Alex Zanardi. Un marziano in pista
«A io’ vèst un marziàn» («Mi è sembrato di vedere un marziano») è il commento in dialetto emiliano che il cantautore Andrea Mingardi fece lo scorso settembre, dopo aver visto l’amico Alessandro (Alex) Zanardi superare il traguardo a bordo della sua handbike e gettarsi a terra a baciare l’asfalto. L’occasione – le Paralimpiadi di Londra 2012 – è valsa allo sportivo, bolognese di nascita ma padovano d’adozione, due medaglie d’oro (nelle prove individuali) e una d’argento (nella staffetta). L’ennesimo successo di un campione che vanta un passato in Formula 1. Un patito di motori che a 14 anni si costruì il primo kart, a 25 debuttò nel Gran premio di Spagna e che ora, a 46 anni suonati e a undici dall’incidente in pista che gli portò via le gambe, prosegue la sua carriera sportiva – in sella a una bicicletta speciale – con più entusiasmo di prima. L’abbiamo incontrato nella sua casa padovana: una «tana del lupo» al limite della campagna, lontana dalle piste di gara e dallo studio televisivo dove conduce il programma Sfide (su Raitre).
In questa abitazione ampia e luminosa lo sportivo vive la «normalità» quotidiana in compagnia della moglie Daniela, del figlio Niccolò e del suo «bodyguard (guardia del corpo, ndr) col pelo» Billo, un pastore tedesco che riesce ad aprire le porte appoggiandosi alle maniglie. Se questa è la dimora di un campione, quel cagnone gli fa buona compagnia. «Andiamo a parlare in cucina? È più familiare» chiosa Alex, prima di abbandonarsi ai ricordi. Benvenuti a casa Zanardi, benvenuti nel regno della semplicità.
Msa. Durante l’ultima maratona di Venezia, giunto primo a pochi metri dall’arrivo, lei si è fermato per spingere un compagno di gara. Gesto eroico o puro protagonismo?
Zanardi. Scendere dalla bicicletta mi sembrava la cosa più normale da fare in quel momento. Soprattutto considerando che, insieme con Eric Fontanari (l’atleta tetraplegico che ha partecipato alla competizione veneziana lo scorso ottobre, ndr), avevamo condotto una gara eroica, sfidando le intemperie – la pioggia, l’acqua alta, la bora –, trovando ogni sorta d’espediente per arrivare al traguardo. Fin lì c’eravamo divertiti molto e, proprio quando tutto sembrava finire, ho teso la mano a chi mi era stato a fianco fino a qualche chilometro prima.
Nella sua carriera ha mai progettato il ritiro, per paura di rovinarsi l’immagine?
Se sei diventato campione del mondo, non puoi averlo fatto solo per mera ambizione. Al di là dell’aspetto narcisistico, ciò che ti guida è la passione. Privarsi della cosa che ami fare, soltanto perché vuoi lasciare un buon ricordo negli altri, credo sia la cosa più stupida del mondo. Il piacere della vittoria è solo un valore aggiunto nella vita.
Un giorno lei disse: «Ci si può drogare di cose buone. E una di queste è certamente lo sport». Che cosa intendeva?
La vita è un’opportunità unica. A quanti chiedono chi me l’ha fatto fare di tornare a correre, dopo quel che ho passato, rispondo: «Perché non avrei dovuto? Se c’è una cosa che può essere fatta e desidero farla, perché non provarci?».
Questo non significa voler sfidare nuovamente la sorte?
Il solo fatto di vivere implica inevitabili rischi, così come anche qualche piacevole sorpresa. Quel che è certo è che chi si nasconde sotto una campana di vetro, smette di esistere a priori. Fin dall’inizio ho affrontato la mia disavventura come una cosa che può capitare nel mestiere del pilota automobilistico. Anche se, in realtà, in un incidente durante una gara automobilistica è più facile morire o restare illesi. Ma la vita non è solo tecnica, e l’imprevisto può sempre verificarsi. Se poi hai la fortuna di essere ancora qui a raccontarlo, e di riuscire a fare le stesse cose che prima ti rendevano felice, ecco che la vita torna a essere eccitante.
Come ha affrontato la sua sfortuna?
