Gianfranco Ravasi. Inquietudine luogo d'incontro
Con monsignor Ravasi si può parlare di tutto: naturalmente della Bibbia, di cui è riconosciuto esperto a livello internazionale, ma poi, a cascata, di arte, storia, letteratura, filosofia, fino alle neuroscienze e molto altro ancora. È uomo di vastissima cultura, stimato nel mondo laico e ascoltato all’interno della Chiesa anche prima della sua chiamata a Roma. Il Papa gli affida un compito che si attaglia alla sua personalità, e il dicastero da lui guidato diventa un laboratorio di dialogo, un cantiere per la Chiesa di domani.
Msa. Nel settembre 2007 è arrivata la nomina a presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e quindi il trasferimento da Milano a Roma. Da docente di Esegesi biblica e prefetto della Biblioteca Ambrosiana a ministro della Cultura del Vaticano: com’è stato il passaggio?
Ravasi. Meno difficile di quanto mi fossi immaginato. Se la tipologia del lavoro mutava sensibilmente – basti pensare soltanto alle relazioni internazionali legate a un dicastero vaticano – non ho avuto difficoltà particolari, soprattutto per due ragioni. Innanzitutto perché entravo in un territorio nel quale camminavo da tempo, quindi c’era già almeno una consonanza di contenuti. E poi perché ho trovato un sostegno immediato e molto caloroso da parte dei membri del dicastero, che si sono sentiti coinvolti nella nuova impostazione di lavoro legato ai dipartimenti, nel segno non solo della collaborazione, ma anche della corresponsabilità.
Alle radici di questo dicastero stanno il Concilio Vaticano II con la Gaudiumet spes e la creazione, nel 1965, del Segretariato per i non credenti. Com’è mutato il panorama da allora?
Da un punto di vista culturale, i principali interrogativi riguardanti la fede sono contrassegnati da alcuni elementi che creano veramente difficoltà. Un esempio è il mutato concetto di cultura, sempre più in evoluzione, oppure il concetto di globalizzazione: ha perso slancio l’idea iniziale di fenomeno economico indotto dall’Occidente, mentre acquistano sempre più peso i modelli glocalizzati, con singole culture che affermano la propria identità. Dal punto di vista della fede, ciò significa una maggiore rilevanza delle chiese locali, tant’è vero che ho dovuto dar vita a un dipartimento specifico per l’Asia e l’Africa, culture emergenti che hanno molto da dire allo stanco modello occidentale.
Quali altri elementi caratterizzano l’attuale orizzonte culturale?
Penso al concetto di verità. La teologia ci presenta l’immagine squisitamente classica che ha la sua radice nel Fedro di Platone, secondo il quale la verità ci precede, ci eccede, ci trascende. Invece ora tendenzialmente la verità è squisitamente soggettiva, autoelaborata. È la deriva denunciata da Benedetto XVI quando parla di relativismo, che non influisce soltanto a livello teorico, ma anche nella pratica delle chiese stesse: molti credenti infatti elaborano in autonomia il proprio modello etico, scegliendo à la carte le proprie opzioni religiose. Collegato a questo è il tema dell’interculturalità, evoluzione dell’ormai assodata situazione di multiculturalità. È superato, ad esempio, il modello della New York di un tempo, con le singole Chinatown, Little Italy, Bronx, quartiere ebraico, uno accanto all’altro: ora inesorabilmente ci si incrocia, e allora anche le chiese devono cominciare ad abituarsi a dialogare con religioni, esperienze, culture diverse. Da ultimo, va rilevato il problema della non credenza.
In proposito, è stato Benedetto XVI a lanciare l’idea del Cortile dei Gentili, nel dicembre 2009: questa iniziativa sembra catalizzare, da allora, l’impegno del Pontificio Consiglio per la Cultura. Prima l’esordio a Bologna, poi l’exploit di Parigi: il rodaggio promette bene.
