Bussando alle porte dell’Italia
Il momento più brutto è stato quando ha creduto, in piena notte, che il camion si fosse fermato per una sosta. Ha provato a scendere dall’asse dove era legato – quello, per intenderci, tra gli pneumatici posteriori –, ma all’improvviso il motore si è riacceso. «A stento sono riuscito a rimettermi su, ma la sciarpa mi si è impigliata in una ruota. Pensavo di morire». Il sorriso si allarga su un volto ancora da bambino. Reza ha 22 anni, da quattro è in Italia. Afghano, ha lasciato la famiglia rifugiata in Iraq e ha provato la roulette russa del viaggio per raggiungere l’Europa. A piedi, sotto ai camion, clandestino sempre e comunque, potenziale cadavere senza nome da recuperare in mare o lungo una scarpata. Gli è andata bene. Oggi ha un pezzo di carta dove c’è scritto che ha ottenuto lo status di rifugiato, ovvero rientra in quella categoria di persone che secondo alcune leggi internazionali – la madre di tutte è la Convenzione di Ginevra del 1951 – gli Stati dovrebbero proteggere e accogliere.
Riprendere la vita in mano
È un paradosso: in Italia, l’accoglienza termina nel momento esatto in cui avviene il riconoscimento del diritto alla protezione internazionale. Il nostro Paese, infatti, nonostante la diffusione di alcune buone pratiche, non è in grado di attuare politiche di integrazione efficaci. «La condizione di incertezza, di sospensione e di vulnerabilità accompagna chi fugge dalle persecuzioni anche nella fase di arrivo e di permanenza nel luogo di rifugio», scrive Laurens Jolles, delegata dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati.
Se nel nostro Paese non esiste un sistema di accoglienza adeguato – basato cioè su un monitoraggio dei bisogni, delle risorse e dei punti deboli – è colpa soprattutto della mancanza di una legge organica in materia di asilo. Cosicché, invece di una programmazione seria, anche in seguito ai reiterati drammatici fatti di cronaca, in questi anni si è intervenuti seguendo la logica dell’emergenza, affrontata con la moltiplicazione di servizi di prima assistenza gestiti direttamente da Roma, il più delle volte senza coinvolgere i diretti interessati, cioè gli enti locali sul cui territorio le persone venivano dislocate.
La sensazione di precarietà, di emergenza continua è avvertita dagli stessi rifugiati che, approdati in Italia, vorrebbero e cercano subito di ripartire per altre mete. «I rifugiati non sempre vedono garantiti i loro diritti» dice Murra Muteba, rifugiata congolese in Italia, che considera comunque la creazione di un ministero per l’integrazione e la nomina di Cécile Kyenge a ministra un segnale positivo. Eppure «c’è ancora molto da fare. Siamo in molti ad arrivare con profondi traumi. Le violenze e le persecuzioni subite, i pericoli dei viaggi al limite della sopravvivenza ci mettono in una situazione di estrema vulnerabilità». L’elenco delle necessità è presto tracciato: «Abbiamo bisogno in primo luogo di essere curati, assistiti e di avere un posto decente dove vivere. Senza queste cose basilari nessun percorso di riabilitazione e integrazione può raggiungere un esito positivo. Per noi è inoltre fondamentale che gli italiani sappiano chi sono i rifugiati e mettano in pratica nei nostri confronti la solidarietà umana di cui loro stessi hanno usufruito sotto altri cieli e in altri tempi».
Non si tratta solo di dare una risposta ai bisogni di prima necessità. Murra racconta della frustrazione di chi ha studiato, ha esperienza professionale consolidata e vorrebbe essere protagonista attivo della vita del Paese che lo ha accolto: «Dateci la possibilità di uscire dalla condizione di “assistito perpetuo”, offriteci l’opportunità di riprendere in mano la nostra vita. Date un valore alle nostre competenze, metteteci in grado di trovare un lavoro. Non vogliamo essere un peso, perché sappiamo di poter essere una ricchezza».
