Il Patriarca della Birmania è nato in Brianza

Padre Clemente Vismara, missionario del Pime in Birmania (oggi Myanmar) è stato proclamato beato. Un viaggio nei luoghi dove spese la sua vita per il prossimo.
26 Settembre 2011 | di

Il pick-up si inerpica rombando su una strada tortuosa, sul pendio di una collina verdeggiante. Siamo nel nord della Thailandia, a pochi chilometri dal confine col Myanmar. La meta è Nang Pai, un piccolo villaggio abitato da qualche centinaio di persone di etnia shan, quasi tutti rifugiati birmani. Perché il mio «Virgilio» – padre Claudio Corti, un quarantenne originario di Lecco missionario del Pime (Pontificio istituto missioni estere) – insista tanto per mostrarmelo lo capirò all’arrivo: molti, tra i presenti, sono stati battezzati dal suo confratello, padre Clemente Vismara, che è stato proclamato beato il 26 giugno scorso.
Il brianzolo Vismara ha passato la bellezza di sessantacinque anni di missione poco oltre queste colline, in mezzo agli shan, ai lahu e agli akha. Ecco perché oggi la gente si affolla intorno al missionario e al suo misterioso accompagnatore italiano: ognuno ha un ricordo da condividere, tanti dichiarano candidamente di continuare a pregare padre Clemente, sebbene siano trascorsi ventitré anni dalla sua morte, affidando a lui malattie e problemi quotidiani. Padre Claudio mi accompagna alla piccola chiesetta del villaggio, intitolata a san Clemente: «Non potendo, sino al giugno scorso, acclamarlo beato, i miei fedeli l’hanno dedicata a uno dei primi Papi della Chiesa, anche se poi, nei fatti, pregano padre Vismara (una sua gigantografia campeggia all’interno). D’ora in avanti potranno rivolgersi a lui senza… sotterfugi di sorta».

La «puntatina» in Thailandia ha concluso un recente viaggio sulle orme di padre Vismara condotta da chi scrive insieme a padre Angelo Campagnoli del Pime e due colleghi di Nova-T (casa di produzione dei frati cappuccini). Il nostro intento era di girare un video sul neo-beato (ora in dvd, in libreria col titolo Una vita non basta), dando voce, soprattutto, a quanti l’hanno conosciuto. Il viaggio ci ha permesso non solo di misurare quanto intensa sia la devozione che ancora sopravvive per colui che, nel 1990, la Conferenza episcopale locale ha proclamato «Patriarca della Birmania», ma è servito a illuminare, una volta di più, la santità nascosta di padre Clemente.
A prima vista, infatti, quella di padre Clemente sembra una storia missionaria come tante. A differenza di altri beati e santi, egli non è morto martire, non è stato né vescovo né fondatore di un ordine religioso e non ha compiuto miracoli. Ricorda padre Piero Gheddo, suo biografo: «Quando si è iniziato a pensare alla sua causa di beatificazione, padre Osvaldo Filippazzi, suo compagno in missione, mi diceva: “Clemente era un bravo missionario, ma se fate santo lui dovete fare santi anche noi che abbiamo fatto la sua stessa vita”».
 
Straordinaria quotidianità
 
Eppure tutti coloro che l’hanno conosciuto concordano su un fatto: ha vissuto in maniera straordinaria l’ordinario. Io l’ho incontrato solo attraverso l’ascolto dei testimoni e la lettura dei suoi scritti (un’antologia dei quali si trova nel libro-novità Più in alto del sole, Emi), ma posso dire di esserne rimasto conquistato.
Suor Robertina Buho, di Maria Bambina, che oggi ha 70 anni, a lungo è stata accanto a padre Clemente nell’apostolato. «Sono andata spesso nei villaggi con lui ad assistere i poveri e a distribuire medicine e l’ho visto operare come un uomo pieno di carità». Tanto preso dalla passione per gli altri che «quando è morto l’abbiamo lavato e gli volevamo cambiare l’abito, ma abbiamo faticato perché non aveva più nulla di suo».
La consorella Ann Mary Sheng Phu aveva solo 12 anni alla morte di padre Vismara, eppure ricorda perfettamente che «anche negli ultimi tempi, molto anziano e provato, padre Clemente continuava a sorridere e scherzare».
Ecco, se c’è un tratto che rende unico padre Vismara è proprio il suo sorriso, uno sguardo «leggero» sulla vita, pieno di ironia, unito a un entusiasmo incrollabile. Vismara – per dare l’idea del personaggio – è uno che il giorno dell’ottantesimo compleanno scrive: «Tra vittorie e sconfitte, mi trovo sul campo da cinquantacinque anni e sempre battagliero. La vita è fatta per esplodere, per andare più lontano. Se essa rimane costretta entro i suoi limiti, non può fiorire, se la conserviamo solo per noi stessi, la si soffoca. La vita è radiosa dal momento in cui si comincia a donarla».
 