Da principio l’aver perso le gambe mi sembrò la tragedia più grande. Eppure, prima dell’incidente vivevo un’altra situazione altrettanto paradossale. Ero stato un vincente, poi avevo rovinato tutto con l’infelice esperienza del ’99 in Formula 1. Dopo un anno sabbatico frustrante, accecato dalla voglia di rivincita, ero tornato in pista proprio nel campionato (la Formula 3, ndr) in cui avevo raccolto i maggiori successi. Lo avevo fatto, tuttavia, senza reali convinzioni, pensando che tornare indietro avrebbe rimesso a posto le cose. Quella stagione non andò bene. Pensai che nessuno più mi avrebbe offerto altre chance. Forse mi sarei trasformato in un arrabbiato cronico con la vita, molto di più di quanto possa essere una persona che ha perso l’uso delle gambe.
Non tutto il male dunque è venuto per nuocere?
Non penso che il mio incidente rientri in un disegno divino. Sono stato otto giorni in coma e non ho visto nessun tunnel illuminato. Ho riaperto gli occhi e ne sono felice, perché un momento di profonda difficoltà è diventato una delle opportunità più grandi della mia esistenza. Oggi ho una vita migliore di quella che conducevo undici anni fa, prima dell’incidente.
Che rapporto ha Alex Zanardi con la morte?
Quando avevo 20 anni la vita mi sembrava quasi statica. Ma ora che sono a un giro di boa, la vedo scivolare via. E spero che la morte arrivi il più tardi possibile.
Che cosa le manca di più della sua vita da normodotato?
Giocare con mio figlio, caricarmelo sulle spalle, come facevo quando avevo le gambe. Mi manca moltissimo anche il poter camminare a piedi nudi sull’erba del mio giardino o sul pavimento in legno caldo della mia barca. Anche se non poso più i piedi per terra, comunque, mi ritengo una persona che ha avuto molto dalla vita. Quanto alla mia famiglia, certo, tecnicamente molte dinamiche sono cambiate. Ma ci si abitua a tutto. E la mia, oggi, è una casa più che normale.
In passato, riferendosi al suo matrimonio, lei ha precisato: «Mia moglie ha il cervello, mentre io ho solo le gambe». Una battuta o la realtà?
Assolutamente la realtà. Basti pensare a quando mio figlio Niccolò, alla domanda «che lavoro fa tuo padre?», rispose: «I lavoretti di casa». Ai suoi occhi, ho sempre affrontato il mestiere dello sportivo con passione tale da farlo sembrare un divertimento. Secondo lui, il mio vero lavoro consisteva nell’attaccare i quadri e nell’aggiustare i rubinetti. E, d’altra parte, come dargli torto? Se teniamo presente la definizione classica di «lavoro», allora posso confermare di non aver mai lavorato davvero.
Se la sente di fare un bilancio della sua vita?
Tutto si riassume nella frase che mi ripetevo ogni volta che salivo sul podio, pensando al paesino in provincia di Bologna da dov’ero partito: «...però, Zanardi da Castel Maggiore!» (questo è anche il titolo dell’autobiografia pubblicata nel 2003, con Dalai Editore, ndr). Padre idraulico, madre casalinga, che per arrotondare faceva la sarta, la mia era una famiglia normalissima. Nonostante gli sforzi e i sacrifici fatti, oggi mi sento felice e fortunato. So di aver avuto possibilità che ad altri non sono state concesse, ma al contempo sono conscio di essermele giocate al meglio.
Che ruolo ha avuto papà Zanardi nelle sue scelte?
Mi ha sempre spinto a tentare, ragionando però sui problemi e provando a risolverli. Papà diceva che, se il risultato raggiunto non era quello che mi aspettavo, da lì sarei potuto ripartire il giorno successivo. Un passo dopo l’altro, fino a sfondare.
Che cos’è per lei la felicità?
Ci sono due tipi di felicità. La prima porta un generale stato di benessere, ma non si percepisce più di tanto, e si può misurare solo quando i punti fermi su cui poggia vengono meno. La seconda è più inaspettata. Come quella che mi ha sorpreso all’ultima gara a cronometro H4 di Londra. Avevo progettato una performance diversa e vincere non era affatto scontato. Tagliato il traguardo, sono sceso dalla bicicletta e ho baciato l’asfalto. In quel momento intenso, di grande solitudine, mi è ripassata davanti tutta la vita.
Può descrivere una sua giornata tipo felice?
Mi sveglio quando voglio. Faccio colazione con mia moglie e mio figlio. Passo la mattina a giocherellare con Niccolò e Billo. Pranzo in famiglia, nella casa bolognese, in quella toscana o qui a Padova. E se poi al pomeriggio trasmettono in tv il campionato di Formula 1, allora la giornata è proprio perfetta.
