Meno sostegno, dibattito aperto
L’articolo di gennaio dal titolo Meno sostegno più inclusione? (del quale potete leggere il seguito scritto direttamente da Claudia Trombetta, la mamma dalla cui vicenda l’articolo partiva, sul sito http://www.educationduepuntozero.it) ha dato avvio a uno scambio di idee molto interessante – animato, come prevedibile, da molti insegnanti di sostegno, ma non solo – che ci permette di individuare ambiti tematici e criticità solo sfiorati dal mio scritto. Subito un aspetto importante: gli insegnanti che mi hanno risposto sottolineano spesso l’importanza, il «bisogno» della presenza dell’alunno disabile in classe, come risorsa per tutti (e non come generatore di problemi e difficoltà aggiuntive).
Un elemento critico che emerge da più lettere riguarda, invece, la qualità delle condizioni lavorative dell’insegnante, riconoscendo la validità della questione centrale che avevo messo in evidenza. Grazia scrive: «Per l’esperienza maturata negli ultimi dieci anni di carriera mi sono trovata a domandarmi: ai fini dell’inclusione, “serve” la mia presenza? E ancor di più per gli alunni gravi, serve l’insegnante di sostegno in una scuola impreparata ad accoglierli? Nei casi più lievi, invece, serve per “fare la differenza”? Forse e involontariamente ho aperto un capitolo triste e doloroso: nella scuola siamo tutti numeri, l’alunno e il docente, e l’umanità è affidata al cuore di ciascuno. Nobile è la legge 104, ma da rivedere».
Altri auspicano uno scambio costante di idee ed esperienze per poter definire meglio parametri quanto più condivisi, in modo da capire chi e per quanto tempo (o in che ordine di studi) possa fare a meno dell’insegnante di sostegno, pur avvertendo che in ultima istanza la decisione deve spettare alla famiglia e che in ogni caso non è possibile una generalizzazione. Altri ancora ritengono non problematico il discorso se riferito alla scuola dell’infanzia, suggerendo però, come fa Ausilia, che «l’insegnante specializzato, essendo competente e operando “in punta di piedi” nel contesto classe, è in grado di rilevare precocemente nel bambino la mancanza di prerequisiti fondamentali all’apprendimento. È poi determinante che l’insegnante di sostegno non sia percepito dagli alunni come “l’insegnante del bambino con problemi”, bensì “l’insegnante di tutti gli alunni”, come gli altri docenti. Ciò dipende dalla professionalità – oltre che dal buonsenso – di tutti i colleghi, che devono sempre ricoprire all’interno della classe ruoli intercambiabili».
Da accogliere e meditare anche gli interventi in più deciso disaccordo. Rita, ad esempio, si mostra perplessa: «Se con il termine inclusione intendiamo la partecipazione attiva alla vita scolastica dell’alunno con bisogni speciali, come si può affermare che sia molto meglio senza l’insegnante di sostegno? L’approccio inclusivo presuppone un docente competente che aiuti l’alunno ad acquisire quelle abilità fondamentali per un’interazione corretta con ambienti e compagni. L’età della scuola dell’infanzia è quella in cui si interviene con maggior efficacia nei risultati. Sono una docente di sostegno, non vivo in simbiosi con l’alunno, ma credo nel mio lavoro. Apprezzo l’articolo, ma non generalizziamo».
Molteplici voci, molteplici aspetti, numerosi (e doverosi) piani di lettura. Invito a proseguire questo confronto, data la qualità delle risposte e degli spunti arrivati sino ad ora, a testimonianza che l’azione della signora Trombetta non è una pretesa slegata dalla realtà; piuttosto è un tentativo mosso dall’osservazione, dalla conoscenza di sua figlia, un tentativo che ci invita ad approfondire le questioni e a non considerarle date una volta per tutte. Scrivete a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook.