gli altari

Quali sono state le tappe dell’«inchiesta sulla vita, le virtù, e la fama di santità del servo di Dio papa Giovanni Paolo II»?
Il 13 maggio 2005, incontrando il clero della diocesi di Roma, Benedetto XVI annunciava di aver dispensato nel caso di Karol Wojtyla dalla norma che impone di attendere un periodo di cinque anni dalla morte per dar avvio al processo di una eventuale beatificazione. Nella Basilica di San Giovanni in Laterano, al cospetto del Tribunale diocesano, il successivo 28 giugno si apriva ufficialmente l’«inchiesta diocesana sulla vita, le virtù e la fama di santità del servo di Dio Giovanni Paolo II». Interrogatori di testimoni verranno successivamente fatti anche dal Tribunale diocesano di Cracovia.
In questa fase dell’inchiesta, che ha comportato quasi due anni di lavori, sono state interrogate 114 persone: 35 cardinali, 20 arcivescovi e vescovi, 11 sacerdoti, 5 religiosi, 3 suore, 36 laici cattolici, 3 non cattolici e 1 ebreo. Le loro deposizioni occupano migliaia di pagine e sono servite per redigere i quattro volumi della Positio. Nel giugno 2009 nove consultori teologi della Congregazione delle cause dei santi, dopo attento esame della Positio, hanno espresso parere positivo in merito alla eroicità delle virtù del defunto Pontefice. La stessa Positio è stata successivamente sottoposta al giudizio dei cardinali e vescovi della Congregazione delle cause dei santi, i quali hanno dato a loro volta parere positivo.

Il 19 dicembre 2009 Benedetto XVI ha firmato il decreto che riconosce l’eroicità delle virtù di Giovanni Paolo II. Come ha scritto il teologo carmelitano François Marie Léthel, «il primo passo, fondamentale, decisivo e irreversibile verso la beatificazione» era stato fatto. Per la beatificazione vera e propria mancava solo il riconoscimento di un miracolo. La pratica per tale riconoscimento era stata avviata dalla Postulazione fin dal marzo 2006. Dopo attento e scrupoloso esame della documentazione presentata, la Consulta medica della Congregazione aveva riconosciuto l’inspiegabilità della guarigione dal morbo di Parkinson di suor Marie Simon Pierre Normand. Prendendo atto delle conclusioni mediche, i consultori teologi attribuivano la guarigione della religiosa all’intercessione del servo di Dio Giovanni Paolo II, che ella stessa aveva richiesto nella preghiera. L’11 gennaio scorso i cardinali e i vescovi della Congregazione delle cause dei santi, riuniti in sessione ordinaria, esprimevano unanime parere positivo sulla miracolosa guarigione di suor Marie Simon Pierre Normand, «in quanto compiuta da Dio con modo scientificamente inspiegabile, a seguito dell’intercessione del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, fiduciosamente invocato sia dalla stessa sanata sia da molti altri fedeli», come recita la nota informativa della stessa Congregazione del 14 gennaio scorso.
 
Le reazioni
 
Come era facilmente prevedibile, la notizia della beatificazione ha dato adito a diverse reazioni: dalle più entusiastiche alle più scettiche.
Chi era intimamente già persuaso della santità di Giovanni Paolo II ha trovato nella notizia una conferma della propria convinzione. Il poeta polacco Marek Skwarnicki, amico del defunto Pontefice fin dal 1958, ha affermato: «La decisione di Benedetto XVI di proclamare beato il suo predecessore non è semplicemente un atto formale, è un evento spirituale che coinvolge la Chiesa ed entra nelle viscere del mio essere credente». Il suo ex segretario e oggi cardinale di Cracovia, Stanisław Dziwisz, ha ripetuto quanto aveva ribadito un infinito numero di volte: «Sono sempre stato convinto della santità di Karol Wojtyla». Il cardinale Jozef Tomko, che incontrò Karol Wojtyla nel 1969 quando questi era un giovane arcivescovo di Cracovia, e che dal 1979 lavorò al suo fianco, ha detto che Karol Wojtyla «è rimasto per oltre un quarto di secolo sul piedistallo del mondo, mettendo al centro della scena la fede e non se stesso».
Nel settimanale inglese «The Tablet» l’americano George Weigel, uno dei più autorevoli biografi del Pontefice polacco, ha scritto che a Giovanni Paolo II, in aggiunta al miracolo che la Congregazione ha attribuito alla sua intercessione, bisogna riconoscerne uno di ancora più grande: aver saputo rendere «irresistibile e interessante il cattolicesimo» proprio agli occhi di un mondo che pensava di non aver più «bisogno di Dio, di Cristo e della Chiesa». «Egli – proseguiva Weigel – ha fatto ciò senza diluire le domande del Vangelo, ma predicando la pienezza della verità del cristianesimo e infine dando corpo a questa predicazione con la sua stessa vita nella sofferenza e nella morte».

