San Massimiliano, una luce nel buio
«Una luce nel buio». È tanto semplice quanto efficace il titolo della mostra stabile di Roma su san Massimiliano Kolbe. Visitarla significa compiere un viaggio a ritroso nel tempo, alle fonti di uno stile di santità che porterà il frate conventuale polacco fino all’estremo dono di sé. Nel tetro 1941 di Auschwitz, fra Massimiliano scelse di affrontare il bunker della morte per salvare uno sconosciuto padre di famiglia. È il momento più alto della sua storia, il più evocativo, «una luce nel buio», appunto. Per molti è anche l’unico episodio conosciuto della vita di Kolbe. Il settantesimo anniversario della sua morte, avvenuta il 14 agosto, è un’occasione per scoprire che quello di fra Massimiliano non fu un isolato atto eroico: non ci si scopre tutto d’un tratto capaci di donare la vita, se non si è coltivato in sé un animo generoso.
Ecco allora che diventano decisivi gli anni della formazione, come quelli che il giovane Kolbe visse in Italia, a Roma. Proprio in alcuni locali del luogo dove alloggiò – l’attuale convento San Massimiliano Maria Kolbe – è stata allestita la mostra che ripercorre la sua vicenda.
Quando il frate polacco vi giunse, appena diciottenne, era il 1912. L’indirizzo esatto è il numero 42 di via San Teodoro, a due passi dai Fori Imperiali, dietro il Campidoglio, alle pendici del colle Palatino. Qui aveva sede il Collegio serafico internazionale dei frati minori conventuali: fra Massimiliano è stato inviato a Roma per terminare gli studi di filosofia prima (alla Gregoriana), di teologia poi (alla Facoltà teologica San Bonaventura), fino al conseguimento della laurea nel 1919. Il ricordo di questi decisivi anni lo porterà anche nel nome, visto che qui farà la professione perpetua, decidendo di aggiungere al suo l’amato nome «Maria». Sempre a Roma seguiranno l’ordinazione sacerdotale e la prima messa, nel 1918.
Innamorato dell’Immacolata
Percorrendo via San Teodoro è facile individuare il convento. Il portone d’ingresso, infatti, è sormontato da uno stendardo bianco e azzurro raffigurante il volto dell’Immacolata, con sotto l’iscrizione «Expo Kolbe». Ad accogliere il visitatore è fra Francisco Diaz Valdez, conventuale messicano che della mostra è il responsabile: «Il percorso di visita si svolge attraverso tre ambienti del convento, i più significativi per raccontare il periodo romano della vita del santo». La guida dà le prime informazioni mentre si sale al primo piano; si ferma quindi di fronte a una semplice porta, uguale a tutte le altre, invitando a entrare nella stanza. Varcato l’ingresso, si ha la sensazione di essere piombati all’inizio del secolo scorso. Sono i fili elettrici scoperti e il povero arredamento originale a dare questa sensazione: qualche sgabello, due mobiletti, un’unica finestra a illuminare l’ambiente. Al centro, un tavolino che sembra un vecchio banco di scuola, con sopra l’effigie di Maria e due candele. Il «segreto» di questa stanza è in due foglietti ingialliti racchiusi da un vetro nel piano del tavolo: si tratta di una copia dello statuto della Milizia dell’Immacolata, fondata proprio in questo luogo da Kolbe e da sei suoi giovani confratelli nel 1917. «Massimiliano – spiega fra Francisco – era rimasto molto colpito dagli attacchi che la massoneria italiana riservava alla Chiesa. Fu egli stesso aggredito da alcuni attivisti, nel corso di una manifestazione anticlericale». Scopo del movimento mariano è procurare la conversione dei peccatori mediante la propria consacrazione all’Immacolata, la preghiera e la diffusione della Medaglia miracolosa. «A distanza di quasi cent’anni, sono circa 5 milioni i consacrati in tutto il mondo» racconta fra Francisco, che è anche assistente della Milizia per i Paesi di lingua spagnola. Il centro internazionale ha sede proprio nel convento di via San Teodoro.
Lasciata la stanza dedicata all’Immacolata, si sale di un piano per raggiungere quello che al tempo di Kolbe era il refettorio. La sala, con ampie volte a botte, è tutta allestita giocando sul contrasto tenebre-luce, ma è quest’ultima a farla da padrona. Lungo le cupe pareti si apre una teoria di vetrine, con oggetti e simboli riguardanti la vita del santo e pannelli multimediali a spiegarne il significato. Sul fondo del salone, poi, campeggia il drappo originale della beatificazione, avvenuta a Roma nell’ottobre 1971 ad opera di Paolo VI. Massimiliano è raffigurato nell’atto di offrire il mondo all’Immacolata; alle sue spalle incede la protagonista della pastorale kolbiana, la famiglia, al cui servizio devono operare la modernità e i mass media, rappresentati in primo piano. Perché Kolbe fu pure valente giornalista e – la cosa è meno risaputa – genio della fisica. Lo si scopre osservando la terza vetrina, dove compare lo schizzo di un «eteroplano», per volare nella stratosfera. Il talento per la tecnica verrà poi messo a frutto una volta tornato in Polonia, e più precisamente nel cantiere di Niepokalanów (letteralmente: città dell’Immacolata), il «convento-città» da lui fondato nel 1927 nei pressi di Varsavia, che arrivò a contare sulla presenza di 800 frati, tutti impegnati nell’attività editoriale e nell’uso dei mezzi di comunicazione sociale. La vetrina «Fino agli estremi confini…» è chiara già nel titolo: radio e stampa sono opportunità per raggiungere le coscienze. A dire la modernità di Kolbe sono anche i suoi biglietti da visita, uno in polacco, il secondo in giapponese, utile per la missione asiatica. Nell’Estremo Oriente, nei pressi di Nagasaki, fra Massimiliano fondò infatti una seconda Niepokalanów. «In tutta la vita di Kolbe – riflette fra Francisco – fu sempre alta la tensione all’internazionalità, quella che aveva respirato negli anni di formazione a Roma».
