Gesù, uomo delle Beatitudini
Dal 9 al 15 novembre del 2015 si svolgerà a Firenze il quinto Convegno ecclesiale nazionale della Chiesa italiana. Esso si collega agli Orientamenti pastorali del decennio, dedicati al tema dell’educazione e all’attuale «emergenza educativa». L’argomento del Convegno, proposto a credenti e non credenti, è espresso in un’affermazione impegnativa: In Gesù Cristo il nuovo umanesimo. In questi giorni viene inviato alle diocesi un Invito al Convegno, una lettera che spiega le ragioni e il senso dell’iniziativa, e chiede, per preparare l’evento, la collaborazione di tutti. In quest’ottica anche il «Messaggero di sant’Antonio» ha pensato un suo percorso di approfondimento.
Ma andiamo con ordine. Ho detto che questo sarà il quinto Convegno ecclesiale nazionale. Molti ricorderanno, nel 2006, il grande incontro di Verona, dedicato alla speranza. Il suo titolo era infatti Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo. Era una speranza che attraversava gli ambiti, i modi in cui quotidianamente viviamo: la dimensione degli affetti, del lavoro e della festa, l’esperienza della fragilità, il desiderio di educarci a vicenda e di convivere nel rispetto di regole democraticamente stabilite.
Quello di Verona era solo l’ultimo di una serie di eventi ecclesiali che, celebrati circa ogni dieci anni, avevano accompagnato il cammino della Chiesa italiana dopo il Concilio Vaticano II. Ricordiamo, nel 1976, il Convegno di Roma su Evangelizzazione e promozione umana, poi, nel 1985, quello di Loreto su Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini, e ancora, nel 1995, quello di Palermo su Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia. I temi dei Convegni non solo avevano sviluppato alcuni aspetti dell’eredità conciliare, ma si erano intrecciati, di volta in volta, con gli orientamenti che la Chiesa si era data per la sua azione nella società.
In tutti questi casi, comunque, sia nei vari Orientamenti pastorali che nei temi scelti per i Convegni, al centro dell’attenzione era sempre l’essere umano: considerato nei modi in cui la sua umanità può essere compiutamente promossa (Roma), al fine d’istituire una comunità rinnovata nel profondo (Loreto), a partire da ciò che può offrire, per un ripensamento dell’umano, il richiamo alle dimensioni della carità e della speranza (Palermo e Verona). In altre parole, si trattava sempre di mettere l’accento, per «comunicare il Vangelo in un mondo che cambia», sulla «questione antropologica». Il che vuol dire domandarsi che cosa significa essere davvero, oggi, esseri umani, che cosa permette pienamente di realizzarci come tali, che cosa può dirci, in proposito, il messaggio cristiano. È urgente tutto questo. Lo è tanto più nella situazione in cui viviamo. Oggi, infatti, predominano, e per lo più sono pacificamente accettate, concezioni riduttive, unilaterali e sbagliate di ciò che siamo e possiamo essere.
C’è, ad esempio, l’idea per cui donne e uomini sono anzitutto individui, tendenzialmente isolati, dediti a coltivare i propri interessi, e solo in seguito, se a loro conviene, sono disposti a formare una comunità. E invece noi siamo anzitutto esseri in relazione; lo siamo proprio come esseri umani, figli e padri, appartenenti a una tradizione, inseriti in una società. È fin troppo diffusa, poi, la convinzione che uomini e donne ubbidiscono in primo luogo ai propri interessi, che il loro principale comandamento è quello dell’utile, e che per ottenere un vantaggio sono disposti a tutto. E invece non è vero. Anzi, tanto più in tempi di crisi, la solidarietà – come dice anche un recente rapporto del Censis – torna a essere un modello diffuso di comportamento.
S’impone ancora, acriticamente condivisa, la concezione per cui l’umanità dell’uomo s’identifica con le funzioni del suo corpo, che il corpo è fatto di parti intercambiabili, quasi fosse una macchina, e che perciò può essere manipolato a piacimento. E invece sulla liceità di queste manipolazioni arbitrarie, che le tecnologie rendono possibili in ogni fase della vita, stanno nascendo sempre più dubbi. L’esistenza umana, infatti, non è affatto un campo di esperimenti.
