Sposi, cioè genitori sempre

Generare, per l’uomo e la donna, non è solo mettere al mondo, ma comunicare concretamente il senso profondo della vita. E questo è possibile sempre, a tutti gli sposi, anche a quelli cui la fecondità fisica è dolorosamente negata.
29 Giugno 2011 | di

Lo abbiamo detto fin dall’inizio: se non è fecondo non è amore. Perché, dicevano gli antichi, bonum semper diffusivum sui, il bene è inarrestabile, come un fiume in piena. Vale, per la fecondità, quello che ci siamo detti sulla fedeltà. Non è qualcosa di sopraggiunto all’amore, qualcosa che può esserci o non esserci, ma appartiene alla sostanza dell’amore. «Ma allora? – leggo nei vostri sguardi perplessi –. Prima ci dice che il figlio non è mai un diritto e poi ci dice che l’amore è sempre fecondo: i conti non tornano!». Per capire bisogna chinarsi, ancora una volta, sul mistero nuziale di cui siamo fatti. «Il nostro corpo – ha detto recentemente Benedetto XVI – porta in sé un significato filiale, ci parla di un’Origine che noi non abbiamo conferito a noi stessi». C’è una Paternità profonda, costitutiva di ogni uomo, che gli sposi sono chiamati a servire. È quella di Dio. Perfino quando questa vocazione venisse tragicamente misconosciuta o rifiutata, essa non verrebbe meno, come ci ricorda il profeta Isaia: «Se anche tua madre o tuo padre ti dimenticassero, io non ti dimenticherò mai».
 
La fede, dunque, fa brillare due dati dell’umana esperienza oggi troppo spesso dimenticati, quando non volutamente rimossi. Primo: non si è padri e madri se non si è figli. Nella famiglia – continua il Papa – «l’identità di ognuno (sposo, genitore, figlio) si fonda nell’essere chiamato all’amore, a riceversi da altri (figliolanza) e a donarsi ad altri». Secondo: generare, per l’uomo e la donna, non è solo mettere al mondo (anche gli animali lo fanno), ma comunicare concretamente il senso della vita, introdurre al suo destino buono. E questo è possibile sempre, a tutti gli sposi, anche a quelli a cui la fecondità fisica fosse dolorosamente negata. Essi possono anzi diventare, per tutti i fratelli, un segno privilegiato della generazione nuova nata sotto la croce, quando Gesù affidò il discepolo prediletto alla Madre – «Donna, ecco tuo figlio» – e Maria a Giovanni – «Ecco tua madre» –. E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé. Il gesto di Giovanni va oltre il suo non essere stato fisicamente partorito da Maria e gli consente di partecipare alla relazione filiale di Gesù che la Vergine ha generato nella carne e nel sangue.
 
A questo proposito non mi dimenticherò mai un episodio vissuto molti anni fa in Brasile, in una zona sperduta dell’Amazzonia, dove mi ero recato in visita a un amico missionario. Mi sembra di rivedere la scena. Uscendo dalla chiesa, al termine del funerale della madre di una decina di figli avuti da uomini diversi, il missionario, padre Augusto, raccolse intorno a sé i dieci bambini e cominciò a chiedere al gruppo di donne lì presenti: «Chi prende questo? Chi prende quest’altro?». In pochi minuti tutti e dieci i bimbi trovarono la loro nuova casa. I poveri sanno essere solidali e accoglienti. Affido, adozione: scelte che noi uomini del Nord, contagiati da una mentalità dominante, tendiamo a sentire come eccezionali, riservate a sposi «eroici» e super dotati anche economicamente. Invece l’accoglienza dovrebbe essere una dimensione normale, soprattutto di un’esistenza cristiana.

Essa è l’imitazione più semplice e più grande dell’amore che Dio porta agli uomini. Non per nulla, con il Battesimo, diventiamo figli adottivi di Dio! Certo, generare un figlio già nato è un’avventura che presenta tratti drammatici, ma non c’è relazione affettiva, neanche quelle naturali, che non implichi la necessità del sacrificio. Ogni madre e ogni padre conoscono bene questa legge, perché la tentazione del possesso – non permettere al figlio di essere fino in fondo altro, cioè veramente libero – sempre minaccia l’amore paterno e materno. Di questa gratuità assoluta noi non siamo capaci: dobbiamo riceverla continuamente, come il figlio prodigo, dal Padre che continuamente ce la ridona.
 
 
Mentre stiamo andando in stampa ci giunge la notizia della nomina di S. Em. Cardinale Angelo Scola ad Arcivescovo della diocesi di Milano. A lui vanno i nostri migliori auguri di buon lavoro. Noi frati del Santo, insieme ai lettori del «Messaggero» che hanno imparato ad apprezzarlo da vicino sulle pagine della rivista, lo accompagneremo con la preghiera, affinché il Signore lo sostenga e illumini nell’importante compito che il Santo Padre gli ha affidato.
 
 
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017