Accanto alle coppie che soffrono

Padre Francesco Panizzolo, oltre che in Basilica, presta la sua opera come giudice istruttore presso il Tribunale ecclesiastico del Triveneto, chiamato a valutare la nullità del sacro vincolo.
25 Gennaio 2012 | di

Padre Francesco Panizzolo, poco più che trentenne, è uno dei frati che stanno vivendo con gioia la loro esperienza umana e religiosa sotto le cupole della Basilica del Santo, cercando di praticare, nel loro piccolo, il comandamento evangelico di amare Dio e il prossimo come se stessi, che i santi Francesco d’Assisi e Antonio di Padova hanno interpretato in modo superlativo. Il santuario antoniano è, per questi fini, un luogo speciale: in esso, quotidianamente, confluiscono drammi e speranze, miserie e riscatti sui quali i frati sono chiamati a «chinarsi» come buoni samaritani. Padre Francesco, in verità, dedica alla Basilica solo una parte del suo tempo (nel confessionale, nella Cappella delle benedizioni, nell’accompagnare con l’organo le liturgie, nell’accogliere e guidare i pellegrini), essendo impegnato anche in un’altra attività al servizio della Chiesa, che scopriremo tra poco.La limitata presenza non gli ha tolto, però, l’opportunità di essere testimone di eventi eccezionali, che solo un certo pudore ci trattiene dal considerare miracoli.

Padre Francesco è originario di Vigonovo, un industrioso comune del veneziano. Dopo la professione religiosa, è stato inviato a Roma, all’Università Lateranense, per studiare Diritto canonico. «Nella nostra Provincia religiosa – ricorda padre Francesco –, da tempo nessuno si laureava più in Diritto canonico. Il Superiore ha scelto me per colmare la lacuna. Ho accettato, pur non essendo particolarmente attratto dalla materia, ma neppure respinto».
Una volta conseguita la laurea, è stato assegnato al convento padovano del Santo con l’incarico di vice-maestro dei novizi, e poi di docente di Diritto canonico a Padova, alla Facoltà teologica del Triveneto e all’Istituto teologico Sant’Antonio dottore dei francescani conventuali; e, a Verona, all’Istituto teologico interprovinciale dei frati minori.
Dal 2009, dopo il trasferimento del Noviziato ad Assisi, è giudice istruttore, presso la sede distaccata di Padova, del Tribunale ecclesiastico del Triveneto (Venezia), l’organismo giuridico al quale compete la dichiarazione di nullità, per fondati motivi, di un matrimonio religioso.
«È uno dei tanti servizi che noi religiosi prestiamo alla Chiesa locale – chiarisce subito padre Francesco –. Un compito delicato, in un’istituzione ecclesiastica spesso fraintesa. Dietro a ogni causa legale c’è una storia di sofferenza che va compresa: nessuno affronta una simile avventura a cuor leggero».

Msa. Da dove inizia la procedura di dichiarazione di nullità del matrimonio?
Panizzolo. Inizia dalla presentazione, da parte del coniuge richiedente, (individuato come «parte attrice», mentre l’altro coniuge è la «parte convenuta») della relativa domanda, detta «libello», nella quale è descritta, per sommi capi, la vicenda matrimoniale: dal fidanzamento (e, a volte, anche dalle vicende presso la famiglia d’origine) in poi, con l’aggiunta di quant’altro possa servire alla causa. Il mio compito inizia dalla lettura del libello. Da esso traggo spunti per predisporre le domande da rivolgere, nell’udienza dell’interrogatorio, sia alla parte «attrice» sia a quella «convenuta» (nel frattempo informata del procedimento in corso), sia a eventuali testimoni citati come persone a conoscenza di vizi sostanziali che rendono nullo il consenso emesso da uno o da entrambi i coniugi.Le risposte ottenute nell’interrogatorio costituiscono, assieme a eventuali perizie richieste e ad altri documenti acquisiti, il fascicolo delle prove, messo a disposizione delle parti in causa e degli avvocati per le loro valutazioni.