Su questa linea corre il messaggio Migranti e rifugiati: verso un mondo migliore scritto dal Pontefice per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2014, il 19 gennaio. «Nonostante i problemi, i rischi e le difficoltà da affrontare, ciò che anima tanti migranti e rifugiati è il binomio fiducia e speranza; essi portano nel cuore il desiderio di un futuro migliore non solo per se stessi, ma anche per le proprie famiglie e per le persone care», scrive papa Francesco.
Il Pontefice torna sui tasti già premuti in occasione della visita a Lampedusa, l’8 luglio scorso, e poi il 10 settembre a Roma al Centro Astalli (il servizio dei gesuiti per i rifugiati in Italia). «Migranti e rifugiati – ammonisce il Papa – non sono pedine sullo scacchiere dell’umanità. (…) In fuga da situazioni di miseria o di persecuzione verso migliori prospettive o per avere salva la vita, milioni di persone intraprendono il viaggio migratorio e, mentre sperano di trovare compimento alle attese, incontrano spesso diffidenza, chiusura ed esclusione, e sono colpiti da altre sventure, spesso anche più gravi e che feriscono la loro dignità umana».
Gli fa eco padre Giovanni La Manna, direttore del Centro Astalli: «Mentre i Paesi dell’Africa e del Medio Oriente continuano a sobbarcarsi il carico più ingente dell’accoglienza dei rifugiati, l’Europa non cessa di concentrarsi sul controllo spasmodico delle frontiere, come dimostra il netto calo delle domande d’asilo registrato nel 2012. Intanto nel Mediterraneo prosegue la strage silenziosa dei naufragi e la lista delle vittime ignote della “fortezza Europa” si allunga. I viaggi si fanno più lunghi, più costosi, più pericolosi: ma restano inevitabili per chi non ha alternativa».
Chi arriva in Italia porta incise nella carne cicatrici indelebili. Basta leggere la testimonianza di un rifugiato somalo nel volume Terre senza promesse (Avagliano 2011) per capire che cosa ha passato chi, per esempio, è sbarcato a Lampedusa: «Mentre aspetto, in fila sotto il sole, faccio mentalmente il conto delle persone che erano con me nella barca: otto nigeriani, quattro sudanesi, ventotto somali come noi, quindici egiziani, una decina tra marocchini e algerini, circa venti tra etiopi e eritrei. Mi guardo intorno e alcuni li vedo lì, in fila anche loro. All’appello ne mancano dieci: sei sono morti durante la traversata, quattro sono stati portati subito all’ospedale. Mi sforzo di ricordare quelli che non ce l’hanno fatta: un bambino, un vecchio, due giovani, due ragazzi. I conti tornano».
Di fronte a racconti come questo, papa Francesco a Lampedusa si scagliava contro la «globalizzazione dell’indifferenza». Oggi, nel messaggio per la Giornata dei rifugiati, dopo l’analisi politica e la richiesta di un’azione sinergica internazionale tra i vari governi, il Pontefice si rivolge come sempre al singolo, perché ciascuno faccia la propria parte: «È necessario un cambio di atteggiamento verso i migranti e i rifugiati da parte di tutti: il passaggio da un atteggiamento di difesa e di paura, di disinteresse o di emarginazione – che, alla fine, corrisponde proprio alla “cultura dello scarto” – a un atteggiamento che abbia alla base la “cultura dell’incontro”».
Rifugiati nel mondo
Molti sono scappati in Libano, Giordania, Turchia, Iraq ed Egitto, ma cresce il numero di siriani che cerca protezione in Nord Africa ed Europa.
Più della metà dei rifugiati nel mondo vive nelle baraccopoli delle grandi metropoli: Bangkok, Amman, Nairobi, ma anche Londra e Roma. Chi fugge da guerre e persecuzioni cerca nell’anonimato della città una seconda occasione. Ma che tipo di protezione trovano i rifugiati in una metropoli? Ignorati e non accolti, spesso conoscono esclusione, marginalizzazione e profonda solitudine.
