Fuga dai centri storici

I negozi chiudono e gli abitanti scappano: l’esodo dai nuclei urbani italiani si fa sempre più preoccupante. Colpa della crisi economica, ma anche di una mentalità che ha decretato il successo di uno stile di vita sempre più individualista.
24 Febbraio 2012 | di

Serrande abbassate, strade deserte. L’impressione è che da un momento all’altro anche i lampioni si spengano all’improvviso, lasciando i malcapitati passanti smarriti, a vagare per le vie un tempo popolate da boutique e negozi. Non siamo in una delle città fantasma che tanto sarebbero piaciute al genio del brivido Edgar Allan Poe, ma neppure nel regno della fantasia. Il modello «città degli spettri» è reale, e potrebbe a breve diventare lo specchio dei nostri centri storici: tra locali sfitti e negozi che falliscono, a guardare gli ultimi dati sull’attività commerciale dentro le mura di capoluoghi e cittadine italiane, non c’è, infatti, molto da stare allegri.
Qualche esempio? A Urbino la popolazione del centro storico è scesa dai 1.700 abitanti circa del ’91 fin sotto al migliaio; Venezia, che nei primi anni ’90 contava oltre 78 mila abitanti, oggi ne ha appena 59 mila. Nel 1951 a Roma, dentro le mura aureliane, risiedevano 370 mila persone; oggi, nello stesso perimetro, gli abitanti non arrivano a 100 mila.
Che cosa è accaduto? Complici il caro affitti degli ultimi anni e i prezzi proibitivi praticati da botteghe e negozi di generi  alimentari, gli affezionati del centro storico hanno fatto le valigie, seguiti a ruota da negozianti e piccoli imprenditori. Stanchi di zone a traffico limitato, file ai parcheggi e lunghi tratti da percorrere a piedi per raggiungere l’uscio di casa o il negozio di fiducia, hanno ceduto alla tentazione di una vita apparentemente più facile. Colpa della crisi, dunque, ma non solo. Alla base della morte dei centri storici italiani, infatti, sta un radicale cambio di mentalità dei cittadini stessi. Affascinato dal mito americano della villetta a schiera, con tanto di giardinetto privato, ampio parcheggio e centro commerciale dietro l’angolo, il popolo dei centri città ha barattato le crepe sul soffitto dell’appartamento (spesso piccolo) dal sapore un po’ retrò con l’odore di vernice fresca, il prato verde plastica e una casa più spaziosa, ma che sembra fatta con lo stampino. Ha formattato la tradizione, sacrificandola per uno status symbol. Nel frattempo, a questa migrazione è corrisposto un calo dei prezzi intra moenia (cioè nei centri città) che ha attirato un gran numero di cittadini immigrati.

Una sorta di ghettizzazione al contrario, insomma, come spiega Pier Luigi Paolillo, professore ordinario di Urbanistica al Politecnico di Milano, che punta il dito contro l’impostazione conservazionista mantenuta, fino a vent’anni fa, dalle amministrazioni locali. «Troppi vincoli all’edilizia, conditi dalla scarsa capacità al riuso da parte delle imprese, hanno accelerato la morte dei centri storici. Ma ora non possiamo più insistere sul modello della “città diffusa” (area metropolitana che cresce in modo rapido e disordinato, ndr); dobbiamo tornare a riempire i nuclei urbani». Primo passo verso la riqualificazione del centro città, secondo Paolillo, è liberarsi dei legami con il passato, adeguando norme e scelte culturali ai nuovi modelli di vita: «Bisogna garantire un modello abitativo ampio, permettere interventi sostitutivi sul patrimonio architettonico-artistico. Le soffitte si devono poter allargare: basta trattare i travi storici come simulacri! Se non si possono ampliare, a che servono due sole stanze per una famiglia moderna?».
 
La città ideale
C’era una volta un sogno chiamato città ideale. Qualcuno lo teorizzò soltanto, qualcun altro – come l’Anonimo fiorentino, autore della tavola di fine ’400 conservata alla Galleria nazionale delle Marche a Urbino – lo dipinse pure. Una piazza rotonda e tutt’intorno edifici pubblici e privati mai più alti di tre piani. Un gioco di luci e pastelli, tra geometrie, marmi e rimandi all’architettura romana, ma soprattutto un concetto monocentrico che ora vale la pena di riprendere per il bene dei nostri nuclei storici. Accantonata da tempo questa organizzazione classica a favore di una struttura urbanistica «a macchia di leopardo», «si tratta oggi – scrive Cesare Macchi Cassia nel libro Centri storici e nuove centralità urbane (Alinea) – di leggere il rapporto tra materiali diversi, fra diverse realtà insediative e funzionali che nella città vengono a integrarsi in modo inedito (…). L’esistenza del centro contribuisce alla visione classica della città intesa come pregnante rappresentazione della società che la abita e la ridisegna». Il nucleo urbano, quindi, come punto di riferimento e di identificazione della società, va riadattato alle nuove esigenze dei suoi fruitori, tramite un progetto che chiama in causa non solo urbanisti e architetti, ma anche politici, commercianti e, non ultimi, gli abitanti. «Spetta al progetto dare senso al paesaggio e al patrimonio diffuso – continua Macchi Cassia – segnalare le diversità dalle identità locali».
Ricostituire un unico centro città non significa tuttavia dimenticare la periferia urbana, bensì ripartire proprio da questa per favorire il rientro della popolazione tra le mura storiche. «Il centro è definito dalla presenza di una periferia – scrive ancora l’architetto, che fa parte del Consiglio direttivo dell’Associazione nazionale per i centri storico-artistici –. A Milano, ad esempio, il centro ha cessato di rappresentare gli abitanti e gli operatori, mentre sono le continue prese di significato da parte della periferia a testimoniare un nuovo salto qualitativo nella storia della città. La periferia è la verifica della vitalità della città».
 