Uno sguardo sereno e gioioso
 
Uno sguardo del genere – pensiamo alle dure condizioni ambientali, alla solitudine («se voglio vedere un cristiano nel raggio di 100 km devo guardarmi allo specchio») e alla travagliata situazione politica della Birmania della prima metà del Novecento – è possibile solo in virtù di una fede rocciosa. Scrive Vismara nel 1959: «Mi dovete scusare, ma io son fatto così: delle cose serie mi vien fatto assai sovente di vedere il lato ridicolo; come delle cose ridicole mi si presenta tosto il lato serio. Il pericolo io non lo so considerare. Del resto, tranne che quello di andare all’inferno, a questo mondo non ci sono pericoli!».
In realtà, anche padre Vismara ha dovuto misurarsi con la diffidenza e il sospetto di chi vede nell’arrivo di quegli strani europei vestiti di bianco un elemento di «disturbo» dello status quo. In un testo del 1958 padre Clemente scrive: «I missionari hanno una grave, gravissima pecca: proteggono troppo i poveri. Li educano, li istruiscono, li aiutano, li guariscono. Quando uno conosce l’alfabeto, solleva la testa, ha pretese… Questo e solo questo è il nocciolo che produce antipatia e avversione al missionario».

Lo sguardo di fede rende padre Clemente capace di accogliere poveri di ogni genere a braccia aperte: «Fra la nostra gente – annota Vismara – abbiamo fumatori d’oppio, birbe, ladri, ecc. È il rastrellamento simile a quello della parabola degli invitati a nozze, quindi è secondo il costume di Gesù e non dobbiamo lamentarci se dan tanti e interminabili fastidi d’ogni genere».
Una simpatia e dedizione del tutto particolari padre Clemente l’ha nutrita per i ragazzi, specie se orfani o abbandonati. Non pochi, fra di loro, sono stati letteralmente «comprati» (spesso da oppiomani) per sottrarli a un destino di privazioni e solitudine. Nell’arco della vita Vismara ne ha accolti alcune migliaia nelle scuole e orfanotrofi via via costruiti, dove ai ragazzi proponeva un itinerario formativo e uno stile di vita fraterna e condivisa che ricorda un po’ la «scuola di Barbiana» di don Milani.
Si può dire che padre Vismara nel corso della sua vita abbia abbracciato tutti.
E tanti, indipendentemente dalla fede religiosa di appartenenza, si sono radunati al suo funerale. Come testimonia monsignor Abramo Than, vescovo emerito di Kentung: «Mai avevamo visto una cosa simile. Abbiamo avuto tanti santi missionari del Pime. Ma per nessuno di loro c’è stata questa devozione e questo movimento di popolo per dichiararli santi, come per padre Vismara. Anche da parte dei non cristiani: animisti, buddhisti, indù, musulmani. In questo ho visto un segno di Dio».    
 
Biografia
 
Padre Clemente Vismara nasce ad Agrate Brianza nel 1897 (allora provincia di Milano). All’età di 7 anni rimane orfano di entrambi i genitori e viene affidato agli zii. Nel 1913 entra nel seminario diocesano San Pietro Martire per frequentare il liceo. Nel 1916 viene chiamato alle armi; tre anni dopo torna dal fronte col grado di sergente maggiore.
Entrato nel Pime, nel 1923 viene ordinato sacerdote e in agosto mandato in Birmania, una terra dove i «missionari di Milano» lavoravano già da alcuni decenni. Nell’ottobre 1924 finalmente raggiunge Monglin, la sua prima missione. Nell’arco di trentun’anni vi fonderà quattro distretti missionari, portando la comunità cristiana a circa 2 mila battezzati. A cavallo tra il 1941e il 1942, i missionari italiani del Pime (Vismara compreso) vengono internati dagli inglesi a Kalaw. Successivamente, la conquista giapponese della Birmania permette a Vismara di tornare a Monglin, dove trova la missione in uno stato pietoso di abbandono. Nel 1955 Vismara viene spostato a Mongping, una missione a 225 km di distanza, dove rimarrà fino alla morte. Anche lì padre Clemente realizzerà importanti opere educative e religiose. Nel 1957 Clemente torna in Italia per l’unica vacanza in patria.
In seguito alla nazionalizzazione forzata di scuole e ospedali gestiti dalla Chiesa, nel 1966 il governo militare della Birmania espelle tutti gli stranieri entrati nel Paese dopo l’indipendenza (1948). Padre Vismara rimane, con pochi altri anziani, condannato a non uscire dal Paese pena non potervi più fare ritorno.
Il 15 giugno 1988 padre Clemente muore a Mongping; al suo funerale partecipano anche molti buddhisti e musulmani. Otto anni dopo viene avviata la causa di beatificazione.
 
