L’amore più grande

Il dramma di Tonino: dal campo di calcio a una stanza d’ospedale. Le speranze della sua famiglia. Il calore di medici e amici. Le parole di un sacerdote. E il dono della fede.
26 Ottobre 2011 | di

Era il giorno successivo al suo undicesimo compleanno. Quella domenica, con un tuffo, Tonino aveva incornato, proprio all’incrocio dei pali, uno dei più bei goal della sua acerba carriera di centravanti della squadra parrocchiale, nel campetto alle pendici del vulcano. L’urlo di gioia di genitori e amici lo aveva raggiunto, come una vertigine, mentre era ancora a terra sulla linea di porta. Ancora pochi minuti ed ecco il fischio finale dell’arbitro. Meno male, perché la vertigine continuava e Tonino, in un lago di sudore, era stanchissimo, anche se la strada per lo spogliatoio l’aveva percorsa sulle spalle dei compagni che lo lanciavano in alto con i loro evviva per un goal che consentiva loro di portare a casa il trofeo di fine campionato. Quella notte il mal di testa venne a far compagnia alla vertigine e al sudore finché un flusso consistente di sangue dal naso costrinse mamma Adelina a portare Tonino al Pronto Soccorso. La febbre e il pallore convinsero il medico di guardia a trattenere Tonino in ospedale. Già nel pomeriggio era chiara la ragione di quella grave anemia, e ora bisognava far presto perché non bastavano le trasfusioni per curarlo.

Rocco e Adelina si erano sposati all’inizio degli anni Ottanta. Dopo una pausa di otto anni, successiva al quinto figlio, era arrivato, inaspettato, Tonino. Non era stato facile accettare di avere un sesto figlio a 45 anni, ma Rocco credeva nella Provvidenza. Adelina non avrebbe mai rifiutato quel piccolo. Per entrambi Tonino fu davvero il figlio della Provvidenza, come spesso diceva il parroco. Un bambino dolce e tenero, sempre pronto a dire di sì a ogni richiesta, così bravo a scuola da stupire gli insegnanti e inorgoglire i genitori, ma soprattutto così intuitivo e saggio nel dirimere i conflitti tra i compagni. Ora, però, quella meravigliosa terra di sole e mare che l’aveva visto crescere, non lo poteva curare. Il suo destino era al Nord dove lo zio Luigi – figlio dell’immigrazione del dopoguerra – appena allertato, aveva già trovato il posto per Tonino in un grande ospedale. Fu interminabile il viaggio notturno di Tonino in ambulanza, anche se i due infermieri, un uomo e una donna, ogni volta che Tonino si risvegliava, lo accarezzavano raccontando storie, a volte anche comiche, ripescate dal loro passato. Dietro a loro, mamma Adelina era sveglia, nella macchina di Totò, il figlio maggiore, perché Rocco non poteva lasciare la piccola masseria che, fino ad allora, aveva permesso alla famiglia di continuare a vivere nella terra dei nonni.

