Dossier. Un passo dopo l'altro

Decidere di macinare chilometri a piedi resta una scelta controcorrente, ma sta contagiando sempre più persone. Un percorso alla ricerca delle sorgenti del camminare, sulle orme di Gesù, sant’Antonio e san Francesco.
24 Maggio 2011 | di

Pronti? Si parte. Per il tragitto di queste poche pagine non serve nemmeno lo zaino: sono sufficienti una decina di minuti di pazienza, la disponibilità a lasciarsi prendere dalla narrazione e un pizzico di curiosità. Vogliamo andare alla ricerca, passo passo, del significato del camminare. In questo percorso ricalcheremo le orme di alcuni che ci hanno preceduto e ci accompagneremo per brevi tratti ad altri camminatori. Ma resteremo anche spesso soli con noi stessi, perché ogni camminata implica solitudine, soprattutto quando bisogna «raschiare il barile» delle energie personali per muovere il passo successivo. Per carità: nulla di troppo eroico.

Camminare, infatti, è la cosa più naturale del mondo da oltre 3 milioni di anni, da quando, cioè, l’essere umano ha conquistato la posizione eretta. E come gli esordi del bipedismo si perdono nella notte dei tempi, così non abbiamo memoria diretta dei nostri primi passi, avvenuti, in genere, intorno all’anno di età. Quanti chilometri macinati, da allora, se si calcola che in una giornata media una persona sedentaria percorre all’incirca 5 mila passi.
 
Primo ostacolo: la fatica
Eppure, senza voler generalizzare, dobbiamo riconoscere che noi occidentali non camminiamo abbastanza: quando ci predisponiamo a un viaggio più lungo di qualche centinaio di metri, infatti, il pensiero corre subito ad auto, moto, aereo, treno, scooter... I più sportivi, al limite, pensano alla bicicletta. Il senso comune ci dice che il camminare oggi è diventato solo un verbo nostalgico, perché richiama alla mente uno dei grandi tabù dei nostri giorni: la fatica. «Ma sei matto?» chiede subito l’irremovibile amico invitato a un trekking in montagna nel week-end. «Lavoro tutta la settimana, e dovrei riposarmi così?».
 
Con la giusta lentezza
Ma c’è anche un’altra componente inscritta nel camminare e avvertita come anti moderna: la lentezza. Perché il ritmo dei passi dilata non solo la dimensione dello spazio, ma anche quella del tempo. La vertigine che proviamo nell’incedere lento dipende dal percepire ormai come «normali» i ritmi convulsi della nostra società.
«Mai come oggi vi è bisogno di muovere le gambe. Passo dopo passo, servirebbe deambulare». Ne è convinto Mauro Corona, scrittore e scultore che, nella prefazione al libro di Paola Lugo 101 camminate in montagna (Mondadori 2011), così riassume il suo pensiero sul camminare: «Per muoversi sui piedi o deambulare bisogna avere qualche brandello di tempo libero, molta volontà e buone motivazioni. Le prime due cose bene o male si possono in qualche modo raccattare. La terza è molto più difficile. Essere motivati a camminare è patrimonio di faticatori indefessi, gente creduta malata, ormai in via d’estinzione.
Per camminare ci vuole qualcosa che alletti l’idea, stimoli la decisione di mettere un piede davanti all’altro almeno ogni tanto».

Eppure, nonostante tutte le nostre premesse pessimistiche, dobbiamo riconoscere che i marciatori oggi sono tutt’altro che in via d’estinzione. Perché il numero delle persone che vanno riscoprendo quest’antica disciplina è in crescita. Un esempio è dato da Santiago de Compostela: nel corso del 2010, anno santo giacobeo, ben 272.703 persone si sono fatte rilasciare l’attestato del compiuto pellegrinaggio, l’ambita «Compostela». Eloquente il confronto con il precedente anno giacobeo, il 2004, quando i pellegrini furono «solo» 179.944. Altro trend positivo lo registra, in casa nostra, la più popolare e antica associazione di camminatori, il Club alpino italiano: nel rapporto attività 2010 il Cai fa segnare dal 2005 a oggi un più 5,5 per cento di iscritti, per un totale di 319.413 soci.

