Il ritorno della «guerriera»
Arrivi in Liberia proprio nel giorno delle elezioni – l’8 novembre – e in pochi minuti demolisci i pregiudizi. La storia di quel Paese dell’Africa occidentale ti aveva consegnato violenza, miseria, devastazione, ignoranza? Ti accoglie una realtà dignitosa, che sta votando in modo organizzato e scrupoloso. Ed è la prima volta dai tempi della guerra. Vedi una campagna elettorale in stile americano, con in primo piano una donna, Ellen Johnson Sirleaf, presidente uscente, favorita alla riconferma. Ovunque campeggiano manifesti cubitali con il suo volto rassicurante. Le strade sono pulite. Nel Paese a forte maggioranza cristiana riecheggia il suono delle campane. Col caldo appiccicoso della stagione delle piogge giunta agli sgoccioli, spiccano le macchie intense di verde. Le prime impressioni contrastano con le notizie del giorno prima: in una manifestazione promossa dall’opposizione erano scoppiati disordini che avevano provocato vittime. Chiedi, ascolti, ma per fortuna non trovi il solito fantasma della violenza. Hai, invece, la sensazione di una realtà ancora fragile. Ma le minacce sullo sfondo sono insufficienti a oscurare la determinazione di una scelta, il tentativo di un salto definitivo verso il futuro. Ancora un particolare: radio e televisioni sono tutte accese per seguire l’andamento del voto. Nei seggi non mancano i giornali e lungo le strade molte mani digitano velocemente messaggi sulle tastiere dei telefonini.
Presidente da record
La Liberia è l’unica repubblica, anzi la prima, del Continente nero a essere governata da una donna. E questa donna – che ha ottenuto il premio Nobel per la pace nel 2011 –, nei primi sei anni del suo mandato, giunto all’indomani di una feroce guerra civile, ha ricostruito la speranza e anche il Pil (Prodotto interno lordo), che oggi viaggia sopra il 5 per cento. Decisa, simpatica, ma soprattutto competente, la Sirleaf vanta un curriculum impressionante. Dopo gli studi universitari in Economia a Monrovia e un master in Pubblica amministrazione ad Harvard, è stata dirigente e consulente di grandi società americane, oltre che vice-segretario generale delle Nazioni Unite con delega per l’Africa. Sempre instancabile nel sostegno ai diritti delle donne, ha speso quaranta dei suoi 72 anni in politica: è stata ministro delle Finanze, ha vissuto l’esilio e anche il carcere. Sul piano privato, si è sposata per amore: un matrimonio finito col divorzio, ma che le ha dato quattro figli e undici nipoti. Un personaggio da incontrare, insomma. Alla richiesta di un’intervista, però, l’entourage della Sirleaf aveva risposto con un tiepido «forse». Ma andare sui luoghi fa sempre la differenza. Sapevo che il risultato sarebbe arrivato.
Un Paese eterogeneo
Affacciata sull’Atlantico, lungo la cosiddetta «Costa del pepe o degli schiavi», la Liberia conta poco più di tre milioni e mezzo di abitanti. La sua società è stratificata, eterogenea e atipica. Esempio di una colonizzazione a rovescio. Qui si parla americano, lo stile è americano, quasi americana è la bandiera – una stella, più le strisce –. Monrovia, la capitale, prende il nome dall’ex presidente Monroe, ma l’America aveva scelto questa terra come colonia non tanto per sé, quanto per i suoi ex schiavi neri. Oltre a vestire i panni di «Paese africano dell’emancipazione dalla schiavitù», ai primi dell’800, la Liberia rappresentava anche la soluzione a un problema di numeri in esubero e di malessere sociale proprio in quegli Stati del Sud – come la Virginia o il Maryland – che avevano favorito la tratta. Col passare degli anni gli americo-liberiani sono diventati la classe dirigente della Liberia, un’esigua minoranza, benestante, con studi, parenti e amici in America. Mentre i nativi, i più poveri, divisi in una decina di tribù indigene, restano il 90 per cento della popolazione. Un melting pot nero in cui a cambiare sono il colore della pelle e la stessa fisicità, ma dove tutti rivendicano il proprio sangue africano. Compresa Ellen Johnson Sirleaf, nonostante il colore dorato della pelle, ereditato dal nonno tedesco. Ma la sorpresa è stata scoprire che in questo Paese le donne contano più che altrove. Ellen le ha chiamate a condividere la sua sfida in ruoli di primo piano: sono politiche, amministratrici, manager, imprenditrici, intellettuali. Senza contare quelle che operano nel mondo della scuola e nel sociale.