In tarda mattinata, la sbarra del grande ospedale si sollevò davanti all’ambulanza. Quassù il sole era molto più fiacco, e anche la tarda primavera era più pallida, ma non c’era tempo per guardarsi intorno perché bisognava subito partire con la terapia. Tonino era stupito di vedere così tanti bambini, e lui era anche tra i più grandi! Ma la cosa bella è che c’erano anche le mamme, e non sembrava di essere proprio in ospedale perché tutto era colorato. C’erano molti giochi, e poi c’erano i dottori con il naso rosso che ti facevano ridere. Totò era ripartito perché la terra aveva bisogno delle sue braccia, e Rocco poteva contare solo su di lui. Adelina, la sera, quando poteva, dormiva dallo zio Luigi.
Giorno dopo giorno, la terapia mostrava la sua faccia sempre più feroce. Quelle bottiglie colorate, il cui liquido arrivava dentro le sue vene, sembravano strappargli la carne, e Tonino si vedeva sempre più magro. Era più alto della sua età, e sul campetto aveva sviluppato dei muscoli da giovane atleta: ogni tanto, li confrontava con quelli di Rocco che erano tonici e abbronzati grazie al lavoro nei campi. Tonino non aveva grandi dolori, ma la febbre non lo lasciava mai, e in bocca gli sembrava di avere il fuoco. Dal giorno del goal decisivo per la sua squadra, la stanchezza non lo aveva mai abbandonato.
Veniva spesso a trovarlo don Adriano, un prete di mezza età, con i capelli grigi e i grandi occhi chiari. Diceva di abitare in ospedale e – cosa che a Tonino sembrava curiosa – diceva che l’ospedale era la sua parrocchia, e che il ragazzo, adesso, era diventato un suo parrocchiano. A Tonino piaceva parlare con lui, anche se non lo faceva ridere come i dottori col naso rosso. Però don Adriano aveva sempre parole che sembravano carezze. Ogni tanto celebrava la messa nel reparto dei bambini, e gli sembrava diversa da quella del suo paese perché qui i bambini cantavano e parlavano, se avevano qualcosa da dire. A Tonino piaceva don Adriano, soprattutto quando parlava del suo amico Gesù che gli voleva bene. «Ma quanto bene, don Adriano?» interloquiva Tonino. «Il bene più grande di tutti!», rispondeva convinto don Adriano. «Più grande anche di quello di mamma e papà?», replicava Tonino. «Tu pensa al bene di mamma e papà, e moltiplicalo per un numero infinito. E ancora non basta! Il suo bene ci toglierà ogni fatica e sofferenza, ci libererà dal dolore, e ci farà vivere felici!» lo rassicurava ancora don Adriano.

Mamma Adelina era sempre vicina a Tonino, e lo aiutava a bere perché aveva sempre tanta sete. Per il ragazzo era bello sapere che, anche quando chiudeva gli occhi, la mamma era sempre lì, accanto a lui. Negli ultimi tempi, i dottori col naso rosso non riuscivano più a farlo ridere come all’inizio, e Tonino rimaneva spesso con gli occhi chiusi. A volte dormiva, a volte no. A volte faceva finta di dormire per ascoltare senza guardare. Fu così che una sera, mentre aveva gli occhi chiusi e sembrava a tutti che dormisse, Tonino aveva sentito, vicino al letto, la voce sommessa del medico che diceva all’infermiera: «Anche questa terapia è inutile. Ormai non abbiamo più armi. Dobbiamo rassegnarci!». Tonino soffocò la voglia di piangere per non far capire che era sveglio, ma quando fu solo non riuscì a trattenere le lacrime. La mattina successiva, la febbre era molto alta. Tonino tentò di dire a sua mamma ciò che sapeva, ma Adelina sembrava non ascoltare e, anzi, disse che la sera sarebbe arrivato anche papà Rocco. Allora pensò ai grandi occhi chiari di don Adriano, e, in una pausa di riposo di Adelina, chiese all’infermiera se lo poteva chiamare subito. Don Adriano sapeva che la situazione di Tonino stava precipitando, e corse immediatamente al suo capezzale. Tonino, arso dalla febbre e con la gola in fiamme, gli chiese se era proprio sicuro che Gesù gli volesse bene. Don Adriano parlò con gli occhi perché le parole gli si erano bloccate in gola. Tonino continuò: «Allora dì a Gesù che mi aspetti, ma, soprattutto, aiutami a dire a mamma e papà che li devo lasciare!». Rocco e Adelina arrivarono mentre don Adriano stava pregando con le dita incrociate con quelle del ragazzo. Non ci fu bisogno di aggiungere nulla perché il silenzio era più grande. Tonino bisbigliava sottovoce. Rocco e Adelina capirono che si stava confessando. Quando aprì gli occhi, Tonino incrociò lo sguardo velato di mamma e papà, abbozzando un sorriso: avrebbe voluto dire che Gesù gli voleva bene e che voleva bene anche a loro; e che non dovevano essere tristi se lui li doveva lasciare, ma non aveva più la forza per farlo. Ci pensò don Adriano con un filo di voce, raccogliendo il sorriso di Tonino nella luce calda dell’ultimo sole. L’infermiera abbracciò Adelina. Di lì a poco, Tonino chiuse gli occhi. Per sempre.
 