Le motivazioni dei contrari hanno spaziato dall’accusa a Giovanni Paolo II di aver deviato dalle verità di fede e della morale (accusa sollevata dai lefevriani) a quella di chi ha visto in questa beatificazione una scelta di politica ecclesiastica che le gerarchie vaticane e, in primis, Benedetto XVI, hanno fatto con lo scopo di creare una sorta di «autogiustificazione del papato», visto che da quasi centocinquant’anni a questa parte quasi tutti i Pontefici sono stati dichiarati santi. Ovviamente questi autori hanno concluso il loro parere sulla beatificazione in modo rassicurante per i sostenitori di Karol Wojtyla: «Nella beatificazione del Papa, naturalmente, non c’è niente di male».
 
Il segreto  della santità
 
Forse dobbiamo confessarlo senza paura: anche dopo le più accurate ricerche e indagini, il segreto di ogni vita santa, e quindi anche di quella di Giovanni Paolo II, a noi uomini resterà in gran parte sconosciuto. Solo Dio, che è il Santo per eccellenza, conosce il segreto della santità.
Schemi sociologici, interpretazioni psicologiche e analisi filosofiche della vita e dell’opera di Giovanni Paolo II, per quanto raffinate, non sono sufficienti a spiegare la sua santità. Il primo a esserne consapevole era il Pontefice stesso se – come ha scritto il postulatore Sławomir Oder – un giorno così ha detto: «Cercano di capirmi dal di fuori. Ma io posso essere compreso soltanto dal di dentro». «Dal di dentro» significa secondo una prospettiva che non è azzardato qualificare come «mistica» e che, con ogni probabilità, deve non poco alla tradizione mistica carmelitana, che egli ha conosciuto fin da giovane universitario. Molti di coloro che l’hanno frequentato hanno più volte parlato del costante clima di preghiera in cui egli ha quotidianamente immerso la sua esistenza. Nell’ottobre 2005, il cardinale Stanisław Dziwisz ha detto che in Giovanni Paolo II «una profondità mistica si alleava con la semplicità quasi di un bambino». Sono parole che indirettamente confermano quanto il Pontefice stesso aveva detto nel 1985 durante il suo viaggio in Perù, in risposta a chi si era complimentato con lui per il suo ottimo spagnolo: «Certo, hombre! Ho dovuto imparare lo spagnolo perché ho sempre avuto un grande interesse per il misticismo. Io sono un mistico. E la mia tesi di dottorato in sacra teologia fu basata sulle opere di santa Teresa d’Avila e san Giovanni della Croce, i due più grandi mistici che ha avuto la Chiesa cattolica».
Nell’aprile del 1990, a sei mesi dalla caduta del Muro di Berlino, Giovanni Paolo II fece una breve e storica visita in Cecoslovacchia, una nazione da poco tornata alla libertà. Intervistata dalla locale televisione, una donna anziana disse che «avrebbe fatto lo stesso lungo cammino anche soltanto per sentire il vento che avesse sfiorato il Papa». Forse era proprio il vento della santità, il vento che «soffia dove vuole».   
 
 
L’intervista.   Memorie di un postulatore
di Elisabetta Lo Iacono
 
Perché proprio la guarigione di una suora dal Parkinson è stato il primo miracolo riconosciuto di Giovanni Paolo II? E cosa manca per poterlo dichiarare santo? Risponde mons. Oder, postulatore della causa di beatificazione.
 
