Giovani al futuro, quale?
Un tempo la giovinezza era un tratto breve, fugace, non fosse altro perché dietro la vita premeva. Si studiava per prepararsi a lavorare o si iniziava subito a lavorare per aiutare la famiglia d’origine e poi costruirsene una propria. Nell’età adulta si entrava d’impeto e le responsabilità, anche pesanti, non erano risparmiate a nessuno. La vecchiaia, quando le forze declinavano, era altrettanto breve della giovinezza: non c’erano i farmaci che oggi permettono alle malattie di cronicizzarsi, per cui da malati-sani (con una mezza manciata di pillole al giorno) si vive abbastanza bene. La situazione, in qualche decennio, si è capovolta. La giovinezza ora si dilata all’infinito, è praticamente inesauribile, e non fanno sorridere nessuno quelle compagnie di quarantenni, uomini e donne, che si danno del «ragazzo». Si può leggere, nella posta del cuore di qualche rivista: «Ho un ragazzo di 41 anni…», quota che si avvicina a quei 45 anni che agli inizi del XX secolo rappresentava l’età media della popolazione in Europa. Comunque sia, dopo la cosiddetta giovinezza, oggi si invecchia subito, perché fino a quando non si è vecchi si è giovani, come si usa dire. Ma, a questo punto, chi è adulto? Buona domanda, che ci porta a constatare come oggi il giovanilismo sia il peggior nemico dei giovani, perché scippa quella giovinezza che solo a loro appartiene.
Siamo dunque in un mondo che ama la giovinezza e perciò stesso non ama i giovani, non fosse altro perché questi ricordano implacabilmente a chi giovane non è che se non accetta di stare nella propria pelle sta solo recitando. In pratica il giovane, quello vero, «mette a nudo quella maschera di plastica che gli adulti indossano per negare la verità della vita e della storia, il suo lato di durezza», come scrive acutamente Armando Matteo nel suo fortunato La prima generazione incredula. Il difficile rapporto tra i giovani e la fede. Dentro una giovinezza lunga, disarticolata, precaria, davanti alla quale il futuro sta come un buco nero, senza praterie dove correre e senza modelli di comportamento da replicare, crescono ormai generazioni intere. Per questo sono convinto che con è mai stato così difficile essere giovani: nessuna generazione ha dovuto assorbire nel presente quello che tutti i giovani di tutti i tempi affidavano al futuro, al cambiamento che la stessa età prometteva. Inoltre, questa situazione di stand by e di appesantimento del presente non potrà che sfociare nella «protesta», che è cosa buona solo quando è nonviolenta e accompagnata da una «proposta». Criteri, questi, per rileggere i fatti calamitosi del 15 ottobre scorso a Roma.
E per quanto riguarda la fede? È vero che oggi, da parte dei giovani, c’è uno spegnimento d’interesse nei confronti di un vissuto di Chiesa che attira poco? E che si preferisce ripiegare su forme blande, part-time e fai-da-te, elastiche e flessibili del credere? Sì e no. Nel senso che, come ben sappiamo, la giovinezza resta – oggi come ieri – il segmento della vita che più si distanzia dall’esperienza religiosa tradizionale, ma si dimostra anche fucina per nuove elaborazioni e rilanci. Che vi sia discontinuità, anche notevole, rispetto a tappe che un tempo erano del tutto consequenziali e spingevano verso un vissuto cristiano sociologicamente garantito, non sorprende più nessuno, e, come scrive Alessandro Castegnaro nella ricerca da lui curata C’è campo? Giovani, spiritualità, religione, si va verso un cristianesimo scelto perché interessante. «La preoccupazione primaria della Chiesa – nella prospettiva di un’adesione alla fede oggi del tutto libera – non dovrebbe essere quella di non perdere i giovani, ma che essi non si perdano». Il disinteresse personale è la misura del vero interesse nei confronti dei giovani, a tutti i livelli, perché dice che si mette davvero al centro il loro vero bene.