 
 
Il manovale di Dio
 
di Mario Carrera*
 
Il beato Luigi Guanella sarà proclamato santo il prossimo 23 ottobre. Un prete di strada, un operaio della carità, che ha ancora molto da trasmettere agli uomini e alle donne del nostro tempo.
 
Il 23 ottobre prossimo Benedetto XVI proclamerà santo il beato Luigi Guanella. In quel giorno di fine ottobre, la folla di pellegrini riunita in piazza San Pietro canterà in coro la gratitudine a Dio per aver donato all’umanità un buon samaritano come don Guanella.
È possibile ripercorrere l’avventura della santità, proposta da don Luigi, seguendo l’iter di un suo scritto ascetico, pubblicato con il titolo: Andiamo al Padre, nel quale egli invita a seguire senza timore e con amore la strada delle beatitudini evangeliche. Le beatitudini per il cristiano sono vie illuminate da un fuoco che rischiara, che riscalda le stagioni fredde dell’esistenza, che purifica dalle scorie della fragilità umana. Solo nella cornice di questo fuoco divino è possibile cogliere il messaggio di una persona che la Chiesa oggi propone come modello imitabile di santità nel quotidiano. Se è facile leggere le vicende della vita di un santo, più complesso è cogliere l’essenza del suo operato, a cui si arriva solo con la frequentazione della persona, con l’esame minuzioso delle sue azioni, delle conquiste e dei fallimenti. La vita di un santo è, infatti, il risultato di un percorso armonico all’interno di un triangolo di relazioni, che coinvolge Dio, l’io e il prossimo.

Don Luigi nasce a Fraciscio di Campodolcino in Valle Spluga (SO), il 19 dicembre 1842. A dodici anni gli è assegnata una borsa di studio e può così permettersi di andare in collegio; continua gli studi in seminario, e nel 1866 è consacrato sacerdote. Per sette anni è assegnato a Savogno (SO), paesino isolato della Valtellina, appollaiato sul dorso di una montagna ai confini con la Svizzera. Affascinato dall’opera di don Bosco, ottiene di andare a Torino, da lui, per tre anni. Richiamato dal vescovo in diocesi di Como, è assegnato a Traona, dove soffre gravi incomprensioni con i superiori spesso a causa del suo zelo missionario, poi a Olmo, in una specie di esilio purificatore, e infine a Pianello Lario, sul lago di Como. È proprio in quest’ultimo luogo che, dopo qualche fallimento, realizza il sogno a lungo covato di fondare opere per i più poveri e abbandonati – vecchi, giovani e bambini orfani, malati terminali, disabili mentali – opere che da qui si diffonderanno nel mondo intero. Stimato e amato da don Bosco, da san Pio X, dal beato cardinal Ferrari, da don Orione e da un popolo di beneficiati, il 24 ottobre 1915 muore lasciando un’eredità immensa. La sua vita è stata una gestazione continua. Ogni suo progetto non nasceva all’improvviso: come ogni nuova realtà, destinata a durare nel tempo, aveva bisogno di maternità e paternità prolungate, di una cura amorevole che non era solo opera dell’uomo, ma germe di Dio che si faceva grazia e dono.

La storia di don Guanella assomiglia al Liro, il torrente della sua Valle Spluga: conosce discese rapide, pendii dolci, anfratti paurosi, tratti distesi ma anche la morsa angusta delle rocce. Il fiume non si ferma mai, è perennemente in movimento, conquista sempre terreni nuovi. E così quando don Luigi individuava un dolore a cui dar sollievo, la sua premura giungeva come acqua generatrice di speranza e di solidarietà. Egli sentiva prepotente l’appello a essere «fondatore» di una casa della carità, padre degli orfani, buon samaritano per i feriti della vita, ma le circostanze, le autorità civili e la prudenza di quelle religiose frenavano il suo zelo, senza tuttavia riuscire a spegnere la voce interiore che lo spronava a diventare un operaio del bene, costruttore di benessere fisico e spirituale per il prossimo.
Al termine degli esercizi spirituali per la Quaresima di quest’anno, Benedetto XVI ha ringraziato la misericordia di Dio per l’esempio dei «santi umili», umili perché aderenti alla realtà feriale, lievito evangelico nella massa e compagni di viaggio nella vita di ogni battezzato.
Don Guanella parlava spesso della santità, ma soprattutto la viveva giorno per giorno; non ha composto dei trattati di teologia, ma si è chinato sulla sofferenza dai mille volti. Ha scritto che per essere santi non è necessario essere dei geni, ma «basta indirizzare a Dio le proprie azioni, fare come il viaggiatore che, mettendosi in cammino, pensa alla sua meta e si dirige con decisione. Non nuoce alla santità se durante il cammino si possa parlare con un compagno di viaggio e con gli occhi osservare le meraviglie del panorama; basta che i passi non devino dalla meta. Se poi sopraggiunge qualche difficoltà, allora si guardi con maggior intensità alla meta e non desistere dal camminare». È la sua ricetta della santità umile, possibile a tutti.
 