Msa. Monsignor Sławomir Oder, la guarigione di suor Marie Simon Pierre Normand permetterà a Giovanni Paolo II di essere elevato agli onori degli altari. Tra le tante segnalazioni ricevute, perché ha scelto proprio questa?
Oder. La segnalazione arrivò il mese successivo all’apertura del processo di beatificazione, quindi nel luglio del 2005, attraverso il cardinale vicario al quale la madre generale dell’istituto aveva indirizzato la lettera. A colpirmi furono tre cose: in primo luogo, la sobrietà del linguaggio, la mancanza totale di protagonismo e il pieno riconoscimento della gloria di Dio. Poi, il fatto che si trattava della stessa malattia che aveva portato alla morte Giovanni Paolo II. Infine, tale grazia restituiva al suo servizio una suora che si è sempre dedicata alla vita nascente e sappiamo quanto importante fosse questo tema per papa Wojtyla. Questi elementi, insieme, furono una sorta di «presentimento» ma, non essendo esperto in materia, chiesi all’istituto delle suore la documentazione relativa al caso per un parere medico. Quel parere favorevole fece aprire il processo.

Quando ha incontrato per la prima volta questa suora e quali emozioni ha provato?
Sono andato a incontrarla prima dell’apertura del processo, per rendermi conto di quello che stava succedendo. Ho trovato un luogo molto significativo: la comunità di suore, la liturgia, il clima di preghiera e di servizio. Da parte mia c’era l’emozione di avvicinarmi a una manifestazione della potenza di Dio, dall’altra parte notavo una persona con tanta fede, tanto entusiasmo e anche tanta umiltà. È stata un’esperienza forte.

Che cosa cambierà, a livello di devozione popolare, con la beatificazione?
Sino a ora è possibile solo la devozione personale, privata. Con la beatificazione, e con l’inserimento di Giovanni Paolo II nell’albo dei beati della Chiesa, diventerà possibile il culto pubblico, a livello di diocesi, comunità parrocchiali, istituti religiosi. Wojtyla sarà iscritto nel calendario dei santi e si potrà celebrare la messa votiva.

Con la beatificazione è prevedibile un notevole incremento di messaggi e di testimonianze…
Da quando è stata resa nota la data della beatificazione abbiamo notato un immediato aumento di messaggi, lettere e richieste. La nostra attenzione, dopo la beatificazione, sarà orientata a vigilare su qualche caso di grazia ottenuta che potrebbe essere un punto di partenza per la verifica di un nuovo miracolo, condizione sine qua non per procedere alla canonizzazione.

Miracolo che però deve avvenire dopo la beatificazione…
Teoricamente la grazia dovrebbe avvenire dalla beatificazione in poi, quindi in data successiva al 1° maggio. Tuttavia, se dovesse esserci un miracolo nel tempo compreso tra questa e l’annuncio della beatificazione, si potrebbe ottenere la dispensa del Santo Padre. In ogni modo non possono essere prese in considerazione le grazie ricevute prima della pubblicazione del decreto del riconoscimento del miracolo.

I santi sono protettori di alcune categorie professionali. Cosa ci possiamo aspettare per Giovanni Paolo II?
È molto difficile rispondere, perché papa Wojtyla è una persona così ricca da comprendere molti tratti particolari: una forte inclinazione alla preghiera, un grande impegno per i diritti dei bambini, un amore speciale per i giovani, una preoccupazione per la promozione della famiglia come fondamento della società. Troviamo in lui anche il difensore dei diritti fondamentali dell’uomo. Nel tempo, con lo sviluppo della devozione, la Congregazione del culto divino potrà esprimersi più compiutamente.
 
