L'intervista. Mariapia Veladiano
Basta il pianto di un bambino a far crollare un castello di certezze. A svelare un mondo di dolore. A infrangere la campana di illusioni e silenzi dentro la quale l’uomo è solito trincerarsi. «E scopri che sei sola, tu e il tuo male, tu contro il male». A quasi due anni dalla pubblicazione del suo romanzo d’esordio La vita accanto (vincitore del Premio Calvino nel 2010 e del Premio Cortina d’Ampezzo nel 2011; secondo al Premio Strega 2011), Mariapia Veladiano torna a parlare di fede e sofferenza con Il tempo è un Dio breve (in libreria dal 23 ottobre). Un omaggio alla vita e a ciò che di divino c’è in essa, il tempo. Per la scrittrice vicentina – 52enne laureata in filosofia e teologia, dirigente di un istituto comprensivo di Rovereto, nonché editorialista di varie testate nazionali –, il tempo è un bene che non va sprecato né intaccato dalla paura, ma conquistato e difeso giorno dopo giorno.
A imparare la lezione sarà la protagonista del romanzo che, guarda caso, porta il nome di una santa patrona delle battaglie. Per Ildegarda, la strana dermatite del figlio Tommaso è l’inizio di un viaggio interiore alle radici del dolore. In bilico tra la frustrazione per l’abbandono del marito Pierre e l’impotenza di fronte a un Dio che sembra non curarsi dei patimenti del mondo, la donna compie un percorso di fede verticale che dalla pianura lombarda, palude dell’anima, la porterà alla montagna altoatesina, luogo incontaminato dove il dialogo con l’assoluto prende forma. Tra flashback e colpi di scena narrati con uno stile raffinato e preciso, la protagonista imparerà che «morire per Dio è facile, vivere per Dio può essere infinitamente più difficile».
Msa. Il rapporto tra fede e corpo è una costante nei suoi romanzi. In che modo questi due aspetti sono collegati?
Veladiano. Il corpo è coinvolto nella nostra fede come nell’amore, nell’amicizia, in ogni sentimento e in ogni movimento della nostra vita affettiva e spirituale. I mistici conoscono bene il ruolo del corpo e le religioni in generale accompagnano preghiera e celebrazioni con movimenti che non sono rito, ma sostanza. Non può che essere così: si commuove il corpo, prima del nostro spirito. La fede ci prende interamente, come capita in ogni rapporto vero. Ci fa alzare, muovere verso l’altro, ci fa sentire leggeri di una compagnia sentita, più forti di una forza che ci viene data.
Che cosa significa per lei la parola «fede»?
Vivere accompagnati da una promessa, e cioè che il male non è mai l’ultima parola. Un qualcosa di immenso. Del resto, per me la fede è proprio questo.
Quanto c’è di autobiografico nella sua ultima opera Il tempo è un Dio breve?
Nella storia pochissimo: gli studi teologici della protagonista, un figlio, l’amore assoluto per la montagna. Dalle pagine emerge, però, un’autobiografia dei sentimenti. Le domande che la protagonista rivolge a Dio sono le mie, ma anche quelle che tanti altri si pongono. Quanto alle risposte – o non risposte –, forse sono la parte più personale di tutto il romanzo.
Da che cosa nasce la scelta del nome Ildegarda per la protagonista?
Nel libro si giustifica attraverso la storia della madre, che è erborista. Il nome è ispirato a Hildegard von Bingen (proclamata dottore della Chiesa lo scorso 7 ottobre, ndr), una santa straordinaria, donna coltissima, combattente, figura di suprema libertà dell’interrogare e del dire. Senza contare il suo legame con la natura, le erbe, dono di Dio e cura per il corpo.
Nel libro ricorre spesso il tema della passione per le piante di Ildegarda. Rinsecchite o dall’aspetto trasandato, esse sembrano quasi riflettere l’atmosfera respirata dai personaggi…
Le piante fanno un po’ da specchio ai movimenti dello spirito. Sono anche un tramite d’affetto tra personaggi la cui relazione ha un necessario profilo di riservatezza (si pensi a Ildegarda e al direttore del giornale dove lavora). Del resto, a molti capita di far fiorire o lasciar morire le piante a seconda dei periodi della propria vita.
Perché ha scelto la pianura lombarda e le montagne altoatesine come teatri dei fatti?