Nuovi e vecchi conflitti hanno contribuito all’aumento dell’8 per cento del numero di domande d’asilo presentate nei Paesi industrializzati durante il 2012. Nell’Ue le domande d’asilo sono state 332 mila (302 mila nel 2011). Le persone che hanno chiesto asilo in Europa provenivano soprattutto da Afghanistan, Siria, Russia, Pakistan e Serbia. Circa un quarto delle richieste esaminate nel 2012 ha avuto esito positivo: al 14 per cento è stato riconosciuto lo status di rifugiato, al 10 per cento la protezione sussidiaria e al 2 per cento il permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Dall’inizio dell’anno sulle coste italiane sono sbarcati 35.085 migranti. Di questi, quasi tre su quattro avevano diritto a protezione. In generale, circa 25 mila persone sono state salvate in mare. Secondo gli ultimi dati diffusi dal Viminale, 9.805 sono siriani, 8.843 eritrei, 3.140 somali, 879 afghani e 1.058 provenienti dal Mali.
Alla ricerca di un futuro di pace
«Da un anno sono rifugiata in Italia dalla Siria. Sono vittima di un conflitto atroce che a oggi ha provocato oltre due milioni di rifugiati». La giovane donna racconta che per lei, insegnante, i giovani e i bambini per tanti anni sono stati una ragione di vita. «Ora ai nostri figli viene di fatto impedito di andare a scuola. Mandare un bambino in un’aula significa accettare il rischio di non vederlo tornare vivo», spiega, perché anche gli edifici scolastici vengono presi di mira dalle bombe. «Ho sempre pensato che l’insegnamento e l’educazione fossero una via per la pace. Ma oggi ogni strada di pace e di libertà nel mio Paese sembra essere stata cancellata per sempre». Così sono proprio i più giovani, dice Carol, a pagare un prezzo altissimo: «I nostri ragazzi sono stati tutti arruolati o uccisi in una guerra per noi senza senso. Ce li stanno ammazzando. Dovranno passare almeno cinquant’anni prima che in Siria si possano avere nuove generazioni. Siamo un Paese senza futuro».
Si scappa dalle case, dalle famiglie, dal passato, perché non c’è alternativa. L’unica speranza è di giungere vivi in Europa. «Un’Europa che sognavamo accogliente e aperta. Ma purtroppo – sostiene la donna – neanche qui le nostre sofferenze trovano pace. I nostri diritti umani e la nostra dignità troppo spesso vengono calpestati dall’indifferenza e dalla superficialità. Siamo scappati dall’orrore, ma non ci sentiamo ancora in salvo».
Carol, cattolica, racconta come anche la fede in situazioni di guerra venga messa duramente alla prova. «Siamo testimoni delle sofferenze dei nostri fratelli cristiani in Siria. In città come Homs e Qamishli abbiamo visto le nostre chiese distrutte. La guerra ha negato a tutti noi persino la possibilità di pregare». Parlando a Francesco la donna ricordava il contributo che i siriani vogliono dare ai Paesi europei che li ospitano. «Sentiamo grande la responsabilità di non essere un peso, vogliamo sentirci parte attiva di una nuova società. Vogliamo offrire il nostro aiuto, il nostro bagaglio di competenze e conoscenze, la nostra cultura nella costruzione di società più giuste e accoglienti nei confronti di chi come noi è in fuga da guerre e persecuzioni».
Il pensiero torna ai più giovani: «Noi adulti possiamo sopportare ancora altro dolore, se questo serve a garantire un futuro di pace ai nostri figli. Chiediamo per loro la possibilità di andare a scuola e crescere in contesti di pace. Abbiamo bisogno che la comunità internazionale faccia in modo che il popolo siriano smetta di soffrire per una guerra che non vuole e non capisce».