Tra i dipartimenti, è il capitolo che forse più ci occupa, assieme a quello dell’arte, nonostante la percezione che questa disciplina sia stata abbandonata dalla Chiesa. A proposito del Cortile dei Gentili faccio tre considerazioni. La prima è la scelta di stare in «territori laici», ambienti tendenzialmente diversi, lontani, a volte anche polemici nei confronti della fede. Bologna è stata emblematica, ma l’apice per me è stata Parigi. Ho subito optato per la Sorbonne, l’Unesco e l’Académie de France. Sono stato accolto, in quanto rappresentante vaticano, con un calore, un rispetto e un desiderio d’incontro che non avrei mai immaginato. Il grand chancelier dell’Académie de France è venuto ad accogliermi per strada, mi ha dato la parola – di solito, per tradizione, gli ospiti in quella sede non parlano –, ha voluto che pronunciassi la prolusione con lui. Il suo è stato un discorso con continue citazioni di Benedetto XVI; allora io ho scelto una prolusione molto laica, in modo quasi da scambiarci le parti. Non ho trovato nessuna reazione scomposta in un ambiente, Parigi, che avevo scelto intenzionalmente come l’ambito più laico possibile.
Seconda sottolineatura: la scelta di temi di alto profilo, i sentieri d’altura insomma, le grandi questioni di rilievo teorico. A Parigi, per esempio, ci sono stati alcuni interventi di livello altissimo, di Julia Kristeva, Axel Kahn, Jean-Luc Marion, Fabrice Hadjadj. Sono anche stato avvicinato dal pensatore che è considerato l’emblema della laicità in Francia, Jean-Marc Ferry, con cui scriverò un libro.
Quelle che ha citato sono, però, tutte persone che rispettano le regole del dialogo. Che dire di quello che lei ha definito «ateismo popolare dello sberleffo religioso»?
È appunto la terza questione, la terza linea, più delicata a mio avviso perché più faticosa. È un ateismo nazional popolare, del sarcasmo. Però devo segnalare che queste persone chiedono di accreditarsi, anzi, si sono sentite offese, escluse. Inoltre un po’ si arrabbiano, perché io sostengo che si tratta di un fenomeno importante ma sociologico, non intellettuale.
Credo poi ci sia l’ostacolo di quello che nella sua intervista a «La Croix» ha definito «il non interlocutore dell’indifferenza». Come snidare gli indifferenti per partito preso?
Il problema dell’indifferenza, che ha alle spalle la secolarizzazione, è indubbiamente uno dei campi sui quali dobbiamo riflettere. Nei confronti di questo fenomeno si notano due atteggiamenti contrapposti di tipo sociale ma anche pastorale. Da un lato c’è chi opta per il minimo, chi cerca cioè di venire incontro a quella vaga spiritualità che sempre è depositata anche all’interno dell’indifferenza. Molte chiese americane protestanti, ad esempio, hanno deciso di muoversi secondo questa linea, direi minima. C’è però un’altra questione che ritengo importante, e che è stata messa in luce da Charles Taylor nel suo L’età secolare, sulla scia di Harvey Cox. L’idea è che non si può misurare l’esperienza religiosa solo sulla base di analisi meramente quantitative, contando quante persone vanno a messa la domenica. Vanno considerati anche gli aspetti qualitativi, perché nelle coscienze c’è una particolare tensione e un ritorno – se non una rivincita persino – del sacro. Allora il fenomeno dell’indifferenza – che è reale e grave soprattutto tra i giovani – non copre completamente l’identità personale. Tant’è vero che quando si vive un’esperienza «al limite» si assiste a un ritorno di domande di tipo religioso. Ecco allora il secondo atteggiamento, quello che condivido di più e che anche Benedetto XVI ha adottato, sia pure in forme particolari. Si tratta di ritornare a essere esigenti, ad affrontare i grandi temi, a provocare parlando della morte, del dolore, del male, del bene, della verità, dell’anima, cioè delle categorie fondamentali. Il punto è il come. Perché il vero problema della cultura contemporanea e della Chiesa è la comunicazione.
Rimango sempre abbastanza atterrito quando si dice che la Chiesa deve «raggiungere il mondo»: è come se la Chiesa vivesse lateralmente e poi dovesse ricongiungersi a un contesto che non le appartiene. Le immagini scelte – il cortile, la piazza-sagrato e l’agorà – dicono comunque questo entrare in ambiti diversi. La questione del linguaggio, come si affronta? Lei è un grande comunicatore, la cultura laica l’ha accolta e valorizzata anche perché sa essere efficace e si confronta su tutti i grandi temi. La sua figura è una punta avanzata, ma la Chiesa in questo, complessivamente, fa fatica.