Certo, non si cammina solo in montagna, ma le alture sono uno scenario dal fascino tutto particolare per immergersi nella natura e riscoprire l’incedere lento. Tanto cresce la pendenza, tanto aumenta la lentezza. «Scalare è il moto più lento che la specie umana abbia inventato. Il suo progredire è più a centimetri possibile». Lo testimonia Erri De Luca, il napoletano scrittore di successo, innamorato della Bibbia – da non credente – e dell’alpinismo, due passioni che spesso ha intrecciato nei suoi libri. Al TrentoFilm­Festival di fine aprile, dove ha inaugurato l’edizione numero 25 di MontagnaLibri, ci raccontava: «Non salgo per bisogno di avvicinarmi a qualche presenza, per un’intimità col cielo. Né per sfuggire a qualcosa o a qualcuno. Vado in montagna per provare la buona sensazione di prendere distanza dal suolo, per permettermi una passeggiata in un deserto. Il motore dell’alpinismo per me è soprattutto la ricerca della bellezza, che è poi il movente di tutte le forti pulsioni umane: anche la scienza, ai suoi inizi, era mossa dal desiderio di scoprire il segreto della bellezza».

Un segreto che rimane intatto, a disposizione di chiunque voglia provare a intuirne la portata, se si rende disponibile a quello scatto di gratitudine che è lo stupore. «Che cosa fa riscoprire la meraviglia in montagna? La possibilità di puntare lo sguardo all’infinito, verso spazi che non hanno ostacoli». Eppure la vetta, il luogo dove più facile è lanciare questo sguardo, non è altro, per De Luca, che «il punto oltre il quale non posso proseguire in alto. La cima è l’arrivo in fondo al vicolo cieco del cielo, da dove ripartire per tornare indietro». Il ritorno dalla scalata è al centro di E disse (Feltrinelli 2011), dove Mosè, primo alpinista, rientra stremato all’accampamento ai piedi del Sinai, con sulle labbra l’interrogativo «Chi sono?». «Nella scrittura sacra – spiega lo scrittore – la divinità preferisce i luoghi appartati per incontrare i suoi: per questo la professione dell’Antico Testamento è quella del pastore, colui che vive in posti sperduti. Se camminando in montagna si incontra se stessi? Un proverbio russo dice: “Se non sai se puoi fidarti di un amico, invitalo in montagna”. Perché in montagna la materia di cui è fatta una persona, il bene e il male, affiorano più facilmente».
Per  De Luca camminare è anche una metafora della scrittura: «Sì, scrivere è un modo di percorrere un sentiero. Inaugurarlo anche. Immaginarsi che qualcuno lo segua. Senza avere fin da subito una meta precisa. All’inizio è un vagabondaggio attraverso una storia che si precisa solo strada facendo».

Un luogo adatto a riflettere sul connubio scrittura-cammino sarà LetterAltura, rassegna che si tiene dal 22 giugno a fine luglio sul Lago Maggiore. Dal fitto calendario del festival abbiamo pescato il nome di Piero Dorfles, giornalista e critico letterario, popolare conduttore di Per un pugno di libri, in onda da dieci anni su Raitre. Ci ha anticipato alcune riflessioni che svolgerà nel pomeriggio del 24 giugno a Verbania: «Mi sono reso conto che molto spesso il camminare diventa scrittura, e che c’è qualcosa di davvero profondo in questo legame, connaturato alla domanda su che cosa è l’uomo. In fondo l’uomo scrive da quando cammina e, più o meno, cammina da quando scrive».
Eppure la «naturalità» del camminare oggi è di frequente messa in discussione. «Nel mondo odierno – argomenta Piero Dorfles a questo proposito – camminare non è più una necessità, legata all’istinto primordiale dell’uomo di procurarsi il cibo per vivere. Oggi, quando per viaggiare camminiamo a piedi, lo facciamo per scelta. Così il camminare, che di per sé è un fatto materiale, diventa qualcosa relativo al nostro specifico di uomini, e quindi al nostro pensiero astratto e spirituale. Diviene uno strumento di riflessione, di apertura, e, in definitiva, una contemplazione».
 
