Lettere al direttore

25 Gennaio 2012 | di




UNA CESTA COLMA DI SPERANZA


Lo scorso 25 dicembre, al termine della Messa di Natale delle ore 10.00, una cesta contenente le preghiere dei lettori del «Messaggero di sant'Antonio» è stata deposta dal direttore, padre Ugo Sartorio, ai piedi della Tomba del Santo.

 






Pagare le tasse: quando «tutti» vuol dire «tutti»

«Caro direttore, se pagare le tasse è sempre stato un dovere, lo è ancor più in un periodo in cui il rischio di un collasso economico incombe. Ben vengano blitz come quelli di Cortina e di Roma, per far capire che lo Stato non dorme e sta facendo sul serio».
Ernesto – Belluno
 
Secondo i dati riportati da Renato Mannheimer sul «Corriere» del 16 gennaio, il blitz di Cortina – giudicato positivamente dal 72 per cento degli italiani – è l’evento recente che più ha contribuito a migliorare l’immagine del governo Monti. Non si vorrebbe e non si dovrebbe arrivare a tanto, cioè alla spettacolarizzazione di interventi dell’Agenzia delle entrate, ma i margini e i tempi di manovra si stanno riducendo, per tutti. L’emergenza chiama, anche perché sul tema è stato detto tutto e di più. Basti ricordare il richiamo di Prodi sull’evasione come peccato, argomento sul quale anche i preti sarebbero latitanti; la tanto sbeffeggiata affermazione di qualche anno fa del ministro Padoa-Schioppa, «pagare le tasse è bello», che in verità stava a significare come versare le tasse sia forma alta di solidarietà sociale. Sono gli evasori a mettere le mani in tasca agli italiani, ad avvelenare il pane dei nostri figli, sostiene Monti, e quindi a essere veri e propri parassiti della comunità, come mi è capitato di ascoltare in uno spot su alcune radio; insomma, «pagare le tasse non è un optional», come ha affermato recentemente il cardinal Bagnasco.

Una volta messo al sicuro il principio, si può discutere del come: la sinistra preferisce lo slogan «pagare tutti, pagare meno», facendo appello alla correttezza di ognuno per estinguere la «sovrattassa» pro capite ora pagata per chi non paga. La destra muove generalmente da un altro principio, che giudica più realistico, cioè «pagare meno per pagare tutti», per evitare che l’eccessiva tassazione penalizzi l’economia. Non si può non essere d’accordo sul fatto che attualmente in Italia il peso fiscale sia sproporzionato, così come non si può non vedere che l’evasione in Italia è anche e soprattutto un’anomalia etica e culturale che muove dalla perdita del senso di appartenenza a una comunità, vero presupposto che immette nella logica dei diritti-doveri. Su questo punto, poiché la coscienza non è educabile per decreto, bisogna allungare il passo.
 
 
Over 60 welfare all’italiana?

«Neo-nonna sessantenne pensionata, la mia è una specie in via di estinzione in Italia. L’innalzamento dell’età pensionabile – fissata per le donne a 65 anni – promette di rivoluzionare le cose. Ma hanno pensato che a farne le spese, oltre alle dirette interessate, saranno figli, nipoti e anziani che finora hanno contato sul supporto della mamma-nonna-congiunta ormai libera dal lavoro? Vedremo che cosa accadrà tra qualche anno, chi ancora avrà il coraggio di sostenere che gli anziani sono inutili... Se c’è una cosa che ho imparato in tutti questi anni di vita, è a non sottovalutare mai le potenzialità dei più deboli».
Erminia
 