Potrei continuare ancora. Credo però che quanto ho detto basti a far comprendere perché la questione antropologica – la domanda su chi siamo veramente e su come dobbiamo comportarci nei confronti del mondo, dei nostri simili, di noi stessi – è una domanda oggi centrale, e perché è necessario dare a essa risposta. È quello che intende fare il Convegno di Firenze.
Lo intende fare rilanciando con forza l’idea che bisogna proporre nuovamente, proprio da Firenze, proprio dalla culla dell’umanesimo, una concezione dell’essere umano che si contrapponga a tutto ciò che lo può isolare e mortificare nelle sue potenzialità. Il riferimento al nuovo umanesimo, espresso nel titolo, indica una prospettiva completamente diversa da quella oggi predominante: l’idea per cui l’essere umano è pensato e si realizza solo nelle sue relazioni. Il Convegno vuole poi indicare il modello di questa umanità nuova, e insieme la via che bisogna seguire per realizzarla: la figura di Gesù Cristo. La fede cristiana – su cui viene posto ora l’accento, dopo che nei Convegni precedenti erano state privilegiate la carità e la speranza – diviene dunque ciò che motiva e sostiene la realizzazione dell’umano.
Tutto ciò è detto nell’Invito al Convegno cercando in primo luogo, quali interlocutori, i Consigli presbiterali e pastorali, le Facoltà teologiche e gli Istituti di scienze religiose, le Consulte laicali, le associazioni e i movimenti. In questo scritto, però, vi è non solo l’annuncio di un tema, ma una richiesta di collaborazione. Non si tratta di un documento che cala dall’alto, ma di un modo per intraprendere un cammino insieme. Alla fine ci sono domande ben precise, per favorire la riflessione e il contributo delle Chiese locali. A esse si può rispondere narrando esperienze positive o segnalando nodi problematici. Lo stile, quello stile a cui papa Francesco ci ha ormai abituato, mira a promuovere dialogo e condivisione. Come afferma lo stesso Invito, nella sua parte conclusiva, bisogna «smettere di fare calcoli e (tornare a) fare Eucarestia».
Come abbiamo già detto, in questo percorso anche il «Messaggero di sant’Antonio» vuole dire la sua. E lo farà coinvolgendo alcuni autori, tra quelli che collaborano con le sue pagine, impegnati in prima persona nella costruzione del Convegno. Si tratta di Chiara Giaccardi, di Simone Morandini e di chi scrive. Lo farà, anche, dando spazio alle buone pratiche che provengono dalle realtà locali: quei modi concreti di mettere a frutto la propria umanità che possiamo incontrare nelle famiglie, nelle comunità, nelle diocesi italiane spesso, a torto, ignorati dai media.
Il filo conduttore che abbiamo scelto per avvicinarci al Convegno di Firenze è il Vangelo delle Beatitudini. Come dice papa Francesco – che ha scelto di mettersi alla «scuola delle Beatitudini» per definire il tema delle prossime tre Giornate Mondiali della Gioventù – non c’è bisogno d’altro. Il Discorso della montagna, infatti, non indica solo la via seguendo la quale l’essere umano può essere davvero felice. Le Beatitudini sono invece, prima di tutto, il modo in cui uomini e donne possono attuare pienamente la loro umanità. Sono l’indicazione concreta, che Gesù stesso ci offre, per pensare e porre in opera un nuovo umanesimo. Sono – l’espressione è ancora di papa Francesco – il «piano d’azione» che ci permette di realizzarlo.
Ecco perché, dopo l’inquadramento biblico-teologico di ciascuna Beatitudine, compiuto da Simone Morandini, Chiara Giaccardi e chi scrive ne offriranno una lettura volta ad aiutarci, oggi, non solo a comprendere chi siamo veramente, ma soprattutto a vedere come, con riferimento a esse, possiamo attuare nel concreto la nostra umanità. Concluderà il percorso un’esperienza di attualizzazione concreta, una vera e propria testimonianza di Beatitudine realizzata. Questo sarà il nostro modo di partecipare, da pellegrini di sant’Antonio, al cammino che porta a Firenze: per rendere questo Convegno sempre più un’occasione condivisa da tutti.