Estate in giallo
Il giallo è di tendenza per l’estate 2013? Nella moda, forse; in letteratura, cinema e tv sicuramente sì. È sotto gli occhi di tutti il successo di cui godono polizieschi e thriller, noir e detective story. Dietro ciascuna di queste etichette si celano sfumature diverse, tutte riconducibili, però, anche per questione di comodità, all’unico filone della «narrativa d’indagine», perché si tratta di narrazioni che mirano a risolvere un enigma impenetrabile (almeno così all’inizio pare) che trova, all’apice di un crescendo di suspense, una qualche forma di scioglimento. Come mai questo schema piace così tanto? Perché incontra un tale favore di pubblico? Non bastano le disgrazie quotidiane e i tanti casi di cronaca nera? Da bravi investigatori, cerchiamo di rispondere raccogliendo alcuni indizi disseminati nella storia del genere. Ne parliamo in estate sia perché è un vecchio luogo comune associare «gialli» e «letture da spiaggia», sia perché, molto più prosaicamente, proprio il ritmo rallentato della stagione calda e la conseguente accresciuta disponibilità di tempo, possono aiutare ad accostarsi con più facilità ai libri.
Eppure sarebbe ingiusto liquidare la narrativa d’indagine come semplice lettura di alleggerimento o di serie B, solo perché popolare. «Troppi noir sono mediocri, ma lo sono anche troppi libri di qualunque genere, secondo gli stessi parametri» scriveva nel 1955 Raymond Chandler, papà del detective Philip Marlowe. Cinquant’anni dopo aggiorna il concetto l’inventore del commissario Montalbano, Andrea Camilleri: «Nato come genere di consumo, come buon compagno per prendere sonno o per un viaggio, il giallo ha trovato poi dei grandi autori che da paraletteratura l’hanno fatto diventare letteratura a pieno titolo».
In realtà, sono moltissimi gli autori per così dire «laureati» che si sono dedicati al poliziesco, con risultati di altissimo livello. Già l’esordio ufficiale del genere lo testimonia: fu lo statunitense Edgar Allan Poe, nel 1841 col suo I delitti della Rue Morgue, ad aprire la fortunata stagione dei detective letterari. Auguste Dupin, l’investigatore di Poe, risolverà utilizzando solo le sue capacità di osservazione e il metodo deduttivo anche Il mistero di Marie Roget (1843) e il caso descritto ne La lettera rubata (1845). Compaiono qui per la prima volta gli elementi tipici del racconto d’indagine: un delitto insolubile fa girare a vuoto gli inquirenti (e con essi il lettore) che finiscono per sospettare degli innocenti, finché l’eroe, lui e solo lui, non individua la soluzione. Come sostiene lo scrittore Gilbert K. Chesterton, «il giallo differisce da ogni altro racconto in questo: che il lettore è contento solo se si sente scemo». La spiegazione del mistero risulterà essere l’unica davvero logicamente possibile. Infatti il rigore è fondamentale: come abbiamo visto, gli esordi del genere si situano negli anni del positivismo, della fiducia che qualsiasi dubbio sarà scacciato e qualsiasi problema sarà risolto grazie alla luce garantita dalla ragione e dalla scienza.
Gli stessi elementi li ritroviamo anche di qua dell’oceano con lo Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle, il cui esordio avviene nel 1887 nel romanzo Uno studio in rosso. Il successo dell’investigatore londinese sarà tale che l’autore non riuscirà più a sbarazzarsi di lui, nemmeno facendolo precipitare, avvinghiato all’arcinemico Moriarty, nelle cascate del Reichenbach in Svizzera, come riferisce il racconto dall’esplicito titolo L’ultima avventura (1893). È la fine di Holmes? Nemmeno per sogno, perché le insistenze del pubblico fanno tornare sui suoi passi Conan Doyle, che continuerà a scrivere le gesta del suo personaggio più famoso ancora per trentacinque anni. Anche Agatha Christie si troverà pirandellianamente legata al di là della sua volontà ai suoi principali protagonisti. Ciò vale per Miss Marple: «Si intrufolò così silenziosamente nella mia vita – rivelò la scrittrice – che quasi non mi accorsi del suo arrivo», come pure per Hercule Poirot: «Se mi fossi resa conto che Poirot non mi avrebbe abbandonato per quasi cinquant’anni l’avrei creato più giovane. Ora è vecchio oltre il limite…».