«È Dio che fa»
 
Un prete guanelliano, don Attilio Beria, ha scritto: «Se raccogliessimo alcuni dati di questa trama di vita: quel carrettino con poche masserizie del prete confinato; la barca che scivola verso Como carica solo di speranza; la strada percorsa Fraciscio-Como-Milano-Roma, il fatto che un santo lo raggiunse a Como e un altro lo attendeva a Roma, che un altro ancora – don Orione – fu presente al suo letto di morte e volessimo in queste circostanze ricercare il lavoro di Dio, sottostante, invisibile, ma vero…», capiremmo fino in fondo l’espressione che don Guanella soleva ripetere: «È Dio che fa», noi siamo semplici operai della sua vigna. Ed è proprio in questo suo lasciarsi plasmare dalla carità divina la vera essenza della sua santità.

Nell’omelia del giorno della beatificazione di don Guanella, il 25 ottobre 1964, anche Paolo VI andando a cercare il «bandolo della matassa di bene» compiuta dal nuovo beato, l’ha individuato proprio nella sua espressione abituale: «È Dio che fa». Se è Dio che fa, allora – traeva le conclusioni Paolo VI – «tutto è di Dio: l’idea, la vocazione, la capacità di agire, il successo, il merito, la gloria sono di Dio, non dell’uomo. Questa visione del bene operoso e vittorioso è un riflesso efficace della bontà divina che ha trovato le vie per manifestarsi, per operare tra noi. È Dio che fa».
Don Guanella non è un santo da nicchia, ma un prete di strada che ha fatto del sentiero del samaritano la traiettoria della sua santità; infatti, il tempo della sua giornata era dedicato interamente al prossimo, mentre la notte s’immergeva nella preghiera. Scriveva Gilbert Cesbron, scrittore e filosofo francese, che «la preghiera comporta due tempi come la respirazione: l’inspirazione, quando s’inala aria pura, l’espirazione corrisponde a tutto ciò che si fa durante la giornata».
All’assenza o mancanza di spiritualità del nostro tempo, don Guanella si propone come l’esempio dell’uomo ancorato in Dio. In una società relativista, in cui c’è chi torna a proclamare la morte di Dio, don Guanella è un ponte che permette al Creatore di ritornare tra gli uomini e realizzare il suo sogno di misericordia verso i nuovi poveri nel corpo e nell’anima. Alle sue suore, le Figlie di Santa Maria della Provvidenza, e di rimando ai suoi preti, i Servi della Carità, diceva che dovevano essere e vivere come delle «piramidi rovesciate: le radici nel cuore di Dio e la vetta nel cuore delle persone».
In quest’epoca di emergenza educativa, don Guanella santo ripropone la figura oggi in declino dell’«educatore appassionato», mentre nella sfida della globalizzazione, egli insegna a essere veri cittadini del mondo, vivendo una solidarietà senza fughe verso ideali fatui, nostalgie vane o arrendevole disimpegno. Una Parola che si fa carne nella nostra storia. 
 

Zoom
 

Chi è don Guanella
 
Don Luigi Guanella nasce a Fraciscio di Campodolcino (SO) il 19 dicembre del 1842, da papà Lorenzo e mamma Maria Bianchi. È il nono di tredici fratelli. Ordinato sacerdote a Como il 26 maggio 1866, svolge il suo ministero a Prosto (frazione di Piuro), Savogno, Traona, Olmo (frazione di San Giacomo Filippo) e a Pianello del Lario. Proprio qui è aiutato nella sua missione da cinque religiose, tra cui la beata Chiara Bosatta (beatificata nel 1991 da Giovanni Paolo II).
È il fondatore delle congregazioni dei Servi della carità e delle Figlie di Santa Maria della Divina Provvidenza, che da lui hanno imparato l’amore e la cura dei poveri, specialmente dei più deboli, di «coloro che sono poveri nell’ingegno o nella salute o nelle sostanze».
In particolare si dedicano al ministero della carità tra i disabili mentali − chiamati da don Luigi i «buoni figli» − tra gli anziani, i fanciulli e i giovani.
Muore a Como il 24 ottobre del 1915. Nel 1964 è proclamato «beato» da papa Paolo VI. Il 1° luglio 2010 Benedetto XVI promulga il decreto di canonizzazione del beato, riconoscendogli un miracolo avvenuto nel 2002. Il 21 febbraio 2011 è fissata la data di canonizzazione per il 23 ottobre dello stesso anno. I valori e gli insegnamenti guanelliani vivono ancora nelle case aperte in suo nome in tutto
il mondo.
 
* postulatore della causa

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017