Il camminare cristiano
L’ultimo termine usato da Dorfles, «contemplazione», ci fa approdare alla stretta via del camminare cristiano. Anche qui il legame con la scrittura è fondamentale. Le radici sono nella Bibbia, nell’esodo del popolo di Israele dall’Egitto verso la terra promessa. E Gesù? «Cammina. Senza sosta cammina. Va qui e poi là. Trascorre la propria vita su circa sessanta chilometri di lunghezza, trenta di larghezza. E cammina. Senza sosta». È l’incipit di L’uomo che cammina di Christian Bobin (Qiqajon 1998), che in termini poetici descrive l’incedere di Cristo: «Nulla si riprende dal suo passaggio e il suo passaggio non conosce fine» annota l’autore francese. Altro libro che cerca, con parole alate, di rendere l’andare del Nazareno è Gesù Figlio dell’uomo di Kahlil Gibran, che ci viene suggerito da padre Edoardo Scognamiglio, ministro provinciale dei frati conventuali di Napoli e autore di numerosi contributi sulla spiritualità del pellegrino. «Gesù si presenta come forestiero, pellegrino, figlio dell’uomo che non ha dove posare il capo. Il suo è un camminare orizzontale, orientato verso l’uomo, verso la folla, come si capisce dal Vangelo di Marco. Non è per niente un camminare ascetico. Annuncia che il regno di Dio è in mezzo a voi, non dentro di voi – in maniera intimistica – né sopra di voi – lontano –. Cristo non è separato dal mondo, ma è vero il contrario. E cammina fuori dagli spazi sacri, dove infatti compie la maggior parte dei miracoli. Altra caratteristica del camminare di Gesù è il suo porsi davanti: è il maestro, la via».

I seguaci di Gesù, fin dai primi secoli, si sono fatti pellegrini per raggiungere i luoghi della nascita, morte e risurrezione. Sulle tracce di Pietro, Paolo e dei martiri, anche Roma diventò presto meta privilegiata di pellegrinaggio, e pure Santiago de Compostela, per onorare l’apostolo Giacomo il Maggiore. La riscoperta contemporanea del Cammino in terra spagnola ha fatto da traino anche ai diversi tentativi di rinverdire i fasti della Via Francigena, l’antico tracciato che, dalla Galizia – e non da Canterbury, come ben argomentato dallo storico Franco Cardini – portava fino a Roma. Ma il tema del pellegrinaggio a piedi riguarda una miriade di santuari, dal Nord dei Sacri Monti piemontesi e lombardi (il più famoso è quello di Varallo) al Sud del Monte Pellegrino di Palermo. Anche i luoghi antoniani e francescani sono coinvolti. Di Padova diciamo a parte; ad Assisi invece negli ultimi anni sono stati disegnati due percorsi, uno da La Verna a Poggio Bustone (www.diquipassofrancesco.it), l’altro da Assisi a Roma (www.camminodifrancesco.it). Bella iniziativa di cammino con meta Assisi è poi la Marcia Francescana, proposta nazionale della pastorale giovanile dei frati minori giunta alla trentunesima edizione.