Sono luoghi che conosco e, come tali, ho potuto parlarne più facilmente. In particolare, la montagna altissima, coperta di neve, solitaria, silenziosa – proprio come quella del libro – è un ambiente che io adoro. Credo che sia più facile amare quando si è circondati dalla bellezza di un simile paesaggio.
Nella frase «Quanto amore serve a salvare un amore» è racchiuso un po’ tutto il focus del libro. Ma può davvero l’amore salvare l’amore?
Sì. È la nostra speranza di cristiani e, quindi, è la speranza di ogni uomo. La promessa del Vangelo è che l’amore salva il nostro desiderio di amore, spesso ferito, segnato dal lutto o dal nonsenso. Che significato mai può avere il dolore bambino? Nessuno, e se lo cerchiamo si finisce con il dire cose tremende che offendono chi vive questo dolore. Ma c’è una promessa nel Vangelo: che il dolore e la morte non sono l’ultima parola.
Nel suo continuo tentativo di dialogare con Dio, Ildegarda constata che il Signore ci risponde solo attraverso i sogni. In che senso?
Credo che il sogno spesso liberi il nostro desiderio, lo stesso tramite cui Dio ci parla. Il desiderio è la nostra forza più grande, è ciò che ci muove a fare, a lottare con forze che a volte non sappiamo nemmeno di avere in noi. Perché Dio non dovrebbe parlare attraverso i nostri desideri?
Quale ruolo assume la preghiera in questo viaggio alla ricerca dell’assoluto?
La preghiera è lo spazio del nostro rapporto con Dio. Il ritrovarsi quotidiano, ogni momento possibile. Un cercarsi di amanti. E un portare nell’incontro tutta la nostra vita.
Nel libro Ildegarda si rivolge al figlio con la frase: «Io so che c’è il male, ma ti ho messo al mondo lo stesso». Quella di essere genitore, dunque, è una scelta coraggiosa?
Sì, credo di sì. È una scelta che ci spoglia, ci mette di fronte a ciò in cui crediamo veramente. Crediamo oppure no nella vita? Crediamo nel futuro? Abbiamo una visione di questo futuro da offrire ai nostri figli? Con grande consapevolezza si dovrebbe desiderare di avere un figlio. Ma senza paura. Del resto si è in due: e insieme la paura fa meno paura.
Che cos’è per lei la paura?
L’essenza della paura è la solitudine. Da soli tutto spaventa, quando si è insieme anche le esperienze più tremende possono essere affrontate. «Insieme è nulla la paura» si dice nel libro. È un’iperbole, un’esagerazione, che vale solo nel rapporto d’amore più profondo. Ma in misura diversa è sempre un po’ così.
La «forza» di cui si parla nel libro è la capacità di resistere o quella di imparare ad arrendersi all’inevitabile?
Resistere è una bellissima parola. Significa sentire ciò che ci trascina, non chiudere gli occhi e non cedere, ma anzi desiderare di combattere, perché c’è un valore bello da difendere, un amore. Può capitare che resistere indichi la capacità di assecondare quel che non possiamo evitare, scegliere di non estenuare la vita in una lotta già persa. Ma rimane comunque la parola giusta.
Che importanza ha avuto la sua formazione teologica nella stesura di questo romanzo?
Strutturato così, come un dialogo tra persone di fede e un dialogo con Dio, è un libro nato anche dagli studi di teologia, intesa come ricerca incessante di un incontro che altri hanno avuto, che noi abbiamo avuto e possiamo, misteriosamente, avere.
Così come La vita accanto, anche Il tempo è un Dio breve vanta una lunga gestazione. Come mai?
Ho sempre scritto molto: racconti, romanzi, diari di viaggio. Ma ho pubblicato solo le scritture che chiamo «di servizio», ovvero articoli per «Il Regno», una rivista di attualità religiosa e teologica, per la quale seguivo temi di confine: Chiesa e ambiente, teologia ed economia. Poi, molto tardi, ho sentito il desiderio di un ascolto anche per la scrittura narrativa. Il fatto di non aver fretta di pubblicare mi ha permesso un lungo lavoro sul suono delle parole, sulla relazione fra la storia e la parola. Ho scritto e riscritto decine di volte. Questo secondo romanzo è un lavoro di dodici anni.