Della regina del giallo vanno letti almeno i capolavori Assassinio sull’Orient-Express (1934) e Dieci piccoli indiani (1939), che sbarcò in Italia solo nel dopoguerra col titolo …E poi non rimase nessuno, pubblicato nella collana «Gialli Mondadori» rinata dopo il blocco decretato dalla censura fascista. Una bella fetta del successo delle indagini letterarie in Italia si deve proprio all’intuizione editoriale di Arnoldo Mondadori, tanto che la scelta del colore di copertina passerà direttamente a indicare il nome del genere: ne consegue che solo nel nostro Paese dire «giallo» significa dire «poliziesco». Attraverso i «Gialli Mondadori» sono passati il Nero Wolfe di Rex Stout, il Maigret di Georges Simenon, Ellery Queen, il Duca Lamberti di Giorgio Scerbanenco e molti altri.
L’esplosione contemporanea
Sempre nel dopoguerra, tra gli autori italiani di genere si distinguono alcuni grandi, quali Carlo Emilio Gadda con Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1946), Leonardo Sciascia con Il giorno della civetta (1961), Carlo Fruttero e Franco Lucentini con La donna della domenica (1972), Umberto Eco con Il nome della rosa (1980). A parte quest’ultimo, da ascrivere al filone del giallo storico, gli altri titoli sono tutti ambientati con rigore realistico, rispettivamente a Roma, in Sicilia e a Torino. Proseguendo in un’ideale mappa italiana del giallo, tra gli scrittori contemporanei da Nord a Sud troviamo Massimo Carlotto nel Nordest, Sandrone Dazieri, Hans Tuzzi, Piero Colaprico ed Elisabetta Bucciarelli a Milano, Alessandro Perissinotto a Torino, Carlo Lucarelli a Bologna, Marco Malvaldi a Pisa, Giancarlo De Cataldo a Roma, Diego De Silva a Napoli, Marcello Fois in Sardegna, Andrea Camilleri in Sicilia, Gianrico Carofiglio a Bari. L’ambientazione non è semplice curiosità: ogni lettore vorrebbe un detective (letterario) che venisse a indagare nella propria città, nel quartiere, quasi quasi nel proprio stesso condominio. L’inquirente scoprirebbe che il colpevole è il vicino di casa, o meglio, è il «talmente vicino» da essere il lettore stesso. È questo il colpo di scena conclusivo: il colpevole è dentro di noi tanto quanto lo è l’investigatore. Vorremmo a un tempo farla franca ed essere scoperti. Non stupisca il gioco delle parti, figlio del progressivo avvicinamento tra l’eroe buono e il cattivo, la cui differenza sta solo nella scelta di come rispondere ai medesimi problemi.
Pensate sia un tratto della postmodernità? Sicuramente, ma c’era chi lo aveva intuito ben prima. «Realmente mi son visto, ho visto me stesso, commettere gli omicidi. (...) Intendo dire che ho pensato e ripensato come un uomo possa diventare così, finché mi resi conto che ero simile a lui, in tutto, eccetto che nella volontà di compiere l’azione finale». A parlare così, già nel 1924, è il personaggio nato dal genio di Chesterton, ovvero padre Brown, il piccolo prete segugio esperto in «scienza dell’anima». È un triste contrappasso – l’avvicinamento è irriverente, perché non c’è paragone… – il fatto che al nome «Brown» nel mondo del giallo oggi venga piuttosto associato quello di Dan, l’autore statunitense ora nelle librerie con Inferno, l’ultimo thriller con il quale cerca di ripetere il successo commerciale de Il codice da Vinci usando gli stessi mezzi, ovvero pasticciando storia, letteratura e ragionevolezza pur di dare la colpa alla solita Chiesa cattolica.