I giovani partecipanti giungono, dopo una settimana di passi, a Santa Maria degli Angeli, proprio nella festa del Perdon d’Assisi, il 2 agosto. Qui si accentua la componente della riconciliazione col Padre, ma anche altre sono le possibili forme di pellegrinaggio, come sottolinea Scognamiglio: «Lode, ringraziamento, supplica, ispirazione per trovare soluzione a un problema, per capire cosa fare. Le motivazioni per partire però possono essere anche meno definite, un insieme di esigenze di carattere spirituale, sociologico, psicologico, culturale, spesso fra loro intrecciate. Sono convinto che, al di là del perché partiamo, noi siamo già preceduti da Dio nel nostro camminare. Le motivazioni vere, del resto, possono nascere anche durante il percorso. Mentre si viaggia Dio si rivela, attraverso un volto, una testimonianza, un incontro inatteso. Camminare significa anche lasciare spazio alla libertà di Dio, che opera al di là dei nostri programmi. Ecco che, spesso, per chi fa un pellegrinaggio è importante il cammino in sé, la condizione esistenziale e spirituale del “frattempo”, del vincere lo spazio, al di là della meta». Si delinea così una spiritualità del pellegrino, composta essenzialmente da tre elementi, come sintetizza ancora padre Edoardo: «Ci mettiamo in cammino perché siamo alla ricerca di un compimento, che riconosciamo essere al di fuori di noi. Secondo elemento è il mettersi in discussione uscendo dalla propria tana, dalle abitudini, con­vertendo il punto di vista. Infine la scoperta di sé. Ma non ci sono garanzie di tornare dalla meta diversi rispetto a prima».

Siamo giunti al termine del nostro percorso, eppure rimangono tante domande sul tappeto. L’uomo sa che cosa sta cercando? Sceglie un cammino o si avvia semplicemente per la prima strada che gli si presenta? Agli incroci, sa da che parte andare? È lo stesso smarrimento vissuto da san Francesco, all’inizio della sua vicenda: «Nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare» confessa nel Testamento. Che così prosegue: «Ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo». Il cammino più intrigante è quello che ha Gesù come bussola.
 
 
Salute
Diecimila passi al giorno
di Luisa Santinello
 
Camminare sì, ma con ritmo. «Cento passi al minuto per un totale che varia dai 5 ai 10 mila ogni giorno, cinque volte a settimana». Più che un consiglio medico, una ricetta «allunga-vita». Parola di Gianfranco Salvioli, professore di geriatria all’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia. «Camminare fa bene sia al fisico che alla mente, l’importante è mantenere un’andatura sostenuta». E i benefici non tardano a presentarsi, specie per chi ha superato i 65 anni. «Negli anziani camminare contribuisce a contrastare la perdita di tono muscolare. Normalizza i valori della pressione arteriosa e la funzionalità del cuore, diminuisce il peso corporeo e l’insulinoresistenza».
Cala la pancia, si riduce pure il rischio di contrarre il diabete. Senza contare i vantaggi che una bella passeggiata porta a livello psicologico: «Ha effetti antidepressivi e migliora le funzionalità cognitive. Per questo camminare è molto indicato anche per prevenire malattie che colpiscono il sistema nervoso come l’alzheimer».

Un’abitudine molto più utile di tante pillole, peccato solo che in Italia nessuno la prescriva. «Nel nostro Paese non esiste la cultura della camminata come terapia per migliorare le prestazioni fisiche – continua Salvioli – abitudine che invece negli Usa è già sdoganata da molti medici». Eppure, a detta del geriatra, non è mai troppo tardi per cominciare. Alla camminata anche il più irriducibile dei sedentari può convertirsi. L’importante è seguire un piano di allenamento graduale, magari muniti di contapassi, scarpe dalla suola ammortizzata e indumenti traspiranti. «La camminata è una scelta di base adatta a tutti. Chi la abbina a un’alimentazione adeguata, poi, attua una vera e propria metamorfosi del proprio stile di vita».
E allora tutti in pista sull’argine di un fiume, su strade sterrate o anche in città, magari facendo lo slalom tra viuzze del centro e piazze affollate.