Mai come ai nostri giorni si è parlato di anziani come risorsa e di invecchiamento attivo. Di fatto, la categoria degli over 60 rappresenta oggi per il nostro Paese un’incredibile fonte di welfare. È sufficiente dare un’occhiata al sito dell’Istat per rendersene conto. Dall’ultimo studio del 2011 sul futuro demografico del Paese emerge, infatti, che in Italia – su una popolazione totale di oltre 60 milioni di abitanti – il 20,3 per cento ha superato i 65 anni. Un dato che, secondo l’Istituto nazionale di statistica, è destinato a crescere fino al picco massimo del 33,2 per cento nel 2056. Questa fascia di popolazione, da molti ritenuta improduttiva, porta con sé un vero e proprio bagaglio di tradizioni e know how da reinvestire nella società. Prendiamo, ad esempio, la schiera di nonne che fanno da salvagente a tante famiglie in cui i genitori lavorano entrambi fuori casa. Come scrive Chiara Saraceno nel libro Il secolo degli anziani. Come cambierà l’Italia a cura di Antonio Golini e Alessandro Rosina: «Tra i nonni c’è una maggioranza di donne»; inoltre «circa tre over 65 su quattro hanno almeno un nipote».

Un dato che fa riflettere, specie se raffrontato alle altre realtà europee. «Secondo i dati della European Social Survey, il 60 per cento dei bambini italiani fino a 5 anni è accudito da un nonno/a, a fronte del 2 per cento dei coetanei svedesi, del 25 per cento dei tedeschi e del 45 per cento degli ungheresi», si legge nel volume a più voci edito da il Mulino. Nonne babysitter, quindi, e non solo. Una schiera che, purtroppo, con l’aumento dell’età pensionabile a 65 anni, è destinata ad assottigliarsi. Togliendo a una fetta debole di popolazione una forma di welfare importante, soprattutto educativamente affidabile.
 
 
Imprenditori: il male oscuro dei piccoli

«Leggo di molti, troppi casi di suicidio tra imprenditori. Oberati dai debiti, alcuni si vedono senza via d’uscita e, piuttosto di chiudere licenziando i collaboratori di una vita, scelgono la soluzione estrema. Ma cosa sta accadendo?».
Mario – Treviso
 
Va detto innanzitutto che il suicidio è l’esito complesso di un mix di fattori personali, biologici, ambientali, sociali, culturali e relazionali. Anche se il nesso tra crisi e suicidio è stato ampiamente dimostrato, come risulta da una recente ricerca dell’Eures, che nel 2009 ha rilevato un record di suicidi per cause economiche: il 67,8 per cento in più rispetto al periodo pre-crisi. In quota percentuale rientrano anche i suicidi degli imprenditori: nel solo Nord Est, patria della piccola imprenditoria, se ne contano più di cinquanta in tre anni. Dati agghiaccianti che, però, non spiegano tutto.
Non spiegano, per esempio, perché ci si toglie la vita più a Nord che a Sud, perché a suicidarsi sono più gli uomini che le donne, i divorziati più che gli sposati. Differenze che fanno intravvedere altro, un male oscuro che i numeri non dicono. Nel caso degli imprenditori, vi sono certo delle ragioni obiettive: ordini drasticamente in calo; enorme fatica a farsi pagare le commesse sia dai privati sia dallo Stato; banche che non fanno più credito... Non è certo facile, poi, accettare il fallimento lasciando sul lastrico dipendenti con i quali si è lavorato fianco a fianco per una vita. Si tratta spesso di un peso insopportabile. Ma neppure questo quadro, per quanto drammatico, può spiegare una scelta così definitiva nella quale s’innescano sicuramente aspettative personali e modelli culturali troppo rigidi, aggravati sovente da una fragilità individuale.