Tempo fa, a proposito della sua partecipazione alle Paralimpiadi di Londra 2012, lei disse: «Sono eccitato da questa esperienza. Sento però un po’ di nostalgia, perché questa è la fine di un’avventura». Significa che lascerà lo sport?
Assolutamente no. Significa che quella avventura si è conclusa. Quando, alla fine del 2009, dissi basta all’automobilismo, per dedicarmi alla bici e alle Paralimpiadi del 2012, fu subito una questione tecnica: «Posso davvero farcela nelle mie condizioni?», mi chiesi. Venendo al futuro, non so ancora bene che cosa mi aspetta. Per ora guardo alle medaglie calde nel cassetto come a una tappa del mio percorso, non certo a una fine. Ci saranno nuovi progetti, molto probabilmente anche nell’ambito dell’handbike. Intanto mi alleno per le Paralimpiadi di Rio del 2016.
Gare a parte, dal 2010 lei è anche conduttore televisivo (su Raitre con il programma scientifico E se domani, e oggi con la trasmissione sportiva Sfide). Che cosa l’ha convinta a intraprendere questo nuovo mestiere?
La passione. In passato mi avevano chiesto più volte di fare televisione, ma ho sempre rifiutato, perché credo non si debba agire solo per ricercare la popolarità. Diversa la questione se senti di poter dare del tuo meglio, perché il lavoro offerto ti diverte. In quel caso, forse, anche gli spettatori ti seguiranno volentieri. Per quanto mi riguarda, sono all’altezza del compito che mi viene affidato solo quando faccio con convinzione ciò che voglio fare.
Qual è la cosa che più la infastidisce?
Se pensi alle cose che t’infastidiscono, vivi male.
E quella che invece la inorgoglisce?
Non tanto l’aver vinto tre medaglie, quanto piuttosto il ricordo di quel 7 settembre 2012, quando, subito dopo la seconda vittoria nell’individuale H4, telefonai a casa. Mio figlio Niccolò stava festeggiando i suoi 14 anni con gli amici. Non ebbi nemmeno il tempo di dire «pronto», che venni interrotto dal coro di tutti quei ragazzi che intonavano per me l’inno d’Italia. In quel momento le lacrime scesero dai miei occhi come per nessuna altra medaglia.
Qual è l’aspetto della celebrità che ama di più?
Quando mi fermano per strada e mi dicono: «Never give up» («Non mollare mai», ndr).
Che cosa significa per lei la parola «normalità»?
Non piangersi addosso. Sapere le cose e imparare a regolarsi di conseguenza.
E «disabilità»?
Dico sempre che sono un «disabile molto poco handicappato». La libertà sta proprio nel saper dipanare l’ignoranza di chi ti confina in certe categorie. E nella capacità di dosare l’ironia. Col mio amico e compagno di allenamenti Vittorio Podestà, ci prendiamo reciprocamente in giro con battute e scherzi di ogni sorta. Questa è la vera «normalità».
Jim Morrison disse: «Dopo la morte andremo in paradiso, perché all’inferno siamo già stati». Per lei questo è l’inferno?
Non lo so. Credo nell’esistenza del paradiso ma, se finissi lì, dovrei chiedere ogni tanto un’ora d’aria per fare un giro all’inferno. Con questa metafora intendo dire che la vita perfetta è un po’ di questo e di quello. Di alti e bassi.
Le ruote nel cuore
Alessandro (Alex) Zanardi nasce a Bologna nel 1966. Figlio di un idraulico e di una casalinga, sviluppa fin da piccolo l’amore per i motori. A 14 anni costruisce il suo primo kart e a 19 partecipa al Gran Premio di Hong Kong. Il suo esordio nella Formula 3 italiana, con una Dallara-Alfa Romeo, risale al 1988. L’anno dopo debutta in Formula 3000 e nel ’91 sostuisce Roberto Moreno per le ultime tre gare stagionali della Formula 1.
Da qui in poi partecipa a quarantuno Gran Premi di Formula 1. Nel 2001, a Lausitzring, Zanardi è vittima di un incidente che gli provoca l’amputazione delle gambe. Dopo una lunga convalescenza, nel 2007 esordisce come ciclista di handbike nella maratona di New York e ottiene il quarto posto, salvo poi, nel 2011, classificarsi primo. Lo scorso settembre, alle Paralimpiadi di Londra, ha ottenuto due medaglie d’oro e una d’argento. Dal 2010 Zanardi è anche conduttore televisivo: prima del programma di divulgazione scientifica E se domani, poi dell’analogo Sfide, su Raitre. Oggi vive con moglie e figlio nella cintura patavina.