Lettere al direttore

24 Febbraio 2012 | di

Crisi economica e amore per il prossimo 
«Gentile direttore, sono il presidente di un’associazione di volontari che ha sempre cercato di stare vicino alle persone in difficoltà. Ma da un paio d’anni stiamo perdendo chi ci sosteneva: il settore pubblico ha tagliato i finanziamenti, e molti privati non danno più né offerte né parte del loro tempo. La messe è molta (anzi cresce sempre di più) e gli operai sono pochi, mentre tanti rimangono indifferenti. Per carità, capisco: la crisi si fa sentire. Di fronte alle tante porte chiuse mi chiedo però se la crisi, per motivare questa estinzione di risorse, energie e volontà, non sia solo una scusa, e se l’egoismo non sia destinato a prevalere».
Sergio – Torino
 
Quando, pur dandosi da fare, i risultati non sono quelli attesi, l’amarezza può toccare il cuore del nostro impegno per il bene. Ma non dobbiamo lasciarle l’ultima parola, andando piuttosto a cercare conforto alla fonte del nostro agire solidale. La domanda che emerge dalla sua lettera, tuttavia, mi sembra un’altra. Può la crisi finanziaria ed economica penalizzare se non addirittura estinguere il nostro amore per il prossimo? Se in molti, nella pratica, con il comportamento quotidiano, sembrano rispondere di sì, sarebbe pericoloso e fuorviante affermare che può amare il prossimo solo chi può permetterselo, sia per capacità economica sia per acquisita sensibilità personale. A tal proposito è intervenuto anche Benedetto XVI, nel suo messaggio per la Quaresima 2012, dal titolo eloquente «“Prestiamo attenzione gli uni agli altri, per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone” (Eb 10,24)». A impedire lo sguardo umano e amorevole verso il fratello, sostiene il Papa, «sono spesso la ricchezza materiale e la sazietà, ma è anche l’anteporre a tutto i propri interessi e le proprie preoccupazioni. Mai dobbiamo essere incapaci di “avere misericordia” verso chi soffre; mai il nostro cuore deve essere talmente assorbito dalle nostre cose e dai nostri problemi da risultare sordo al grido del povero».

C’è addirittura chi, con intelligente provocazione, ha scorto in alcune tendenze della nostra società postmoderna elementi sufficienti per decretare La morte del prossimo (titolo di un bel libro scritto da Luigi Zoja, Einaudi 2009), del vicino: l’uomo metropolitano è circondato da «lontani», estranei e quindi indifferenti. Tuttavia, l’innegabile distanza che ci separa dall’altro è colmabile. La proposta di Gesù è chiara: siamo noi a dover fare il primo passo, come conseguenza dell’amore preveniente di Dio. «Il prossimo è colui al quale io mi faccio prossimo, è colui che decido di incontrare, che rendo vicino incontrandolo», sintetizza Enzo Bianchi in Ama il prossimo tuo (con Massimo Cacciari, Il Mulino 2011). E prosegue formulando una domanda, «l’unica che ha senso in merito all’amore: “A chi io mi faccio prossimo, a chi mi faccio vicino?”. Questo occorre chiedersi, non: “Chi è il mio prossimo?”. Non si può infatti definire chi è il nostro prossimo, la sola cosa che occorre fare (…) è essere prossimo, è farsi vicini agli altri uomini e donne, accettando di incontrarli e di amarli per quello che sono, qui e ora». Un buon proposito per la Quaresima, non le pare?
 
Perché i partiti sono diventati irrilevanti? 
«Con l’arrivo del governo Monti i partiti sembrano entrati in un cono d’ombra, lontani, inadeguati, praticamente irrilevanti. Non ho nostalgia dei toni alti, delle estenuanti discussioni, della fatica a decidere qualsiasi provvedimento, dei veti incrociati, degli scandali, degli affari coperti dalle cariche di governo, tuttavia mi domando con una certa preoccupazione: dove andrà l’Italia dopo Monti? Chi potrà governarla? Perché i partiti politici non riescono più a rappresentarci, ma anzi ci appaiono… quasi inutili».
Lettera firmata
 
Credo sia innegabile che con l’avvento del governo tecnico i partiti hanno perso visibilità e buona parte della loro credibilità agli occhi dell’opinione pubblica, specie di fronte a uno stile di governo molto diverso rispetto al passato. Tuttavia sarei più cauto nell’affermare che sono diventati irrilevanti: di fatto l’azione del governo Monti sta proseguendo con il loro avallo in Parlamento, anche se tale appoggio sembra per molti più frutto della paura di precipitare in basso come la Grecia che di una strategia politica. D’altra parte, non è certo auspicabile che un governo tecnico duri in eterno, è giusto che a un certo punto la politica riprenda le redini per ripristinare una fisiologica vita democratica. Semmai il problema è capire «quale politica» nell’ottica del bene comune. Alla tesi dell’irrilevanza dei partiti si oppongono in molti, spesso sottolineando l’eccesso di potere del sistema partitico. «Il Sole 24 Ore» rileva che, nonostante le apparenze, i partiti occupano in modo pervasivo i gangli economici e sociali dell’Italia dal livello locale al nazionale, e se hanno permesso la novità del governo tecnico è solo per tornare gattopardescamente al loro consueto assetto di potere una volta chiusa la parentesi anomala.