Il modello «spalmato»
Parafrasando un concetto di Pier Paolo Pasolini, potremmo affermare che oggi il «vampiro del consumismo» ha toccato anche i modi dell’abitare e del vivere, ha corrotto l’anima delle classi subalterne in una forsennata ricerca di benessere e di un luogo abitato da omologhi sociali. Ora più che mai l’eterogeneità fa paura. Ne è convinto Giovanni Pieretti, direttore del dipartimento di Sociologia Achille Ardigò dell’Università di Bologna, per il quale l’equazione sprawl (in italiano, «città diffusa», ndr) uguale isolamento sociale è un dato di fatto. «I centri storici? Ormai sono zone morte», assicura il docente. Per toccarlo con mano non serve andare lontano. «A Bologna, dove abito, si contano oggi 22 mila appartamenti vuoti tra centro e prima periferia. Nel giro di una quarantina di anni oltre 370 mila persone hanno lasciato il nucleo urbano per mettere su casa nell’area agricola a nord della città». Convinti di risparmiare sull’affitto o sul mutuo, di migliorare il proprio tenore di vita e, infine, di dare una mano all’ambiente (alzi la mano chi ha ben chiaro il concetto di «casa ecostenibile»), questi «migranti» non sanno invece che il modello «villettopoli», così come lo ha definito l’urbanista Pier Luigi Cervellati, richiede ben più risorse e sacrifici. «Almeno due automobili, litri e litri di carburante e una vita all’insegna dell’individualismo. Tra navigatori satellitari, computer e televisioni, oggi la tendenza è di isolarsi dalla società», continua Pieretti. La fuga dalla città (e a volte dalla realtà), rappresenta dunque un modo per emanciparsi dalla propria condizione e prendere le distanze da quel melting pot, quella mescolanza di culture e classi sociali, che si è creata in molti centri urbani piccoli o grandi.

Ma, in fondo, come insegna il filosofo greco Aristotele (IV secolo a.C.) nella sua Politica, «l’uomo è un animale sociale» e per natura ha bisogno di punti di riferimento che la «città spalmata» non può offrirgli. «Per questo li va a cercare nei luoghi d’origine, dove in genere ritorna a compiere i riti importanti della vita – aggiunge Giovanni Pieretti –. Battesimo, matrimonio e sepoltura di un familiare in primis». Ecco dunque una breccia che renderebbe l’inattaccabile modello urbano «spalmato» non così tanto inattaccabile. Negli Stati Uniti d’altra parte, dove il modello sprawl è arrivato ben prima che da noi, la «città diffusa» è già in crisi.
E in Italia che cosa accadrà? Per Pieretti è questione di anni – dieci, o anche meno – prima che outlet e centri commerciali perdano mordente e che i nuclei storici comincino a ripopolarsi. Merito, quindi, della crisi che «costringerà a tornare coi piedi per terra e a riscoprire i valori appannati dalla cultura consumistica. Sarà un ritorno all’essenzialità e al concetto cristiano di redistribuzione – conclude il sociologo bolognese –, un ritorno al fare comunità, nella convinzione che, armati di orgoglio e risorse sociali, ce la possiamo fare anche con molto meno».
 
