Economia e logica del dono
La fede cristiana, e prima ancora quella ebraica, è la fede in un Dio che si è coinvolto con la famiglia umana. Un Dio che, per amore, è entrato nella storia, cioè nella vita quotidiana dell’uomo di ogni tempo. Noi a volte rischiamo di dimenticarcene; ma, perdendo questo «fondamentale» della nostra fede, perdiamo la sostanza del fatto cristiano come tale. In forza della fede, il cristiano è l’esatto contrario di un uomo fuori dalla realtà, come spesso viene dipinto. Egli sa con certezza che tutto dell’umano da Gesù è stato assunto per essere salvato, perfino il peccato. Perciò l’uomo che appartiene a Cristo sta davanti a tutto senza paura, e ha il coraggio della verità. Pensiamo, per esempio, al travaglio della crisi che colpisce tutti, a livello mondiale, e pesa soprattutto sulle spalle dei più deboli. La sua natura non è solo economica. È prima di tutto «antropologica».
All’origine c’è un uomo ridotto alla dimensione di individuo isolato, come se l’io non fosse sempre – come invece è – in relazione. Trascurare le relazioni esasperando l’individuo, così come schiacciare l’uomo nel ruolo di puro consumatore, allontana dalla realtà e fa sì che si costruiscano castelli di sabbia (penso alla speculazione finanziaria) inesorabilmente destinati a crollare perché senza fondamenta.
Oppure limitarsi a parlare dei bisogni dell’uomo senza dilatare il bisogno fino al desiderio significa, alla lunga, spegnere le energie degli esseri umani. Perché noi, pur avendo in comune con gli animali i bisogni primari che ci permettono di sopravvivere, non possiamo affrontarli come loro. Avendo il bisogno di mangiare, abbiamo inventato l’arte culinaria; avendo il bisogno di ripararci, abbiamo inventato l’architettura. Il bisogno nell’uomo non domanda una pura, meccanica soddisfazione. È connesso al desiderio, esaltando la libertà e la creatività. Secoli di storia cristiana – da san Filippo Neri a san Giovanni Bosco, dall’Hospitale del Medioevo fino all’Unitalsi all’inizio del secolo scorso, dalle Società di mutuo soccorso all’Università Cattolica… – documentano una straordinaria ricchezza di opere che vanno in questa direzione. Per uscire dalla crisi, sostiene il Papa nella Caritas in veritate, occorre allargare la ragione economica ed entrare con coraggio nella logica del dono, nel principio di gratuità. Non però come un’azione «cosmetica», come se si trattasse di migliorare con un po’ di belletto il volto di una vecchia signora, attenuando con una certa dose di etica la brutalità della logica del profitto. «Mentre ieri – afferma Benedetto XVI – si poteva ritenere che per prima occorreva perseguire la giustizia e che la gratuità intervenisse dopo come un complemento, oggi bisogna dire che senza la gratuità non si riesce a realizzare nemmeno la giustizia» (Caritas in veritate, 38).
Per capire il significato della gratuità, senza ridurla in senso «buonistico» a un «fare gratis», vi propongo un passaggio dello scrittore Charles Péguy che mi è capitato tra le mani recentemente: «Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore assoluto, come si addice a un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale, era inteso. Era un primato. Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli imprenditori, né per i clienti del padrone. Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto» (Charles Péguy, Il denaro). Gratuita è un’azione che non è subito incanalata nella strettoia dell’utile, dell’interesse o dello scambio, ma che in sé e per sé respira nell’orizzonte infinito del vero, del bene e del bello. Il dono del Risorto ha reso la gratuità accessibile ai suoi e, attraverso la loro testimonianza, a tutti gli uomini.