Bene o male si suppone che la Chiesa le sue verità le conosca ancora; ma non riesce più a comunicarle. Con la nuova comunicazione abbiamo assistito in questi ultimi anni – diceva il sociologo americano John Barlow – a una rivoluzione, una neoscoperta del fuoco, che ha cambiato il modello antropologico. Un ragazzo che sta cinque ore al giorno a parlare al computer non è come il suo pari età della generazione precedente, che impegnava in maniera diversa tempo ed energie. L’incontro dei bloggers in Vaticano il 2 maggio scorso è stato un tentativo interessante. Stiamo anche orientandoci un po’ nell’uso di Twitter, facendo comunicazione religiosa in 140 caratteri. Non è tanto per l’esercizio concreto in sé: è per cominciare a fare i conti con questa nuova agorà.
Lei chiude un suo intervento su «L’Osservatore Romano» del 12 febbraio parlando della necessità che il dialogo, quello vero, conduca sì a delle risposte, ma soprattutto contribuisca a irrobustire lo «stelo delle domande».
Sì, nello spirito autentico del cristianesimo. Vede, quando Cristo entra in scena, lo fa con una provocazione, nella discontinuità, usando un linguaggio diverso da quello dei rabbini del tempo. Io penso che l’elemento cristiano fondamentale sia la ricerca, non il possesso definitivo, che è escatologico. È una verità che tu conquisti e che continuamente ti viene donata, e che per sua natura è infinita, perché si identifica con Dio. È il principio agostiniano dell’inquietudine. Il cristianesimo si presenta proprio come un desiderio di risposta. Per questo non si può entrare nel cristianesimo avendo già le proprie risposte preconfezionate e i propri idoli. Ci vuole una certa nudità: è una delle fatiche maggiori, anche dal punto di vista pastorale, perché la gente è tutta coperta di risposte. L’esempio estremo è la pubblicità: non devi chiedere nulla, hai già tutto lì. Dobbiamo impegnarci ad abituare le persone a interrogarsi. Porre domande, inquietare. Ho incontrato una volta Julien Green, il famoso scrittore francese, e gli ho chiesto come concepisse il cristianesimo. Mi ha risposto con una battuta di stampo agostiniano, pascaliano: «Finché si è inquieti, si può stare tranquilli».
Che posto hanno i giovani nel Cortile dei Gentili e, più in generale, nell’attenzione della Chiesa per la cultura?
I giovani sono la cartina di tornasole delle difficoltà di cui abbiamo detto finora. A Parigi abbiamo fatto l’esperienza di convocarli la sera a Notre Dame per una veglia-concerto. Avevamo inoltre allestito dei gazebo su vari temi – arte, società e altro – dove personalità credenti e non si rendevano disponibili ad ascoltare i giovani. Rientrando in nunziatura, intorno a mezzanotte, mi sono sorpreso nel notare che c’erano ancora lunghe file di persone in attesa, ma solo per due stand: quello della scienza e quello della spiritualità. Sono ambiti per i quali i giovani conservano un certo interesse: su questi dobbiamo puntare. Per parte nostra stiamo trasformando in fondazione il dipartimento Science, theology and the ontological quest (Stoq), cioè Scienza, teologia e domanda filosofica. In questi mesi ci siamo occupati di cosmologia, evoluzione, neuroscienze e stiamo organizzando per novembre un grande congresso internazionale in Vaticano sulle cellule staminali. Sui giovani sono fiducioso. Faccio mio quanto diceva Pascal: «L’uomo supera infinitamente l’uomo». Per quanto lo si instupidisca o lo si renda dipendente dai media, alla fine l’uomo riesce a divincolarsi con una domanda che spiazza e lo riscatta.
Ci può anticipare alcune tappe future del suo dicastero?
Per quanto riguarda il Cortile dei Gentili, la tappa più imminente sarà Bucarest, in ottobre, e verterà su questioni squisitamente filosofiche. Nello stesso mese l’Università di Firenze sta organizzando un evento nel capoluogo toscano. Quindi sarà la volta di Tirana, sull’ateismo. L’Albania, del resto, è l’unico Stato al mondo che aveva l’ateismo inscritto nella Costituzione nazionale: all’Università di Tirana ancora esiste la cattedra di ateismo, tenuta però da un filosofo cattolico. Poi ci sarà un appuntamento a Barcellona, con un progetto di arte e scienza, mentre a Palermo si parlerà di Islam e diritto. A Stoccolma invece ci confronteremo con le facoltà di teologia luterane e con l’Accademia di Svezia. Altre tappe significative saranno Praga, Marsiglia e gli Stati Uniti, a Chicago o a Washington.