Il racconto
Con gli occhi di un bambino
Si chiamano Finestre e Incontri. Sono progetti per le scuole, nati dall’idea di far conoscere agli studenti uomini e donne che hanno vissuto l’esperienza dell’esilio o che sono fedeli di religioni diverse dal cattolicesimo. L’idea è nata al Centro Astalli, il servizio per i rifugiati dei gesuiti, che da sei anni, alle scuole superiori che aderiscono ai due progetti, propone di partecipare al premio nazionale La scrittura non va in esilio. Realizzato in collaborazione con l’assessorato alla Famiglia, all’educazione e ai giovani di Roma, il concorso chiede ai ragazzi di cimentarsi nella stesura di un racconto che affronta un tema a scelta tra quelli proposti dai progetti: il diritto di asilo, l’immigrazione, il dialogo interreligioso, la società interculturale. Di seguito, una sintesi del racconto vincitore dell’edizione 2013, Il gelato, a firma di Alba Bisante del liceo classico Mamiani di Roma.
«Oggi è sabato, ed è quasi mezzogiorno. Per me questo vuol dire una cosa sola: la chiacchierata madre figlio. È da tanto che io e la mia mamma ci dedichiamo un’oretta solo per noi un giorno alla settimana. Io, mamma, papà e Sarah, la mia sorellina di quattro anni – io ne ho otto – siamo tutti nati in Sudan, in Africa. Io – che mi chiamo Emmanuel – e Sarah abbiamo un nome cristiano, perché siamo stati battezzati, mentre mia madre e mio padre mantengono ancora quello del loro villaggio, Nyagai e Biel. Mi piace molto pensare all’Africa come al luogo delle mie origini, la mia “casa”: non che me la ricordi più di tanto. I ricordi del mio villaggio d’origine sono molto confusi, e ancora più sfocati sono quelli che riguardano il viaggio che abbiamo dovuto affrontare per arrivare fin qui.
Papà mi sta accompagnando al solito posto dove vedo la mamma ogni sabato; prima lei non può dedicarsi a me, da quando è nata è quasi un’esclusiva di Sarah. Io e papà, appena arrivati, ci sediamo e aspettiamo, come al solito. Non so cosa ci sia di tanto bello in questo posto. Io sinceramente non ho mai capito cosa ci trovi di “gentile” nel proprietario, un tipo arcigno che non si muove praticamente mai dalla cassa. Oh, eccola, la mamma è arrivata. È proprio bellissima.
“Emmanuel!” mi saluta appena mi vede, sorridendo. Parliamo sempre ed esclusivamente in sudanese, io e lei.
A imparare l’italiano proprio non ci riesce.
“Sarah è stanca” mi spiega. «Oggi abbiamo camminato tanto. Com’è bello quel... zelano”.
“Gelato, mamma!” la correggo io.
“Torno più tardi” ci interrompe mio padre. “Ciao, Nyagai”.
Come mio padre guarda mia madre non ho mai visto nessun uomo guardare una donna. È uno sguardo tenero, apprensivo. Mia madre lo saluta con un sorriso e gli manda un bacio, lui si allontana; so benissimo che non andrà più in là dell’uscita del negozio, ma ha capito che io ho bisogno d’intimità per la chiacchierata madre figlio, e così ci lascia in pace. Lo apprezzo molto.
“Allora, cosa mi racconta il mio ometto della sua settimana?” mi sprona mia madre mentre culla Sarah.
“Ti ho già detto di aver preso ottimo in italiano, vero?” le chiedo, entusiasta.
Lei è raggiante. Lo è sempre quando parlo di scuola, perché lei non l’ha fatta. “Bravissimo” mi dice con gli occhi che le brillano. “Però poi ho litigato con Federico. Dice che non so l’italiano perché non sono nato qui come lui”.