  
Giovanni Paolo II e…
I giovani
di Armando Matteo
 
L’intenso e straordinario rapporto di Giovanni Paolo II con i giovani potrebbe essere riassunto in un detto polacco che egli citò al termine dell’indimenticabile veglia della Giornata mondiale della gioventù di Roma nell’anno santo del 2000: «Chi sta con i giovani rimane giovane». E l’intera esistenza di Giovanni Paolo II è stata «uno stare con i giovani». Dagli anni del suo ministero in Polonia sino agli ultimi istanti prima della morte, il Pontefice è stato sempre circondato dall’amicizia e dall’affetto dei giovani. E questo perché essi hanno percepito in lui proprio quel «restare giovane» nel senso più vero del termine, che sosteneva e cementificava la speciale affinità di questo Papa con il loro mondo. «Restare giovane», grazie all’assiduo contatto con i giovani, ha significato per Giovanni Paolo II capacità di sorpresa, apertura agli altri, desiderio di andare incontro al nuovo che si affaccia sulla storia senza paura, ma con il coraggio di iniziare qualcosa di inedito. Ha significato soprattutto l’invenzione di un modo speciale di incontrare e di parlare ai giovani.

Non a caso la prima cosa che viene in mente quando si accosta la figura di Giovanni Paolo II ai giovani sono le Giornate mondiali della gioventù, che da metà degli anni Ottanta ormai scandiscono il cammino dell’intera Chiesa insieme ai giovani. Quella delle Gmg è stata e rimane un’invenzione molto efficace, sostenuta dalla volontà di mettere al centro dell’attenzione dell’intera comunità ecclesiale proprio la cura delle nuove generazioni, con un messaggio che oggi, in tempi in cui la società ama più la giovinezza che i giovani, ha anche un salutare valore profetico. I giovani esistono e si debbono garantire le loro prerogative.
Ma delle Gmg rimangono soprattutto nella mente e nel cuore lo stile dell’incontro e il linguaggio che il grande Papa usava nel rivolgersi ai suoi amici più giovani. I discorsi e le omelie di tali occasioni sono davvero memorabili. In essi Giovanni Paolo II ha dato un esempio compiuto di come comunicare una fede giovane e di come riscoprire la gioia dell’annuncio. Grazie a una profonda ispirazione biblica, non ha temuto di rompere le barriere del sacro e di testimoniare una prossimità più diretta ai suoi interlocutori, invitandoli sempre a fissare il volto di quel Gesù che non sbaglia mai colpo nello stigmatizzare ciò che appesantisce l’esperienza umana e nell’indicare ciò che invece la alleggerisce e la destina alla sua originaria bellezza. Invitandoli, in una parola, ad aprire a Gesù le porte del proprio cuore.
 
I santi e i beati
di Aldo Maria Valli
 
Con 482 santi (e 1.338 beati) proclamati durante quasi ventisette anni di pontificato, Giovanni Paolo II ha battuto tutti i record. Se consideriamo pontificati altrettanto lunghi, vediamo che Pio IX proclamò cinquantadue santi nell’arco di trentadue anni e Leone XIII diciotto in venticinque anni.
Non è stata una scelta arbitraria di Karol Wojtyla, ma un’applicazione del Concilio Vaticano II (1962-1965). Infatti, se in precedenza i santi erano considerati alla stregua di figure eroiche, distanti e quasi irraggiungibili, con il Concilio la santità è stata presentata in quanto ideale di vita per tutti i fedeli, laici e consacrati (non a caso Paolo VI, il papa che portò a termine il Concilio, in quindici anni proclamò ottantaquattro santi, grazie anche a una semplificazione della procedu­ra canonica). Proprio sulla scorta di quanto insegnato dal Concilio, Giovanni Paolo II era convinto che la diffusione del messaggio evangelico potesse avvenire più efficacemente attraverso la testimonianza di figure esemplari scelte anche in epoche recenti e in tutti i settori della società, e proprio per questo nel 1983 stabilì che possono bastare cinque anni dalla morte del candidato per aprire la fase diocesana del processo (salvo procedure ancora più rapide, in caso di una fama di santità particolarmente evidente e conclamata, come è successo per madre Teresa e, ora, per lo stesso Karol Wojtyla).