In regioni quali il Nord Est, essere un imprenditore è una questione d’identità più che altrove e il successo della propria attività diventa la vera riuscita personale. Purtroppo, viviamo in un contesto globalizzato di competitività selvaggia, dove non è più sufficiente solo l’impegno e il lavoro dei singoli: è necessaria una rete di sicurezza, per trovare competenze nuove e condividere le responsabilità. Se questo è vero, allora non è solo la crisi che uccide, è la solitudine, la percezione di avere perduto il proprio posto nel mondo, l’immagine di sé, la stima degli altri. Vittorio Filippi, in un editoriale sul «Corriere del Veneto» giunge a dire, estremizzando, che la crisi è un comodo alibi: «Più che la crisi dovremo temere questa nostra società “in ritiro” che ci lascia soli, individui “slegati” e fragili».
È anche vero, però, che molti piccoli imprenditori ce la fanno, nonostante le inefficienze del sistema-Italia e la sordità della politica. E spesso la loro via d’uscita è comunitaria: associazioni tra imprenditori in crisi, dipendenti che si mettono in gioco accanto al titolare, piccole banche locali che accettano il rischio di concedere ancora credito, interi paesi che si stringono intorno alla ditta in difficoltà, ma anche esperienze di supporto psicologico organizzate da alcune associazioni di categoria. Dunque ci vogliono nuove regole e nuove relazioni perché questa notte passi e porti frutti. Fiducia nella vita, nel futuro.

Lettera del mese. Parola di Vangelo
 
Beati i poveri? Ma chi?
 
In tempo di crisi la beatitudine evangelica della povertà può apparire inappropriata e quasi offensiva. Cosa esprime, in verità? Perché è attuale?
 
«Caro padre Ugo, al matrimonio di mia nipote è stato scelto e proclamato il Vangelo delle beatitudini, che inizia con “Beati i poveri”. Sono rimasta a dir poco perplessa perché il celebrante, nella predica, ha augurato ai futuri sposi di essere poveri. Umili, spero volesse dire, perché di poveri ce ne sono già troppi in giro e con la crisi che incalza aumenteranno. Perché voi preti non siete più chiari quando parlate di cose così delicate? Può spiegarmi bene cosa significano le parole di Gesù “Beati i poveri”?».
Daria – Bergamo
 
Di questi tempi, nella nostra Italia, dire ad alta voce «beati i poveri» può risultare poco garbato e quasi infastidire. Nel bel mezzo di una crisi che impoverisce e umilia, per cui nessuno si sente al sicuro, appare improprio tessere le lodi della povertà legandola a una qualche forma di felicità o promessa di riscatto. Ci accorgiamo, allora, che le parole di Gesù assumono tonalità diverse a seconda del contesto in cui vengono proclamate. Immagino un missionario che nell’Africa subsahariana annuncia a gente priva di tutto il Vangelo delle beatitudini, che ha come porta d’ingresso, appunto, quel temerario «beati i poveri». E cosa possa accadere nell’animo di chi ascolta quando il cappellano delle carceri legge il brano domenicale contenente l’espressione: «Non sono venuto a condannare, ma a salvare» (Gv 12,47), oppure la profezia del profeta Isaia rilanciata da Gesù stesso: «Lo spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha inviato ad annunziare ai prigionieri la liberazione». Insomma, quando il Vangelo è troppo calzante e sembra fotografare una situazione da vicino appare eccessivo, e forse proprio per questo richiede un sovrappiù di fatica interpretativa, pena l’attivazione di un cortocircuito tra le parole e la realtà.