Lo spettro della guerra civile
Benché sia durata quasi vent’anni, la guerra in Liberia non ha lasciato tracce evidenti. Eppure le ferite riportate dal Paese nordafricano sono profonde. I morti sono stati più di 250 mila, gli emarginati – soprattutto gli ex combattenti e quelli che una volta erano i bimbi-soldato – sono oggi più del doppio. La riconciliazione nazionale resta un traguardo. Il principale partito dell’opposizione, il Cdc, guidato da George Weah – l’ex campionissimo del Milan, pallone d’oro nel 1995 –, rimprovera al presidente Ellen Johnson Sirleaf di essersi occupata più delle questioni internazionali che del suo Paese, benché sia riuscita a ottenere il condono del debito estero per quasi cinque miliardi di dollari. Weah è duro. A suo giudizio, «loro (la Sirleaf e il suo partito, ndr) non sono persone indipendenti. Hanno ripreso il potere per fare i propri interessi, si sono rimessi in mezzo, ma non sono portatori di pace. E a questo Paese serve la pace». Stando alle parole dell’ex calciatore: «C’è bisogno di gente credibile, che si impegni veramente, non gente che vuole solo fare notizia». Il campione, che oggi ha 45 anni, non appare molto a suo agio nei panni del politico: non è disponibile a soluzioni concordate, né ha deciso se si impegnerà all’opposizione nei sei anni del nuovo mandato della Sirleaf. Dal canto suo, invece, il neo presidente «rosa», ha già ripreso la sua battaglia per ricostruire la Liberia. Tempo e consensi non dovrebbero mancare. E in fondo, i risultati raggiunti da Ellen Johnson al termine della sua prima carica fanno ben sperare.
Msa. Posso scomodare la parola «rivoluzione»? Lei sta cambiando la cultura di questo Paese…
Johnson Sirleaf. Assolutamente. Lo testimonia il fatto che l’elezione democratica del primo presidente donna nel Continente africano è avvenuta proprio in Liberia. In sé, già questa è una rivoluzione, oltre che un fattore di crescita. La partecipazione femminile in politica e negli affari sta aumentando non solo in Liberia, ma in tutto il Continente. Un dato che ci incoraggia a combattere e a impegnarci per ottenere ruoli di primo piano nella società. Le donne sono competitive in tutto il mondo e soprattutto in Africa, dove sono state tenute ai margini per troppo tempo.
Tecniche, politiche, manager: le donne in Liberia ormai sono sempre più qualificate e formano quasi un esercito...
Non ne abbiamo ancora abbastanza. Ciò che ci manca è la massa critica che serve a cambiare una società dominata dagli uomini. Le donne africane sono orgogliose, competitive. Ecco perché ne servirebbero di più.
Parliamo del Premio Nobel per la pace che ha vinto lo scorso anno. Cosa rappresenta per lei e per la sua gente?
È il riconoscimento di sette anni di lotta per la democrazia e per la promozione della condizione femminile. Per me il Nobel per la pace è un onore e una responsabilità nei confronti di tutte le donne che rappresento in Liberia, in Africa e nel resto del mondo. Sono diventata un simbolo per le loro aspettative e per le loro aspirazioni. In questo senso, vorrei poter proseguire nel mio lavoro con successo.
Nonostante la popolarità che ha raggiunto in Occidente, qui in Liberia la sua opera di cambiamento è spesso associata a un senso di rabbia e frustrazione. Lei lo percepisce?
Si tratta di una conseguenza derivata dalle troppe aspettative. Nonostante i progressi fatti, nel nostro Paese distrutto dalla guerra ci sono ancora molte persone che non riusciamo ad aiutare. Qualche esempio? Costruiamo una strada in un luogo, e quelli dei luoghi vicini si lamentano; portiamo l’elettricità in un comune, in una regione, e ci sono tanti altri che la chiedono. Ho visto ovunque gente frustrata, perché il percorso dello sviluppo, del recupero, è lento. Considerato da dove siamo partiti, credo che in questi anni si sia lavorato bene. Mi auguro che questa frustrazione passi. Nel frattempo continuiamo ad andare avanti: nell’offerta dei servizi, nella ripresa economica, in quella sociale. Utilizzando nel modo migliore le nostre risorse, negli anni a venire cominceremo a vedere i risultati di quello che stiamo costruendo.
La sua gente la chiama «Mama Ellen», dunque ha fiducia in lei. Come vive questa responsabilità?
Sono felice della fiducia del mio popolo e accetto la responsabilità di condurre il Paese in questo sforzo, che dobbiamo tutti condividere, nell’ottica di una ripresa economica e sociale. Metterò in fila i problemi, a cominciare da quelli più importanti. La fiducia e la responsabilità – che camminano mano nella mano – vanno costruite creando certezze per il futuro.
Considerato che lei è un’economista, come vede la crisi finanziaria generale?
Il sistema finanziario globale non collasserà. Tuttavia, credo che assisteremo a delle riforme strutturali importanti. Riforme su cui – sono convinta – dovremo continuare a lavorare.
Lei è stata definita la «lady di ferro» africana. Ma avrà pure qualche dubbio o paura.
Non ho grandi paure, piuttosto qualche ansia.
Lavora molte ore al giorno?
Circa dodici ore. Il lavoro è sempre tanto. Ma ciò che mi angoscia davvero è la strada in salita che ci aspetta. Dobbiamo riuscire a sfruttare al meglio le nostre risorse per creare sviluppo. E dobbiamo andare incontro alle aspettative dei giovani, che non possono attendere. Ecco, dunque, le mie ansie. Ansie – come le dicevo – non paure.