Solo l’amore crea
Un’altra lezione romana non lo abbandonerà mai: la testimonianza dei protomartiri. Lo spiega ancora il religioso messicano: «Dal terrazzo del convento si ha una splendida visuale delle pendici del Palatino, con i resti degli edifici di epoca romana. Per Kolbe erano soprattutto i luoghi dove i primi cristiani erano stati chiamati a testimoniare la fede fino alla morte». La stessa sorte toccata a Massimiliano, come racconta la vetrina «Solo l’amore crea», la più struggente. Vi compare l’ultima foto del santo, scattata dai nazisti al momento dell’internamento; sotto, la riproduzione della casacca del prigioniero 16.670. La «P» su triangolo rosso indica che Kolbe era carcerato per cause politiche: non aveva voluto mettere a disposizione del regime le sue competenze. Due soli gli scritti. C’è il facsimile del certificato di morte, e quello dell’unica lettera inviata alla mamma, in cui si legge: «Sono giunto con un convoglio ferroviario nel campo di Auschwitz. Da me va tutto bene. Amata mamma, stai tranquilla per me e la mia salute, perché il buon Dio c’è in ogni luogo e con grande amore pensa a tutti e a tutto».
Anche le foto sono eloquenti: all’orrido bunker della morte si contrappone l’abbraccio tra Giovanni Paolo II e Franciszek Gajowniczek. È questo il nome del giovane padre di famiglia che, quel giorno d’estate del 1941, disperato per la morte che gli si prospettava insieme ad altri nove compagni, sentì all’improvviso dietro di sé queste parole, rivolte al comandante dal campo: «Sono un sacerdote cattolico. Voglio prendere il suo posto, perché egli ha moglie e figli».
Scriverà più tardi un testimone, Giorgio Bielecki: «Fu uno shock enorme per tutto il campo: ci rendemmo conto che qualcuno tra di noi, in quella oscura notte spirituale dell’anima, aveva innalzato la misura dell’amore fino alla vetta più alta. Uno sconosciuto, uno come tutti, torturato e privato del nome e della condizione sociale, si era prestato a una morte orribile per salvare qualcuno che non era neanche suo parente. Migliaia di prigionieri si convinsero che il mondo continuava a esistere e che i nostri torturatori non potevano distruggerlo. Più di un individuo cominciò a cercare questa verità dentro di sé, a trovarla e a condividerla con gli altri compagni del campo. Dire che padre Kolbe morì per uno di noi o per la famiglia di quella persona sarebbe riduttivo. La sua morte fu la salvezza di migliaia di vite umane. Rimanemmo ammutoliti dal suo gesto, che divenne per noi una potentissima esplosione di luce capace di illuminare l’oscura notte del campo».
Da dove veniva questo coraggio? Per rispondere bisogna recarsi nell’ultimo ambiente della mostra di Roma, il luogo più adatto per immaginare il Kolbe orante, ovvero la Cappella del convento: qui il frate polacco pregò, qui emise la professione solenne, qui chiese e poi ottenne, nel 1936, che l’intero Ordine dei frati minori conventuali venisse consacrato all’Immacolata.
Uscendo dalla chiesa, un’ultima sorpresa. Sopra l’acquasantiera è tratteggiata un’immagine di Kolbe, forse artisticamente non troppo interessante, eppure significativa. Il santo, che è quasi sempre raffigurato serio, qui accenna un sorriso e sembra interloquire con il pellegrino, rassicurandolo: una luce, per quanto piccola, è più potente di qualsiasi buio.
La mostra
Expo Kolbe, inaugurato lo scorso ottobre, è la prima tappa del «progetto itinerari kolbiani in Europa». Mentre a Roma si sottolinea la formazione, a Lourdes ci si concentra sul mistero dell’Immacolata Concezione. Quindi ci si trasferisce in Polonia: a Niepokalanów si approfondisce lo spirito missionario; ad Auschwitz-Harmeze il martirio.
Ideatore del progetto, insieme all’architetto Johnny Sandonà, è fra Simone Tenuti, che racconta: «L’allestimento di Roma era stato pensato per Lourdes, ma mai realizzato. In seguito, su incarico della Curia generale, quell’idea si è concretizzata nella mostra romana». Per la visita è decisivo, secondo fra Simone, il ruolo della guida: «Le vetrine, ricche di elementi simbolici, sono di difficile comprensione se il pellegrino le visiona da solo. Per questo stiamo puntando sulla formazione delle guide e sullo sviluppo dei pannelli multimediali».
Expo Kolbe è aperto tutti i giorni (orario: 9.00-12.00 e 15.00-18.30), con prenotazione obbligatoria per la domenica.
Info: tel. 06 6793828; sito www.expokolbe.com