Il «beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio» di Luca 6,20, si completa nel «beati i poveri in spirito…» di Matteo 5,3. Si badi bene, in questo chiarimento progressivo della beatitudine non è la povertà che si spiritualizza (con il rischio di evaporare), ma piuttosto lo spirito che si impoverisce, si svuota per meglio ricevere e dare. Purtroppo, nella storia del cristianesimo, troppe volte la povertà di spirito si è trasformata in spirito di povertà, la qual cosa ha permesso di sfuggire al duro criterio della quantificazione: un ricco poteva possedere beni all’infinito, ma gli era richiesto di rapportarsi ad essi con cuore distaccato. Oltre a dar luogo a una sfida sovrumana (chi può farcela?), questa interpretazione ha portato lontano rispetto all’intenzione originaria di Gesù, il quale né dichiara felice chi è rassegnato a una condizione di indigenza né esonera dalla povertà chi s’illude di poter insieme possedere e dominare «mammona» (la ricchezza), tenendo il piede in due scarpe («Non potete servire Dio e mammona», Mt 6,24). La beatitudine evangelica riguarda piuttosto colui che nella forza dello spirito (quindi muovendo da un principio spirituale che può essere assunto solo in piena libertà) si impoverisce perché ricco dell’amore di Dio al fine di sollevare chi è nella povertà di mezzi, di sostanze, di opportunità. Ci si spoglia per vestire chi è nudo, si rinuncia ad accumulare per condividere, ci si limita perché altri abbiano migliori chance. Il «beati i poveri» di Gesù contrasta di fatto la povertà che avvilisce e abbrutisce, introducendo nella vita sociale un principio di solidarietà che fascia le ferite e restituisce dignità, andando oltre il principio di giustizia attraverso la logica del dono di sé. Non benedice la disuguaglianza sociale, bensì orienta al suo superamento. Dice bene dei poveri, non della povertà. Di certo è anche una benedizione per chi è costretto alla povertà, suo malgrado, non però nel senso che quella condizione ha in sé qualche valore, ma perché la benedizione di Dio parte dal fondo, dagli ultimi (che diventano i primi), per raggiungere tutti. Così è Dio.

Lettere al direttore, scrivere a: redazione@santantonio.org

  Un week-end con sant’Antonio e i suoi frati
 

Cara lettrice, caro lettore,

l’anno scorso, per la prima volta, abbiamo voluto inaugurare un momento speciale d’incontro con voi, evento che oggi familiarmente chiamiamo «Due giorni a Padova con sant’Antonio e i suoi frati». Lo spirito di condivisione che abbiamo respirato in quell’esperienza ci porta oggi a riproporla con rinnovato entusiasmo. Non si tratta di un pellegrinaggio comune, ma di un incontro davvero particolare con sant’Antonio, con noi frati e con le tante realtà di fede, di carità e di cultura che sono sorte in suo nome. Oltre alla Basilica e alle mostre ospitate nei chiostri adiacenti, visiterete gli altri due santuari antoniani, quello di Camposampiero, nei dintorni di Padova – dove sant’Antonio passò gli ultimi giorni della sua vita, ritirandosi in preghiera nella famosa celletta sul noce e dove ebbe la visione di Gesù Bambino – e quello dell’Arcella, dove il Santo concluse il suo pellegrinaggio terreno. Percorrerete il «Cammino di sant’Antonio», l’itinerario del Santo morente verso l’amata Padova, pregando insieme con noi.

Ci sarà inoltre l’occasione di entrare in contatto con le nostre opere di solidarietà, quali il Villaggio sant’Antonio di Noventa Padovana e la Comunità san Francesco di Monselice. Un confratello vi introdurrà alla realtà del «Messaggero di sant’Antonio», della Caritas Antoniana, e alle istituzioni culturali che ruotano intorno alla Basilica: il Centro studi antoniani, l’Istituto teologico, la Biblioteca antoniana. Opportunità significativa della due giorni, poi, sarà l’esclusiva visita serale in Basilica, effettuata dopo cena, durante l’orario di chiusura al pubblico. Infine, la partecipazione alla Messa solenne domenicale. Sarà per voi un’occasione per condividere con noi anche alcuni momenti della nostra quotidianità e per conoscere di persona i tanti modi in cui oggi, con l’aiuto di molti fratelli laici, cerchiamo di tradurre in parole e opere l’eredità di sant’Antonio, che è fedeltà al Vangelo e amore per la Carità.

I Frati del Santo

INFO

Date: dal 16 al 18 marzo e dal 19 al 21 ottobre.


Alloggio: hotel «Casa del Pellegrino», situato accanto alla Basilica del Santo, in via Cesarotti, 21.

Prenotazioni: le adesioni si chiuderanno a esaurimento dei posti disponibili.

Per informazioni, programma dettagliato e costi: chiamare il 345 7278437 o utilizzare la e-mail duegiornialsanto@hotmail.it

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017