Ma come siamo arrivati a questo punto? I partiti, in un sano sistema democratico, dovrebbero essere la cinghia di trasmissione delle aspettative, dei bisogni e degli interessi della società civile nella stanza dei bottoni. Per un certo tempo lo sono stati, permettendo alla nostra democrazia di consolidarsi; poi qualcosa si è rotto, ma cosa? È Ernesto Galli della Loggia a ipotizzare una risposta sulle pagine del «Corriere della sera»: a suo avviso il nocciolo del problema sta nel fatto che, dopo la disgregazione delle culture politiche del Novecento, finita ingloriosamente con Tangentopoli, i partiti non hanno più elaborato un pensiero globale sull’Italia. I vecchi partiti nascevano «da un’analisi approfondita della vicenda del Paese, da una radiografia dei suoi problemi, dei suoi vizi e delle sue virtù. Da qui non solo programmi, ma soprattutto un’idea dell’interesse generale, e di conseguenza la loro ispirazione autentica e quindi la voglia e la capacità di darle voce venendo presi sul serio». La perdita dell’orizzonte comune ha, al contrario, aperto la strada al rafforzamento degli interessi particolari: il partitismo è diventato partitocrazia, l’interesse comune si è frammentato in quello di tante piccole lobby, il confronto è diventato scontro, indebolendo e ingessando il Paese.

Come uscirne? In un certo senso l’analisi suggerisce la medicina: è giunto il momento che i partiti riflettano criticamente sul loro ruolo nella storia del Paese, che recuperino una visione d’insieme oltre i particolarismi e che, in accordo con questo processo, elaborino programmi e strategie. Saranno in grado di intraprendere questa strada di rinnovamento? Le difficoltà a trovare una proposta comune per riformare il sistema elettorale e i 2.299 emendamenti al decreto liberalizzazioni non sono una buona premessa. I partiti possono scegliere di ignorare i segni dei tempi: questa volta però i cittadini li aspettano al varco… elettorale.
 
Disabili poca assistenza tanta famiglia
«Gentile direttore, sono stata sollecitata a scriverle dalla lettura del dossier sul numero di febbraio del “Messaggero di sant’Antonio”. Sulla conciliazione famiglia-lavoro anch’io avrei da dire la mia. Ero impiegata con soddisfazione in un’azienda, ma dopo che al mio secondo figlio è stata fatta la diagnosi, lunga e difficile, di autismo, ho dovuto lasciare non solo il lavoro, ma anche qualsiasi tipo di interesse personale o attività. Negli anni, con tanti sacrifici, la situazione di mio figlio è un po’ migliorata, ma le sembra giusto che le famiglie con un figlio autistico vengano lasciate sole?».
Anna
 
Cara Anna, non posso che accogliere il suo sfogo e la sua amarezza. Anch’io penso che non si faccia abbastanza per sostenere le famiglie con persone disabili. Due ricerche appena pubblicate relative a pazienti con autismo o sclerosi multipla, realizzate dal Censis per la Fondazione Cesare Serono, le danno pienamente ragione. I dati confermano che le famiglie sono lasciate sole nell’assistenza di persone disabili, a fronte di un sistema di servizi spesso inadeguato: il 38,1 per cento degli intervistati dice di aver ricevuto assistenza tutti i giorni da familiari conviventi; il 15,3 per cento riceve l’aiuto di personale pubblico; il volontariato entra in campo solo nell’8,4 per cento dei casi. Anche l’abbandono della sua attività professionale trova conferma nella stessa ricerca, nella quale si rileva come circa la metà delle madri di persone con autismo ha dovuto lasciare il lavoro o ridurre l’orario. Non posso che auspicare che la disabilità smetta di essere un problema troppo poco visibile nell’agenda istituzionale e che vengano potenziati tutti quei servizi importanti come l’assistenza domiciliare, gli aiuti economici alle famiglie e gli sgravi fiscali. A lei voglio anche dire, però, che ammiro la sua dedizione: abbia fiducia, l’amore che porta a suo figlio è della stoffa dell’amore che fa fiorire la vita, propria e altrui.