Per fare quattro passi non c’è limite alla fantasia. Lo sapevano bene anche gli antichi greci. Nel V secolo a.C. il medico Erodico prescriveva ai suoi pazienti lunghe camminate da Atene fino a Megara. Qualche anno dopo anche Ippocrate raccomandava di passeggiare. Con gradualità, meglio se al mattino, per cinque giorni a settimana. «Il movimento è vita, mentre la mancanza di azione è morte – dicevano i discepoli del padre della medicina antica –. Dobbiamo sudare tutti i giorni per espellere i veleni che si sono formati dentro di noi».
 
 
 
Cammino di sant’Antonio
Sulle orme del Santo
di Cinzia Agostini
 
Cammino di sant’Antonio è il nome che i frati conventuali di Padova hanno dato ai pellegrinaggi da loro proposti ai devoti del Santo che amano unire il camminare alla preghiera. E che stanno riscuotendo sempre più successo di partecipazione. «Nel risveglio di interesse verso i pellegrinaggi gioca un ruolo importante la devozione a un santo – afferma padre Alberto Tortelli, tra i referenti per il Cammino –. Ma incidono anche il bisogno di contatto con la natura, il desiderio di riappropriarsi del corpo, di sperimentarsi, la voglia di isolamento, di lentezza, di ascolto, di silenzio, di spiritualità».

Msa. I pellegrinaggi hanno valenza educativa?
Tortelli. Certamente. Il pellegrinare si basa sul connubio tra mente e corpo, parti di noi che nel quotidiano appaiono come separate. Nel camminare, invece, questa scissione viene meno: abbiamo tempo, c’è silenzio, sentiamo il corpo, scopriamo di essere un’unità. Diventa anche occasione per intrecciare relazioni nuove, guardare il creato e seguire i ritmi della natura, sperimentare una fatica che non è quella tecnologicizzata della palestra, ma finalmente normale, e implica sudore, stanchezza, dolore fisico.

E dal punto di vista spirituale?
Il camminare è tradizione di tutte le religioni: evoca, infatti, la necessità di muoversi per andare verso qualcosa di più grande, lì dove si può trovare una risposta, un senso. C’è poi l’idea penitenziale del ritrovare se stessi negli ambiti della vita che si sono trascurati, nelle zone ombrose in cui ci si è persi.

Pellegrinaggio anche come inizio di un percorso personale?
Sì, perché aiuta a comprendere chi siamo, dove stiamo andando. Importante è anche il rimando al dopo: quello che si sperimenta sulla strada concretamente, si può ritrovare in forme diverse nel quotidiano. E diventa un richiamo forte a scegliere ciò che è veramente importante e su cui vale la pena spendere energie, a chi dare fiducia e chi seguire.

Com’è nato il Cammino di sant’Antonio?
La prima edizione, organizzata nel 1995 nella ricorrenza del centenario della nascita del Santo, coinvolse tutte le diocesi del Triveneto e vide la partecipazione di migliaia di giovani. Negli anni successivi la proposta fu ripetuta, ma in forma semplice, quasi familiare, fino a quando i Comuni attraversati durante il tragitto hanno cominciato a pensare a una pista ciclabile che li collegasse a Padova. Noi frati abbiamo allora chiesto che questo tracciato venisse definito come sentiero di pellegrinaggio, arricchendolo di un’apposita segnaletica: la proposta fu accettata.

Com’è strutturato?
Gli itinerari sono due: l’ultimo Cammino e il lungo Cammino. L’ultimo Cammino – di 25 chilometri, da Camposampiero alla Basilica di Padova – ripercorre idealmente il viaggio di Antonio morente. Negli ultimi dieci anni è stato percorso da circa 10 mila persone. Per i giovani, in particolare, viene organizzato un pellegrinaggio notturno l’ultimo fine settimana di maggio; nell’edizione 2010 hanno aderito in circa 800, provenienti da varie parti d’Italia, dalla Francia, dalla Croazia, dalla Slovenia. Il Cammino lungo, invece, è un’iniziativa nata da un gruppo di pellegrini che, pensando al nostro Santo come a un grande camminatore, ha ideato un percorso sui luoghi per i quali sant’Antonio è passato durante la sua vita. Tre possono essere i punti di partenza: la Basilica della Salute di Venezia, dove è conservata una reliquia, il santuario di Camposampiero o la stessa Basilica del Santo.