 
Zoom
Serravalle, trionfo dell’artificiale
 
Il paragone «come un’oasi nel deserto» non potrebbe essere più azzeccato. Il deserto in questione è quello della crisi economica che ha messo in ginocchio i negozianti di tutta Italia. L’oasi, invece, si chiama Serravalle Designer outlet village e, di tutti i centri commerciali che negli ultimi decenni hanno tappezzato il Paese, è un po’ l’ape regina. Per raggiungerlo non servono estenuanti giorni di carovana sul dorso di un cammello: basta salire in auto e imboccare l’A7 che collega Milano a Genova. Piena espressione del consumismo contemporaneo, questo villaggio dello shopping nato nel 2000 ad appena un paio di chilometri dal paese di Serravalle Scrivia, in provincia di Alessandria, dista un’ora di auto da Milano e Torino, e ancora meno da Genova e Portofino. In dodici anni di attività ha fatto parlare molto di sé; l’ultima volta, lo scorso 5 gennaio in occasione dell’apertura dei saldi. «Al bollettino autostradale in radio non segnalavano alcuna irregolarità – ricorda Luciano Camera, responsabile del servizio Pianificazione territoriale del Comune di Serravalle Scrivia – unica eccezione in tutta la Pianura padana era il casello di Serravalle, già assediato dai visitatori dell’outlet (l’80 per cento milanesi, ma anche veneti, piemontesi e stranieri)
fin dalle prime luci del mattino». Quello di Serravalle è un caso a sé, perché qui il villaggio dello shopping – con gli edifici fatti in serie e colorati come in un plastico dei celebri mattoncini per i piccoli – più che competere col centro storico, l’ha in pratica sostituito. Non che sia una grave perdita. Almeno a detta del funzionario comunale, che descrive così quel che resta del paese storico: «Un budello lungo appena 250 metri, chiuso da un lato da una montagna e dall’altro dal fiume Scrivia, e tagliato a metà da una strada statale larga quattro metri e mezzo. Un centro formato da poche case e tre negozi che non è neppure degno di essere chiamato tale». In questo scenario la nascita del Designer outlet rappresenta una valvola di sfogo sia in termini commerciali che di vivibilità. Quando le principali aziende dolciarie e meccaniche della zona chiudevano i battenti, questo villaggio dello shopping è riuscito a sviluppare un vero e proprio business che oggi dà lavoro a 2.500 persone e attira fino a 5 milioni di visitatori ogni anno. Il tutto su una superficie di circa 80 mila metri quadri, uno spazio grande tre volte il paese da cui prende il nome. Non a caso il Serravalle 2 – come lo chiamano i 6 mila abitanti di quarantacinque diverse etnie che ci gravitano intorno – è tra i più grandi parchi commerciali d’Italia. Un primato che non sembra minacciato dalle previsioni dei sociologi, secondo cui l’era dei centri commerciali sarebbe giunta ormai al capolinea. «Quella del Designer outlet di Serravalle è una realtà in espansione – conclude Luciano Camera –. Finché gli incassi aumentano e c’è la fila di negozi che vogliono aprire, perché mai dovremmo preoccuparci del “dopo outlet”?».
 
 
Zoom
Bastia Umbra, commercianti in rete
 
Conoscere il nemico è il primo passo per sconfiggerlo. Ai negozianti di Bastia Umbra, in provincia di Perugia, non è servito saccheggiare il repertorio di aforismi cinesi per capire come affrontare l’avanzata di supermercati e centri commerciali. Alla domanda «che cos’hanno loro più di noi?» è seguita una controffensiva mirata a potenziare le strategie di comunicazione. Perché sono state proprio queste ultime, secondo il presidente del Consorzio Bastia city mall, Marco Caccinelli, a decretare il successo della grande distribuzione organizzata. Tutto ebbe inizio nel settembre del 1997, quando l’Umbria venne colpita dal terremoto che mise a dura prova l’economia regionale. Fu tuttavia una seconda catastrofe, non naturale bensì commerciale, a scuotere, un mese dopo, la cittadina di Bastia. «In ottobre aprì il primo centro commerciale del comune di Perugia – ricorda Caccinelli –. Un colosso di 27 mila metri quadri che distava solo cinque chilometri dal nostro paese». Trovatisi a fronteggiare un concorrente sconosciuto, i commercianti del centro di Bastia decisero di «fare rete» e, in 107 soci, costituirono un Consorzio. Da allora, con alti e bassi, questi imprenditori – oggi rimasti in 39 titolari di 48 negozi tra boutique, alimentari, erboristerie e bar – proseguono la battaglia per mantenere vivo il loro nucleo urbano. Lo fanno organizzando promozioni, curando la pubblicità e pianificando eventi in collaborazione col Comune. Un esempio? «La rivitalizzazione di fiere quasi dimenticate, come quella di Primavera o quella in onore di San Michele Arcangelo, a ottobre – elenca il presidente di Bastia city mall –. E poi c’è la notte bianca: lo scorso luglio i negozi del centro sono rimasti aperti fino a tardi, accompagnati da spettacoli lungo le strade e momenti di intrattenimento musicale. Risultato: in poche ore le 200 attività commerciali sparse per il paese hanno incassato 700 mila euro». Segno che per muovere i soldi basta muovere la gente. Solo lavorando sulla mentalità di ogni cittadino è possibile sconfiggere quel modello commerciale che ci rende simili a sardine in scatola. «Reso accattivante da precise regole espositive, nei centri commerciali artificiali il prodotto entra nel carrello quasi da sé – continua Caccinelli –. Così spesso si esce dal supermercato col portafoglio vuoto e la borsa piena di prodotti inutili. E col risultato che il giorno dopo siamo di nuovo a fare la spesa, questa volta, però, dal salumiere sotto casa». In tal senso, dunque, il ritorno a un commercio al dettaglio sembra inevitabile. A maggior ragione se si considerano gli ultimi dati relativi al fatturato 2011 nei centri commerciali italiani: «In un anno il fatturato relativo al comparto alimentare è calato del 6 per cento – spiega Maddalena Panu, presidente della Commissione consultiva research del Consiglio nazionale dei centri commerciali (Cncc) –. Quanto alle restanti categorie merceologiche, la perdita si è fermata al 3,9 per cento».
 
 
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017