Lettera del mese. Cristo sì, Chiesa sì
 
Non si separa Cristo dalla Chiesa, e viceversa
 
Due tendenze oggi sono in voga, quella che seppellisce una volta per tutte la figura di Gesù nel passato, e quella che trancia ogni legame tra Gesù e la sua Chiesa.
 
«Sono un cristiano perplesso, per il semplice motivo che il gran parlare che si fa della Chiesa (da parte dei mass media ma anche in certi ambiti della Chiesa stessa) ha quasi oscurato il discorso su Gesù Cristo. Ma non siamo cristiani perché seguaci di Gesù? Nella Chiesa, certo, ma in una Chiesa che punta tutto su di Lui e che sempre ci ricorda lo stretto legame che ognuno di noi ha col suo Salvatore. Sembra che, purtroppo, la Chiesa sia sempre sotto i riflettori, ma che questi non puntino mai su Gesù per illuminarlo e illuminarci».
Dario – Spoleto
 
Nel febbraio scorso, dal 9 all’11, si è svolto a Roma un Convegno internazionale – al quale ho avuto la fortuna di partecipare – dal titolo «Gesù nostro contemporaneo». Alcuni giorni prima il cardinal Ruini scriveva, in un’editoriale su «L’Osservatore Romano», che oggi «la tendenza a relegare Gesù nel passato si è diffusa fino a diventare per gran parte della cultura quasi un’evidenza». O Gesù non è esistito, si dice e si scrive, oppure se è esistito resta sigillato in un passato irraggiungibile, comunque incapace di influenzare il presente, mentre quello che ci mostra la Chiesa altro non sarebbe che un Gesù addomesticato, che essa si è costruita con le sue stesse mani e usa per i suoi fini di prestigio e potere. Negli ultimi anni, infatti, si è moltiplicata a dismisura – da Dan Brown, autore internazionale, ad Augias, per fare un nome italiano – una letteratura carente di fondamento storico ma con molta presa su chi non ha sufficiente spirito critico, secondo la quale la Chiesa sarebbe una spudorata falsificatrice se non occultatrice di documenti originari del cristianesimo (Vangeli apocrifi, ad esempio) perché non trapeli la verità, non si sa quale, che tutti dovrebbero conoscere. Fino a qualche tempo fa si usava dire Cristo sì, Chiesa no, poiché a fronte del rifiuto della Chiesa vi era un’opzione forte in favore di Cristo e del suo umanesimo. Nel senso che la figura del Nazareno destava interesse e anche molti non credenti ne facevano un termine di confronto, in genere accogliendone benevolmente almeno gli appelli di fondo in ordine alla giustizia nei rapporti sociali e all’amore reciproco. Oggi, invece, per i più l’espressione si è come azzerata – perdendo di tensione e quindi d’interesse – in Chiesa no, Cristo boh (non è ritenuto così interessante risalire alle radici della Chiesa, anche perché si tratterebbe di una mission impossible), oppure del tutto modificata e snaturata in Chiesa sì, Cristo no, posizione sostenuta da alcuni intellettuali (definiti anche atei devoti) che vedono la Chiesa come strumento di civiltà e depositaria di valori condivisibili.

Come vede, caro signor Dario, non credo che la Chiesa cerchi intenzionalmente di oscurare la figura di Cristo. C’è chi si interessa alla Chiesa senza interessarsi a Cristo, così come c’è chi si interessa a un Cristo che non ha nulla a che fare con la Chiesa, anche perché la Chiesa lo avrebbe travisato e dunque tradito. C’è poi una quota di persone, ma non nella misura di venti o trent’anni fa, che ammirano Gesù (la sua umanità singolare e straordinaria) disdegnando la Chiesa. Dal punto di vista della fede, come lei sa bene, è impossibile disgiungere Gesù dalla sua comunità, appunto la Chiesa, perché questa è la realtà che ne visibilizza la presenza nel mondo. La comunità di fratelli e sorelle riuniti in nome di Cristo intorno ai legittimi pastori sono come il «campo base» per l’azione di Dio nel mondo. Non che lo Spirito del Risorto non possa raggiungere luoghi o situazioni a prescindere dalla Chiesa, ma la via normale della sua irradiazione rimane la comunità cristiana. Compito della Chiesa, quindi, è di non opacizzare il volto luminoso del Salvatore e di renderlo presente a ogni uomo perché possa dire Cristo sì, Chiesa sì, o viceversa.
 
Lettere al direttore, scrivere a: redazione@santantonio.org

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017