Del resto, l’attacco alle istituzioni è uno dei tratti contemporanei «programmatici» del genere d’indagine. Lo spiega bene Alessandro Perissinotto, giallista e docente di Teorie e tecniche della comunicazione di massa all’Università di Torino. Nel volume La società dell’indagine, assegna al fenomeno poliziesco il compito di «rappresentare l’essere e le ansie del divenire di un universo, quello occidentale, che appare sempre più come una detective story globale dove il potere (economico, politico, religioso) è l’artefice delle trame criminose che il cittadino, nella sua veste di investigatore per caso e per forza, è chiamato a svelare». Così, argomenta Perissinotto, il giallo va a rispondere a uno dei «bisogni più assillanti nell’epoca post-moderna (e non solo): quello della verità». La verità «è l’autentico oggetto di valore del racconto». Quando, guidati dal narratore, la si raggiunge, sempre sorprende e sempre destabilizza. Il colpo di scena è a un tempo liberazione e sovvertimento, perché la verità è semplice, lineare, balza agli occhi una volta svelata. È aggregante: tutto torna, perché tutto si riorganizza attorno alla verità. Questo è l’epilogo «sano»; quello «insano» invece si chiama complottismo, e fa vedere cospirazioni dietro ogni angolo, con lo stesso atteggiamento che gli ipocondriaci riservano a qualsiasi possibile segnale di malattia. Sostiene ancora Perissinotto: «L’onnipresenza dell’ipotesi del complotto non è sintomo di una società paranoica, bensì di una società che ha perduto il valore della verità».
Sospetto e fiducia
La deriva «malata» ha contagiato lo stesso successo della narrativa d’indagine, la cui produzione libraria e televisiva, ingigantendosi, ha portato con sé inevitabili cadute di stile e banalizzazioni. «Davvero non sopporto più i libruncoli sugli psicopatici, che santificano criminali o disgraziati o serial killer» sbotta lo scrittore James Ellroy (suo, tra gli altri, L.A. Confidential, 1990) intervistato da «la Repubblica». «La qualità è calata anche perché c’è stata una sovraesposizione del genere» sostiene Paola Pioppi, ideatrice del festival La passione per il delitto, in programma a Lariofiere di Erba (Como) il prossimo 19 e 20 ottobre. Giunta alla dodicesima edizione, la kermesse lombarda è un buon osservatorio dello sviluppo del mercato editoriale del giallo. «Dopo il boom degli anni scorsi, siamo in un periodo meno frenetico per le nuove uscite. È solo un bene, perché si era arrivati a pubblicare davvero qualsiasi testo che avesse la patina del giallo». La «bolla» del poliziesco è quindi destinata a scoppiare? Forse sì, ma per ora la fiducia nel giallo sembra reggere. Di per sé è un paradosso, perché la narrativa d’indagine vive di sfiducia. In quanto specchio della società, nei gialli contemporanei troviamo tracce importanti dell’attuale disistima nei confronti delle istituzioni, ma anche del parallelo sospetto verso qualunque prossimo, mentre la fede nella razionalità illuministica era già stata definitivamente affossata da Friedrich Dürrenmatt con i suoi imprescindibili romanzi, da Il giudice e il suo boia (1950) a La promessa (1957).
Ciò nonostante, assistiamo oggi a un ritorno di fiamma nei confronti di scienza e tecnologia, specie nelle fiction televisive. Basti vedere la fortuna che incontrano le serie dedicate al lavoro della polizia scientifica (C.S.I., Bones, N.C.I.S., Cold Case, Law and Order, R.I.S., Crossing Jordan). La verità investigativa è il dono del nuovo deus ex machina, il manipolo di esperti che in laboratorio individuano il fatidico Dna del colpevole. Da parte del lettore/spettatore fidarsi così della tecnologia è semplicistico, ma rassicurante. «In generale è rassicurante leggere di una violenza artificiale» ci ha detto Gianrico Carofiglio, interpellato sul perché del successo del giallo. «L’elemento discriminante, a mio parere, è la suspense, quel meccanismo narrativo che costringe il lettore a girare la pagina, e che, se pure dovrebbe essere strutturale in ogni narrazione, è componente fondamentale dei racconti d’indagine. Vogliamo sapere cosa succede, scoprire come va a finire». Curiosità, passione, desiderio di scovare il colpevole ci appartengono di natura. Buona lettura, investigatori!
Generazione da brivido
di Luisa Santinello
Che ci fanno il mago del furto Arsenio Lupin e il maestro della deduzione Sherlock Holmes, ancora adolescenti, fianco a fianco per le vie di Londra?