Fra i laici proclamati beati e santi da Giovanni Paolo II spiccano lo studente Pier Giorgio Frassati, morto, ad appena ventiquattro anni, nel 1925 e beatificato nel 1990; il medico Giuseppe Moscati (1880-1927); il medico e madre di famiglia Gianna Beretta Molla, morta, a quarant’anni, nel 1962 e proclamata santa nel 2004; i coniugi Luigi Beltrame Quattrocchi e Maria Corsini, vissuti tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento e beatificati, proprio in quanto sposi, nel 2001.
Impossibile elencare tutti i santi proclamati da Giovanni Paolo II. Tra i nomi più significativi ricordiamo Massimiliano Kolbe, Edith Stein, Riccardo Pampuri, don Giovanni Calabria, Maria Faustina Kowalska, Giuseppina Bakhita, padre Pio, Giuseppe Tovini, Federico Ozanam, Josemaría Escrivá de Balaguer, don Luigi Orione, padre Daniele Comboni.
Tipiche del pontificato di Wojtyla sono inoltre le beatificazioni e canonizzazioni di martiri, spesso innalzati agli onori degli altari in gruppo, come nel caso dei 120 martiri della Cina proclamati santi durante il Giubileo, nonostante le proteste del governo di Pechino, e dei 233 martiri della guerra civile spagnola beatificati nel marzo 2001.

Gli artisti
di Timothy Verdon
 
Paolo VI aveva detto: «La Chiesa ha bisogno di santi… ma essa ha bisogno anche di artisti bravi e capaci; gli uni e gli altri, santi e artisti, sono testimoni dello spirito vivente in Cristo». Ecco, in Karol Wojtyla, eletto nel 1978, Dio ha dato alla sua Chiesa un Pontefice che era al contempo santo e artista: poeta, drammaturgo e – almeno nei suoi anni universitari – perfino attore. Il suo sarà poi un pontificato segnato da novità artistiche, soprattutto nel campo del restauro: l’ultimazione dei lavori di ripristino degli affreschi della Sistina e l’inizio del restauro sia degli affreschi del Pinturicchio nell’Appartamento Borgia, sia degli affreschi e degli stucchi della Cappella Paolina. Viene realizzata anche una nuova cappella nel Palazzo Apostolico, ricavata da una sala al secondo piano nobile del Palazzo di Gregorio XIII: la Redemptoris Mater, le cui quattro pareti sono mosaicate su disegno di padre Marko Ivan Rupnik e del russo Alexander Kornooukhov in base al programma iconografico suggerito dal padre (poi cardinale) Tomas Spidlik.

Più della sua Cappella, però, sarà la Lettera stilata dal Papa scrittore alla vigilia del Giubileo del 2000 a costituire un contributo fondamentale al millenario rapporto tra il vicario di Cristo e gli artisti. Paolo VI aveva affermato, a nome dell’intera Chiesa, che l’artista «compie un ministero para-sacerdotale accanto al nostro», ma Giovanni Paolo II andrà oltre quest’affermazione. La differenza qualificante consiste in una identificazione con l’artista. Papa Montini scriveva da amatore e collezionista qual era; Karol Woytila scrive invece da artista. La sua (come osservò il cardinale Poupard, presentando il testo alla stampa) è «una lettera scritta con intimità e verità di accenti, sincerità di stato d’animo, partecipazione…di “collega”…». Giovanni Paolo II, Papa ma anche poeta, drammaturgo e attore, «entra così nell’animo stesso dell’artista − continuava Poupard −: lo esplora, perché lo conosce, artista lui stesso». Ma lo dice meglio Giovanni Paolo II stesso quando, nel primo paragrafo, ammette di sentirsi «legato» agli artisti «da esperienze che risalgono molto indietro nel tempo e hanno segnato indelebilmente la mia vita».