Quando devo dire queste cose mi sento terribilmente in imbarazzo. Un po’ perché Federico ha ragione, alla fine. Io non sono come gli altri. Ciò non vuol dire che può trattarmi male, però.
“Chi è quello che ha preso ottimo in italiano, tu o Federico?” mi stuzzica mia madre.
“Mamma. E se Federico avesse ragione? E se la maestra mi stesse solo favorendo perché non sono come gli altri?”. Mamma mi fissa per qualche istante, tranquilla. “La maestra ti favorisce… perché sei più bravo di Federico, ometto!” mi interrompe lei, serena. “Semplicemente per questo! Perché ti preoccupi, piccolo mio? Sei nato in un’altra parte del mondo, e allora? Avrai più storie da raccontare, più cose da scoprire!”.
Sto per replicare qualcosa riguardo a Federico, quando un suono acuto, familiare ormai, mi perfora le orecchie.
“È finito! A sabato, ometto! Ciao ciao!” mi sussurra mia madre frettolosamente, lanciandomi un bacio.
No, no! Non voglio, ma la sua immagine comincia a sbiadire. Attacco le mie mani sullo schermo, quasi a sperare di riuscire ad afferrarla. Ogni volta che vedo mia madre sparire all’interno di quel computer, in quell’internet point, mi prende lo sconforto. Vorrei tanto che stesse con me, che fra noi non ci fosse così tanta distanza, che fra noi non ci fosse un computer».
Le parole dei migranti
Apolide. Persona cui nessuno Stato riconosce la cittadinanza: letteralmente, «senza patria».
Richiedente asilo. Colui che non può o non intende avvalersi della protezione del proprio Stato e, trovandosi all’estero, inoltra richiesta di protezione al governo del Paese che lo ospita. La sua domanda viene poi esaminata dalle autorità di quel Paese. Fino al momento della decisione in merito alla domanda, egli è un richiedente asilo.
Rifugiato. È il richiedente asilo a cui viene accordata la protezione del Paese in cui si trova, quando si accerta che è stato costretto a lasciare la propria patria a causa di persecuzioni per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche. A differenza del migrante, egli non ha scelta: non può tornare indietro, perché teme di subire persecuzioni o di venire ucciso.
Protezione sussidiaria. Protezione internazionale prevista per chi, pur non essendo riconosciuto rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra, rischierebbe comunque l’incolumità in caso di rimpatrio.
Minore straniero non accompagnato. Sono ragazzi con meno di 18 anni di età, senza genitori e non accuditi da alcun adulto responsabile per legge o convenzione. Possono chiedere asilo ed essere quindi riconosciuti rifugiati.
Migrante irregolare. È chi, per qualsiasi ragione, entra senza regolari documenti di viaggio in un altro Paese. Molte persone in fuga da guerre e persecuzioni, impossibilitate a chiedere al proprio governo il rilascio di tali documenti, giungono in modo irregolare in un altro Paese, nel quale poi inoltrano domanda d’asilo. I migranti irregolari spesso in modo dispregiativo vengono chiamati «clandestini».
Sprar. Il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) è un sistema di accoglienza e integrazione, promosso dal ministero dell’Interno e dagli enti locali in collaborazione con organizzazioni umanitarie e di tutela, che offre sostegno abitativo e aiuto all’avvio di un percorso di integrazione. I posti a disposizione su tutto il territorio nazionale sono circa 3 mila.
Cara. Istituiti nel 2008, i Centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) sono le strutture dove viene inviato il richiedente protezione internazionale allo scopo di consentire l’identificazione e l’applicazione della procedura. Il periodo di permanenza all’interno del centro, fissato in 20 o 35
giorni, spesso si protrae per molti mesi.
Legge Bossi-Fini. È una tra le leggi che regolamentano le politiche sull’immigrazione in Italia, l’ultima a essere stata varata in merito (n. 189 del 30 luglio 2002). Prende il nome dei due primi firmatari.