Elementare: investigano su misteriose sparizioni, raccolgono indizi, fanno luce su furti e omicidi. A testimoniare le loro peripezie nella saga Sherlock, Lupin & io (Piemme) è una giovane Irene Adler, personaggio fittizio già abbozzato nel 1891 da Arthur Conan Doyle tra le pagine del racconto Uno scandalo in Boemia. Ma se la femme fatale nata dalla stessa penna che creò l’investigatore più famoso di Londra in realtà non è mai esistita, chi ha scritto a partire dal 2011 la simpatica serie per ragazzi? Un giallo nel giallo, un gioco di scatole cinesi che si esaurisce dietro uno pseudonimo: Irene Adler altri non è che lo scrittore piemontese Alessandro Gatti, uno dei tanti autori per ragazzi che negli ultimi tempi hanno rilanciato il gusto del brivido nella sua veste più tradizionale.
La scommessa è coraggiosa, perché si contrappone al successo planetario dei fantasy in stile Harry Potter e Twilight. Superati gli «incantesimi» di Joanne Kathleen Rowling (sette romanzi dedicati al maghetto e 400 milioni di copie vendute) e i vampiri dal cuore tenero di Stephenie Meyer, ora i libri gialli per ragazzi sono tornati a riempire gli scaffali delle librerie. Un revival che non ha mancato di scomodare anche i grandi autori del passato. Pensiamo ai tredici episodi della serie Agatha Mistery, firmata da Steve Stevenson (De Agostini). La protagonista dodicenne condivide con la celebre scrittrice Christie molto più di un nome. Agatha sogna, infatti, di diventare una giallista. L’occasione le viene servita su un piatto d’argento quando il cugino Larry si iscrive alla Eye school, la più celebre scuola di detective del mondo. In aiuto al parente pasticcione, la ragazza si trasformerà in una perfetta assistente: ogni esame sarà un caso da risolvere, un viaggio da intraprendere e una storia da raccontare.
Spesso i classici del giallo forniscono preziosi spunti da cui partire per mettere in piedi una storia, altre volte vengono letteralmente saccheggiati. Ma capita anche che siano riproposti fedelmente, in versione integrale o semplificata per i più piccoli. Perché, in fondo, quando una storia funziona che bisogno c’è di cambiarla? Lo devono aver capito molte case editrici specializzate in pubblicazioni per l’infanzia, visto che nei loro cataloghi è tutto un succedersi di «riedizioni illustri». Da Le avventure di Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle ai racconti firmati Agatha Christie, fino alle storielle del maestro del brivido Edgar Allan Poe (le più gettonate: Il pozzo e il pendolo e I racconti del terrore). Che sia una pipa, una lente d’ingrandimento o un corvo appollaiato alla finestra, ogni elemento è buono per stuzzicare l’immaginario delle nuove generazioni e tenerle incollate alle pagine di un libro.
Non di solo passato vive comunque la letteratura gialla junior. Nel magico mondo della narrativa per ragazzi le idee nuove non mancano mai. A guidare l’ondata di «brivido inedito» è un pezzo grosso della fiction made in Usa: John Grisham, autore di successi come Il socio, Il rapporto Pelican e L’uomo della pioggia. Accantonato solo temporaneamente il pubblico adulto, dal 2011 lo scrittore statunitense si è lanciato alla conquista dei teen ager. Il suo Theodore Boone – protagonista dell’omonima saga edita da Mondadori che conta tre episodi (La prima indagine di Theodore Boone, L’accusato, La ragazza scomparsa), più un quarto – The activist – uscito negli Usa lo scorso 21 maggio, è un 13enne appassionato di legge che, in attesa di diventare un principe del foro, dispensa consulenze legali ai compagni di scuola. Coraggio e parlantina gli torneranno utili quando si troverà coinvolto in un maxi-processo. Trama semplice, linguaggio essenziale: sebbene siano state concepite per i piccoli, le avventure di Theodore Boone hanno conquistato in breve anche gli adulti, entrando già due anni fa nella classifica Usa dei 150 libri più venduti. Segno che forse – dopo tante storie farcite di alieni e mostri giunti da lontano a invadere il pianeta – è venuto il momento di tornare a una narrativa più realistica e ragionata. Di tornare, insomma, «coi piedi per terra».