Le donne
di Mariapia Bonanate

Tutte le volte che dico a Giovanni Paolo II «grazie perché esisti», prima in terra e ora in quel cielo che convive con la terra, glielo dico soprattutto come donna. Per quella commozione che mai più se n’è andata dal mio cuore, da quando si è rivolto al mondo femminile, sia con la Mulierisdignitatem, ma soprattutto con quella rivoluzionaria e meravigliosa Lettera alle donne del 1995 che, per milioni di donne, è un filo d’oro che ci unisce alla Sua Persona. Mai nessun Pontefice prima di allora si era rivolto «all’altra parte del cielo» in modo così affettuoso e partecipe, dolce e nello stesso tempo profetico e autorevole. Mai nessun successore di Pietro era entrato così intimamente nella nostra storia individuale, rivolgendosi a ciascuna donna in particolare, per cercare di capire le nostre ragioni e difendere la nostra dignità, i nostri diritti, alla luce della parola di Dio. Per valorizzare quel genio e quel talento femminile a servizio degli altri nella normalità del quotidiano di cui «la società è in larga parte debitrice». Per avere scritto: «È specialmente nel suo donarsi agli altri, nella vita di tutti i giorni, che la donna coglie la vocazione profonda della propria vita, lei che forse, ancor più dell’uomo vede l’uomo, perché lo vede con il cuore».

Ma anche per avere, sempre in quella Lettera, chiesto scusa alle donne per gli enormi condizionamenti, soprusi ed emarginazioni che hanno reso difficile il loro cammino nei secoli, compresi quelli provocati da «non pochi figli della Chiesa». E poi il suo augurio che la comunità dei credenti, ma anche dei non credenti – partendo dall’atteggiamento di Cristo nei confronti delle donne, fatto di apertura, di rispetto, di accoglienza, di tenerezza – riconoscano l’importanza fondamentale dell’esperienza in Dio della donna.
L’ha indicata Gesù stesso, che affidando a una donna, a Maria di Magdala, il suo messaggio più importante, quello della risurrezione, l’ha posta al centro del progetto di salvezza dell’umanità. Ha indicato nella sua intimità con il Cristo dell’amore e della speranza, della misericordia e della condivisione, dell’ascolto e donazione gratuita, la strada da percorrere per rimanere fedeli al messaggio evangelico, contro le tentazioni del potere e di una religione che si esaurisce nel culto e non diventa relazione amorosa nei confronti dell’altro, nutrita dalla sapienza del cuore e dalla carità dell’intelligenza.
Grazie a te, Giovanni Paolo II, per essere stato, ed essere sempre di più vicino alle donne, per avere chiesto la loro collaborazione per umanizzare il mondo e riconquistare la presenza di Cristo vivo fra la gente.

La malattia
a cura di Giulia Cananzi
 
«Giovanni Paolo II mi scelse come suo medico personale appena due mesi dopo la sua elezione, il 29 dicembre del 1978, una data che mi cambiò la vita. In quei lunghi anni, poco meno di 27, avemmo molte occasioni per parlare dei suoi disturbi e delle sue sofferenze. Il Papa li affrontava con una fondamentale serenità, che egli riusciva a recuperare velocemente anche nei momenti più difficili. Credo che la sua forza venisse dalla capacità di sublimare quanto gli stava accadendo in una prospettiva soprannaturale dell’esistenza, caratteristica tipica del suo atteggiamento contemplativo.

Una capacità ancora più visibile negli ultimi giorni della sua vita. Ricordo quando lo convinsi a sottoporsi alla tracheostomia, uno dei momenti più duri che passammo insieme. Le crisi respiratorie erano ormai gravissime e l’operazione non era più rinviabile. Gli spiegai che l’intervento avrebbe migliorato la respirazione ma la sua parola e il suo canto sarebbero stati compromessi gravemente. Mentre parlavo mi sentivo un “maramaldo” che si accaniva su una vittima inerme e ancor oggi, quando emergono i ricordi di quelle difficili ore, si rinnova in me un senso di sgomento lacerante, come quello di un uomo che batte i chiodi sulla croce del Papa.