Dopodiché, se non ci sono richieste di altri accertamenti, la fase istruttoria viene dichiarata conclusa. Si passa al dibattimento, che ha per protagonisti gli avvocati della parte richiedente, sostenitori della nullità del matrimonio, e la pubblica difesa, o difensore del vincolo che, al contrario, ha il compito di individuare elementi che ne confermino la validità. Il dibattimento non avviene in aula.
Avvocati e difensore del vincolo, esaminato per conto proprio il fascicolo, inviano per iscritto le loro conclusioni (memorie difensive), da inserire nel fascicolo. Il tutto è allora consegnato al Collegio giudicante, composto da tre giudici, uno dei quali sono io, in qualità di giudice istruttore. Dal confronto collegiale, spesso anche animato, scaturisce la sentenza, che io poi devo scrivere e motivare.
La sentenza emessa dal Collegio giudicante non pone fine, però, al procedimento. Gli atti processuali vengono, di regola, mandati a Venezia, e da lì al Tribunale d’appello di Milano. Nel processo canonico, l’appello non è legato necessariamente al ricorso delle parti, ma è di prassi, e costituisce un’ulteriore garanzia di chiarezza ed equità. Il Tribunale d’appello, esaminati i documenti, pronuncia la propria sentenza, la quale può confermare o smentire la precedente. La sentenza, poi, attraverso le rispettive Curie diocesane, viene fatta pervenire alla parte richiedente e al parroco del battesimo che, se affermativa, la annota sul registro dei battezzati. L’intero iter dura circa un paio d’anni. In ogni caso, è possibile ricorrere a un tribunale superiore.

Quali sono i motivi più ricorrenti per cui si richiede l’annullamento del matrimonio?
Senz’altro la fragilità psichica, causa di disturbi gravi, confermati dagli esperti interpellati. Seguono, la volontà di escludere l’indissolubilità del vincolo matrimoniale o di escludere i figli. Se uno, prima di sposarsi, non vuole accettare l’indissolubilità del matrimonio e vuole separarsi all’apparire dei primi dissapori, o non vuole avere figli, rende nullo l’assenso che presuppone questi valori.

Quante domande di annullamento vengono accolte?
Nel Triveneto circa l’80 per cento: un dato elevato che, però, ci racconta solo una parte della realtà. Si tratta, infatti, dell’80 per cento delle cause istruite perché ritenute fondate. Molte altre sono state fermate in via preliminare perché prive dei requisiti fondamentali. Concretamente, su 400 richieste avanzate nel Triveneto, solo 120 sono giunte al Tribunale ecclesiastico, e l’80 per cento di queste hanno ottenuto sentenza favorevole.

Tutte relative a gente ricca?
Direi proprio di no. Contrariamente a quanto si pensa, una causa di annullamento non ha costi proibitivi. La Conferenza episcopale italiana, cui fanno capo i Tribunali ecclesiastici, ha fissato un tetto tra i 1.500 e i 3.000 euro, che rappresenta poi la parcella dell’avvocato, il quale, se chiede cifre superiori, rischia di essere cancellato dall’apposito albo. Inoltre, chi non dispone nemmeno di tale cifra può chiedere, e succede spesso, il patrocinio gratuito, reso possibile da un fondo costituto con l’8 per mille.

Che senso ha annullare un’unione protrattasi per anni, e in presenza di figli?
È possibile capirlo solo esaminando un caso concreto. Ricordo una signora che, dopo molti anni di matrimonio, si è accorta che il marito la tradiva. E questo avveniva sin dal tempo in cui erano fidanzati, come lo stesso marito ha ammesso. Si trattava di un’unione fondata sull’inganno, priva da sempre di un elemento essenziale come la fedeltà, sottoscritta dal marito per altre convenienze.
Che senso ha, allora, continuare in quella farsa penosa e umiliante? Il dramma dei figli? Occorre dire che, quasi sempre, chi si rivolge al Tribunale ecclesiastico ha già ottenuto, in sede civile, il divorzio. I figli, il dramma lo hanno già vissuto.
  

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017