La disabilità «normale»

Dallo sport alla televisione, fino alle relazioni più intime e quotidiane. Solo se la società saprà «ignorare» la diversità, riconducendola a un’espressione ordinaria e abituale, si potrà giungere a una vera integrazione.
26 Maggio 2011 | di

Il 21 marzo scorso si è svolta la Giornata mondiale delle persone con sindrome di Down. Filo conduttore quest’anno, almeno in Italia, è stato «lo sport per tutti», visto come potente motore d’integrazione sociale, svincolato dalle «incrostazioni» che tendono a ridurlo a qualcosa di molto meno «colorato» e piacevole di quanto potrebbe essere. Questo perché la maggioranza delle persone associa lo sport per disabili ad atleti professionisti che rispettano standard di eccellenza e tensione agonistica molto vicini a quelli degli sportivi normodotati.
A Roma, intanto, è stato presentato un vademecum, a cura di Fisdir (Federazione italiana sport disabilità intellettiva e relazionale) e CoorDown (Coordinamento nazionale associazioni delle persone con sindrome di Down), dal titolo «Orientamenti sulla pratica sportiva per gli atleti con sindrome di Down». Va ricordato che CoorDown, a fine 2010, si è aggiudicato il primo premio della terza edizione del «Pubblicità Progresso Onp Award», assegnato al miglior spot di comunicazione sociale.
 
Dallo sport alla tv: la nuova frontiera dell’handicap passa per il concetto di «normalità». Si intitola Something special out and about (qualcosa di speciale in giro) il programma per la prima infanzia trasmesso ormai da diversi anni sulla BBC. Fulcro della trasmissione sono alcuni bambini con disabilità – perlopiù affetti da sindrome di Down – chiamati a intrattenere i giovani spettatori.
Questo format televisivo prevede che le persone disabili figurino come animatori, cioè che siano loro a «fare qualcosa per» e non a «ricevere qualcosa da».
Come scrive nel suo blog Matteo Schianchi, in relazione alla trasmissione inglese: «Quando si mostra la disabilità al di fuori dei codici (cui siamo più abituati, ndr) che in fin dei conti producono sottocultura, la si può mostrare come dimensione che fa parte del mondo. La rappresentazione della disabilità può diventare ordinaria e abituale senza dover essere necessariamente un evento speciale, con ospiti speciali, storie speciali e straordinarie».
 
La notizia e il commento di Schianchi mi sono tornati in mente quando, pochi giorni dopo la Giornata mondiale delle persone con sindrome di Down, in una domenica qualsiasi, mi sono trovato in un normalissimo bar di provincia, popolato da anziani che si dividevano tra le immagini delle partite di calcio e vivaci match di tresette. Qualche metro più in là, seduta a un tavolo del locale, c’era una coppia di ragazzi Down che si scambiavano baci.
La cosa interessante era che quei vecchini a loro non prestavano attenzione, come probabilmente avrebbero fatto con qualsiasi altra coppia che avesse scelto quel luogo per passare un po’ di tempo in intimità. Ho pensato che la scena sarebbe stata perfetta per uno spot d’integrazione. Era anche un’ottima notizia, sebbene non «facesse notizia» nemmeno per i presenti. Questa, dunque, la sua forza: non essere informazione, ma unicamente realtà (però è stato difficile resistere alla tentazione di filmare col telefonino).
È anche tra questi due poli che si gioca il destino della disabilità: da un lato una realtà che sappia riconoscere come normale, e quindi anche «ignorare», in senso positivo, la diversità. Dall’altro un ambito delle rappresentazioni che aiuti a creare le condizioni per cui questo possa avvenire. Tanto la realtà quanto la rappresentazione che se ne può dare, in un rapporto di collaborazione felice, possono darci esempi di quanto sia assurdo stabilire confini, limiti, divieti. Soprattutto se a determinarli è sempre la «parte sana» della società.

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Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017