Il Papa chiese, quasi fanciullescamente, di rinviare l’intervento all’estate, ma, sotto la mia insistenza, volle qualche minuto per riflettere. Alla fine accettò, affidandosi al medico, come aveva sempre fatto. È difficile per ogni medico spiegare al proprio paziente le conseguenze di un intervento come quello: per quanto il paziente si sforzi di accettarle, per lui è una scoperta brutale quella di sperimentare un’improvvisa e devastante menomazione del proprio corpo. Ricorderò per sempre il momento in cui il Santo Padre tornò dalla camera operatoria. Chiese un foglio e scrisse di suo pugno, con grafia incerta, una frase in polacco: “Cosa mi hanno fatto! Ma: “Totus tuus”. Nel momento della croce, il grido di dolore e di sconforto e poi, subito dopo, l’affidamento totale alla divina volontà.
Nella vita Giovanni Paolo II fu un uomo che ebbe molte sofferenze fisiche. Il gravissimo attentato, la neoplasia al colon, le numerose operazioni chirurgiche, la lunga e invalidante malattia. Molti hanno sottolineato la sovraesposizione mediatica della sua sofferenza, ma credo che ciò fosse un fenomeno prevedibile in un tempo in cui trionfano i mezzi di comunicazione di massa. Questo però non deve oscurare il fatto che mostrarsi nella sua fragilità fu una scelta deliberata del Santo Padre. Il suo fu il rifiuto di nascondersi, la decisione consapevole di accettarsi e farsi accettare nella semplicità di una condizione umana sempre più povera. La sua era una rinuncia a tutto, una spoliazione radicale, che già annunciava la morte e sperava nella risurrezione».
Renato Buzzonetti
medico personale
di Giovanni Paolo II

(a cura di Giulia Cananzi)
 
 
 
 
Pellegrino nel mondo
 di Filippo Anastasi
 
Papa Wojtyla fece del viaggio un mezzo pastorale potente. 104 itinerari, nei cinque continenti, per testimoniare l’abbraccio della Chiesa e per spostare verso l’uomo le lancette della Storia.
 
Quello di papa Wojtyla è stato un pellegrinaggio planetario: quasi tre volte e mezzo la distanza dalla terra alla luna, quasi tre anni trascorsi in giro per il mondo, lontano dal Vaticano, in centoquattro viaggi. Viaggi molto diversi tra loro, che hanno inciso come pietre miliari nella storia dell’uomo, nelle coscienze dei credenti e dei non credenti, sulla via dell’umanità verso la pace. Viaggi che hanno aperto talvolta spiragli, talvolta finestre, talvolta hanno spalancato portoni sul mondo. «Aprite le porte a Cristo» aveva detto Giovanni Paolo II nel corso della messa di inizio pontificato, frase ripetuta durante la sua prima visita in una Polonia paralizzata dal regime comunista. La storia ci dice che, dopo qualche anno, non solo nella sua patria si sono aperte le porte, ma sono caduti anche i muri che quelle porte tenevano serrate.

Per comprendere meglio perché papa Wojtyla sia stato, come lo ha chiamato qualcuno, un «globetrotter della pace con la Chiesa in spalla», bisogna ricordare quello che disse il 25 gennaio del 1979, prima di imbarcarsi per il suo primo viaggio. Andava in America Latina, non per caso, perché voleva ripercorrere idealmente le orme di Cristoforo Colombo. Il primo territorio toccato sarebbe stato Guanahani, l’isola della Repubblica Dominicana che il navigatore genovese aveva battezzato San Salvador. Poi avrebbe proseguito per il Messico e le Bahamas.

Dunque, prima di salire sull’aereo, disse: «Il Papa va come messaggero del Vangelo per milioni di fratelli e sorelle che credono in Cristo, perché li vuole conoscere, li vuole abbracciare, vuole dire a tutti i bambini, giovani, uomini, donne, operai, contadini, professionisti, che Dio li ama, che la Chiesa li ama».
Da allora compì centoquattro viaggi, «perché – come confidò al suo portavoce Joaquín Navarro-Valls – non tutti possono venire a Roma». Viaggi tutti diversi con i quali ha scavato nella corteccia dura dell’uomo.

Da giornalista, ho avuto il privilegio di accompagnare questo Papa in una cinquantina di viaggi. Un’esperienza che rivivo nel libro In viaggio con un santo, di imminente uscita per le Edizioni Messaggero Padova. Un libro curioso, ricco di aneddoti, dove racconto i viaggi ma anche i numerosi episodi personali, al seguito di un Papa speciale. Molti anche i «dietro le quinte» dei voli papali, per sapere, per esempio, che il Pontefice è l’unico Capo di Stato che non ha un aereo personale, ma di volta in volta viene allestito per le sue esigenz

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017