Fra Damiano, il campanaro tuttofare
Sono otto, issate lassù, nelle aeree celle dei due campanili quattrocenteschi (le «fantastiche torri» cantate dal Carducci) che con gotica eleganza sovrastano i cupoloni della Basilica antoniana: le campane del Santo. Forgiate nello spessore e nelle dimensioni tali da poter riprodurre le note della scala di do, possono esprimersi in sommessi rintocchi, come esplodere in squillanti concerti.
Orgoglio e vanto della città, per secoli hanno dato la sveglia ai padovani e scandito, ora per ora, il tempo della loro vita, accompagnandone con esplosioni festose i momenti felici e con rintocchi mesti quelli del dolore e del lutto, o annunciato pericoli incombenti, consentendo ai cittadini di porsi in salvo.
Le campane sono state anche motivo di accese rivalità, come in passato talora accadeva. Chi non ricorda, per esempio, l’accapigliarsi del sindaco Peppone e del parroco don Camillo, i personaggi usciti dalla penna di Guareschi? E spesso a causa delle campane, che il parroco a volte usava come una clava politica, facendo schiumare di rabbia il bilioso sindaco. Il quale, a sua volta, si placava quando finalmente poteva far issare davanti al municipio una laica campana che accompagnasse con i suoi rintocchi il funerale laico di un giovane attivista ucciso in uno scontro con le forze dell’ordine. Altri tempi! E per più di un motivo. Oggi una società un po’ più laica, e molto più stressata, le ha costrette quasi al silenzio. Ordinanze municipali ne consentono l’uso solo di giorno e per un periodo di tempo non superiore ai due minuti. D’altro canto, il compito originario delle campane di suonare l’ora e di ricordare ai fedeli l’inizio dei riti liturgici è venuto meno: una miriade di mezzi rimpiazza, e in modo meno rumoroso, quella funzione. Comunque, le campane restano lì, con tutto il loro carico di simbolismo e di fascino, capaci di suscitare emozioni, di ridestare ricordi quando spargono a distesa grappoli di suoni che sanno di cielo, di antico e di preghiera.
Campanaro in camice bianco
Una volta le campane si suonavano tirando le lunghe corde alle quali erano agganciate, che le sollevavano in alto per farle poi discendere in modo che il batacchio ne percuotesse sonoramente le bronzee pareti. Un divertimento, imperlato peraltro di sudore, oggi annullato da marchingegni meccanici ed elettronici che, opportunamente predisposti e programmati, mettono in moto senza fatica le campane, facendole suonare nei tempi e nei modi convenuti. Basta premere un bottone, insomma, e vigilare che tutto prosegua poi senza intoppi.
Nella Basilica del Santo, tale compito è affidato a fra Damiano Cazzaro, classe 1935, una presenza abituale nel Santuario, dove ha trascorso gran parte della sua vita religiosa, dal 1954 a oggi, con fugaci intervalli vissuti in altri conventi, come Trieste e Milano.
«La Basilica è la mia casa e la comunità religiosa la mia famiglia. Gli ultimi venticinque anni li ho trascorsi ininterrottamente qui. Non saprei stare altrove» confessa fra Damiano, mentre, premuroso, cerca di farmi capire come funzionano quei marchingegni cui è preposto.
Mi snocciola con competenza dati tecnici e informazioni, che ascolto con curiosità pur senza capirci granché. Capisco, invece, l’entusiasmo con cui colora il suo racconto, riflesso della passione che ispira il suo compito di «campanaro in camice bianco».
Entusiasmo e competenza, tanto che pure i tecnici che hanno realizzato l’impianto pensano subito a lui, quando vengono chiamati per qualche intervento: «C’è fra Damiano, lui sa che cosa fare». «In realtà – puntualizza il frate – io faccio solo piccoli interventi, però riesco quasi sempre a individuare dov’è l’inghippo, e quindi a indirizzare il tecnico, facilitandogli il compito».
Non solo campane
Ma fra Damiano è preziosissimo anche per tante altre cose. In Basilica, in caso di necessità, svolge numerosi compiti, e li compie tutti con inesausto entusiasmo e incessante premura. Insomma, una trottola in movimento perpetuo. Quando ho chiesto a un suo confratello dove avrei potuto trovarlo, quegli ha allargato le braccia: «Dovunque». Per fortuna, ha l’abitudine di avere sempre il cellulare a portata di mano, e così la ricerca ha avuto un esito più rapido del previsto. Quando gli chiedo di parlarmi del suo lavoro, mette le mani avanti: «Non ho molto da raccontare». Di fatto, le sue giornate, che iniziano quando il buio è ancora pesto, scivolano sui tranquilli binari della semplicità di vita e del lavoro umile, che ha come fine la pulizia e il decoro della Basilica. Lo conosco da molto tempo, e la prima immagine che affiora è quella di lui giovane mentre, trafelato e sudato, assieme ad altri confratelli, passa con un robusto spazzettone la segatura imbevuta di olio profumato sul pavimento del Santuario che, alla fine, appare lucente e odoroso. O mentre si arrampica sugli altari per cambiare le candele, sostituire i fiori, le tovaglie, tirare tutto a lucido perché nulla strida con la sacralità del luogo e la solennità dei riti.
Ed è quello che ha continuato a fare, eccetto i brevissimi periodi durante i quali è stato assegnato ad altre mansioni. Con modalità ovviamente mutate nel tempo, ma con lo stesso obiettivo: assicurare, ora assieme agli inservienti laici dei quali coordina il lavoro, la pulizia e il decoro della Basilica: per sant’Antonio e per i suoi devoti che qui lo vengono a venerare, sempre seguendo – ci tiene a precisare – le direttive del rettore e del custode.
«Mi piace alzarmi prestissimo – confida –, alle quattro del mattino, entrare nella Basilica vuota e silenziosa, fare le mie pratiche di pietà, pregare davanti alla Tomba del Santo per tutti coloro che durante il giorno me lo chiedono, e poi mettere ordine dove la sera prima non siamo riusciti a concludere, in modo che, quando la Basilica apre per la prima messa, alle 6 e 20, tutto sia pronto ad accogliere i pellegrini».
Abituato a stoppare con un cortese ma perentorio «scusi, ma non sono sacerdote» confidenze o richieste che lo porterebbero su territori «non di sua competenza», è sempre disponibile a fornire indicazioni e informazioni, magari un po’ affrettatamente – ma sempre in modo gentile – quando viene intercettato mentre è impegnato in un intervento che non ammette ritardi. Pronto, all’occasione, a mettere qualche puntino sulle «i», ricordando, ad esempio, che sant’Antonio ci deve portare a Dio e che la preghiera che più conta è la celebrazione eucaristica, alla quale lui partecipa, specie la domenica, proclamando le letture e distribuendo la comunione.
Puntuali, come sempre
Mentre mi saluta, richiama la mia attenzione guardando l’orologio e puntando un dito verso l’alto: «Ora dovrebbero suonare le campane». Un attimo di attesa e un lieve scampanio riempie di suoni la stanza. «Annunciano la prossima messa – esclama soddisfatto –. Puntuali come sempre. Corrispondono alle note “mi”, “fa” e “sol”, e sono alloggiate nel campanile meridionale, assieme alla nota “si”. Sono le quattro usate normalmente». Le altre quattro del campanile settentrionale si suonano solo nei giorni di festa. «Tutte otto insieme fanno un gran bel concerto, anche se per periodi assai meno lunghi rispetto a un passato non più vicinissimo» confessa, con un briciolo di nostalgia.