In tredici tappe, per una lunghezza complessiva di circa 300 chilometri, si giunge a Montepaolo (FC), il più importante santuario antoniano dell’Emilia Romagna, che custodisce la grotta dove Antonio si ritirava per la preghiera. Da qui il cammino può collegarsi all’Umbria, unendo idealmente Padova ad Assisi, Antonio a Francesco. Il Cammino lungo è ancora in fase di elaborazione, ma ha tutte le caratteristiche per diventare, in futuro, molto praticato.
Info: www.camminodifrancesco.it
 
Scautismo
Buona strada
 
Tra le esperienze formative giovanili, lo scautismo è senz’altro quella più legata allo spostarsi a piedi. Ce ne parla Paola Stroppiana, presidente del comitato nazionale Agesci, l’associazione guide e scouts cattolici italiani, che conta 178 mila aderenti.

Msa. Che cosa significa camminare per uno scout?
Stroppiana. Camminare è prendere il proprio zaino sulle spalle e partire. «Fare strada», sui sentieri di montagna o in città, nella solitudine o tra la gente, è esperienza fondante dello scautismo, è scuola di vita. La strada insegna l’essenzialità, educa alla fatica, alle sfide, aiuta a capire meglio se stessi, i propri limiti e potenzialità, ad accogliere gli altri, a costruire la comunità. Camminare è non sentirsi mai arrivati. La fatica del cammino induce a fare pulizia di quello che non è necessario, a viaggiare leggeri, insegna la provvisorietà e la gioia del raggiungere la meta. Sulla strada si incontrano persone, si scoprono le meraviglie del creato, si riconosce la provvidenza in azione.

In che modo il camminare qualifica il vostro progetto educativo?
La strada è esperienza concreta: si dice che lo scautismo «passa dai piedi». Ma la strada è anche metafora della vita. Lo scautismo propone un cammino di crescita personale, dall’infanzia fino all’età adulta: lungo il sentiero, il giovane scopre se stesso e i doni che ha ricevuto, impara a gioirne, a condividerli, a metterli a disposizione. Il camminare lungo le vie del mondo non come vagabondo ma come viandante attento e partecipe di un territorio e delle persone che lo abitano, è uno degli strumenti specifici del metodo per i rover/scolte, ragazzi e ragazze dai 16 ai 21 anni.

Il vostro saluto è «buona strada»: ce lo spiega?
Ha scritto don Giorgio Basadonna, primo assistente nazionale dell’Agesci, nel libro Spiritualità della strada: «La strada, con le sue offerte e i suoi inviti, con il perenne dono di una natura, eco e trasparenza di una grandezza superiore, ripete instancabilmente l’amore di Dio, la sua presenza paterna, il suo aiuto gratuito. La gioia di essere amati diventa desiderio di amare, di comunicare, di trasmettere il dono che si riceve. Speranza e gioia aprono all’amore, all’impegno per cambiare il mondo e per aiutare i fratelli a trovare la pace, la giustizia, la verità».
Il saluto «buona strada» è l’augurio che tutto questo si possa realizzare nella vita di ciascuno.
 
 

I LIBRI

Duccio Demetrio, FILOSOFIA DEL CAMMINARE. Raffaello Cortina, € 14,00
 
Erri De Luca, SULLA TRACCIA DI NIVES.  Mondadori, € 9,00
 
AA. VV., ROMA, SANTIAGO, GERUSALEMME. Vie e luoghi dell’incontro con Dio, Il Cerchio, € 25,00
 
Gianfranco Bracci, IL PIACERE DI CAMMINARE. Il Lupo, € 10,00
   

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017