L’intervista a Gian Antonio Dei Tos
di Alessandro Bettero 

La morte, un’angoscia che diventa tabù
 
Msa. Accettare l’idea della morte è una delle sfide più difficili che l’uomo, in ogni tempo, ha dovuto affrontare. Eppure secoli di civiltà non ci sono serviti abbastanza per maturare la consapevolezza di questa scadenza ineluttabile. Perché?
Dei Tos. La morte è da sempre una realtà che evoca sentimenti di angoscia. È un’esperienza per definizione irraggiungibile. Nessuno può avere un accesso diretto alla propria morte personale. La morte è sempre, necessariamente, la morte dell’altro, ed essa è per noi significativa soprattutto quando colpisce qualcuno che amiamo. Tuttavia non è mai possibile sperimentarla direttamente e poi narrarla. Può essere al massimo un’esperienza di privazione dell’altro, da dove può iniziare il cammino di preparazione alla propria morte, ma non è ancora il vissuto della propria morte che, essendo un momento unico, intimo e irripetibile, non è neanche rappresentabile, non può essere oggetto di narrazione. La morte esiste solo per l’io che la vive. È vero che anche gli altri muoiono, ma quella è la loro morte, non la mia. La morte ci rende insostituibili e radicalmente soli. Certamente la morte della persona cara è l’esperienza che fa penetrare la morte nella nostra vita, e ci fa coesistere con la morte. La morte dell’altro entra nella nostra vita come la scomparsa di qualcosa di noi stessi, tanto da trasformare l’esistenza di ognuno di noi, fin dall’origine, in una costante oscillazione fra vita e morte. L’idea della morte si presenta a noi attraverso l’esperienza della perdita relazionale e della solitudine personale. È inevitabile, quindi, che la stessa idea di morte evochi sofferenza.

La «società dei consumi» sembra avere rimosso il tema della morte fino a farne scomparire i segni dalla vita quotidiana. Per quale ragione?
È vero che nel secolo scorso è iniziato un progressivo processo di rimozione della morte dal vissuto quotidiano. La morte diventa impresentabile, e la sua negazione si diffonde rapidamente. Innanzitutto cambia il luogo del morire: non più la casa, nell’ambito dell’intimità familiare, ma l’ospedale con la sua struttura anonima e anaffettiva che non consente più la ritualità del morire come in passato. La morte si consuma nella solitudine e nell’allontanamento degli amici e dei parenti, essa viene occultata e il cadavere rimosso. Le manifestazioni pubbliche del dolore sono considerate disdicevoli, c’è una vera e propria cospirazione del silenzio attorno alla morte. Nel XX secolo la morte è divenuta un tabù. Da molte parti si sottolinea, inoltre, che la morte è sempre più medicalizzata, nel senso che essa è diventata innanzitutto un evento sotto la responsabilità della medicina e della sua tecnologia. Influenzata dal progresso della tecnologia medica, la morte è divenuta un fatto tecnico controllabile e manipolabile. La tecnologia è un elemento costitutivo della medicina moderna, ed è parte dell’attivismo occidentale. Così come controlliamo la nascita, la malattia, la forma del nostro corpo, ora aspiriamo a controllare il tempo e il modo di morire. Oggi si sente sempre di più il riferimento alla «morte desiderata», alla «morte per scelta», al «diritto a morire» nel senso di una volontà di controllo totale della morte. La morte è vissuta prevalentemente nella prospettiva della medicina tecnologica che pervade la vita quotidiana. Il risultato finale è che la morte appare selvaggia e disumanizzata, affidata alla fredda indifferenza delle macchine.

Allora la morte è solo «scandalo» ed enigma?
No, non può e non deve essere questo. Abbiamo oggi la necessità di integrare l’esperienza del morire dentro la vita. Dobbiamo rendere la morte significativa per il vivere. Se è vero che la morte è un evento ineluttabile, è altrettanto vero che, se essa è riempita di senso e di speranza, non è più solo un’esperienza da subire. Dobbiamo umanizzare la morte liberandola dal dolore e dall’angoscia, spezzandone la solitudine e affidandola a una «cura» che promuova la persona e ne rispetti la dignità.


Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017