Lettere al direttore
Calcio, il tifo che ci piace
«Caro direttore, perché si parla sempre di tifo e di tifosi in maniera negativa? Perché spesso si sottovaluta, o non si considera proprio, l’altra faccia della medaglia, vale a dire quella del tifo vero e dei tifosi altrettanto veri, appassionati di sport e non di violenza? Ci sono tante storie che vale la pena raccontare e altrettante persone che non appaiono in tv e nemmeno sui giornali. Purtroppo i mass media accendono i riflettori solo sulla cronaca negativa. Questo perché, al solito, il male fa più notizia del bene, un albero che si abbatte fa più rumore di una foresta che cresce. Tra queste storie c’è quella degli Inter Club (ben cinquantaquattro) che, dal 1975, dalle mie parti, a Napoli e in Campania, coniugano il tifo per l’Inter e la passione per valori quali l’amicizia e la solidarietà. Per tutti, il club non è soltanto un ritrovo di tifosi, ma un posto dove incontrare persone con le quali condividere una passione in maniera propositiva. Da qui la realizzazione di iniziative come adozioni a distanza, la donazione di sangue, la raccolta di indumenti, serate di musica e teatro in case di riposo, orfanotrofi e ospedali, tornei di calcio, dama, calcetto, scacchi, gare gastronomiche ed escursioni. Insomma, il tifo non è solo quello di Genny ’a carogna».
Lettera firmata
Gentile lettore, grazie per gli interrogativi sollevati e per la segnalazione della sua esperienza. La riflessione su tifo e tifosi passa attraverso la crisi che il mondo del calcio sta vivendo. Il mancato risultato dell’Italia al Mondiale è una delle cartine di tornasole per provare a leggere quello che, alla fine, è un vero e proprio crollo. Il calcio coinvolge sempre meno persone, mentre cresce la parte più accesa della tifoseria. Solo qualche dato (sondaggio Demos Coop 2013): in quattro anni coloro che si dicono tifosi si sono ridotti da oltre la metà della popolazione a meno di un terzo. In parallelo, però, è cresciuta la componente militante: quasi un tifoso su due si dichiara «ultratifoso» (non sempre e non solo ultrà). Così, troppo spesso hanno il sopravvento le componenti violente e politiche che nulla hanno a che vedere con lo sport. Troppi nostri stadi sono diventati bunker, dove si accede attraverso metal detector e controlli serrati: meglio andarci in compagnia e non da soli. Anzi, meglio proprio non andarci, per non correre rischi. Sono inaccettabili le immagini della guerriglia che si scatena dentro e fuori. Inaccettabili per un Paese che dovrebbe misurare la propria civiltà anche attraverso la sportività. I motivi di tutto ciò? Difficile rispondere. Questo calcio, però, ridotto solo a spettacolarizzazione, a diritti tv e a tifo violento, non ci piace. Meglio allora, piuttosto, spostare i riflettori su esperienze come quelle da lei segnalate.
In conclusione, vale la pena riflettere sulle parole di un addetto ai lavori, il giornalista Gianni Mura che, a proposito di calcio, scrive: «Quand’ero bambino si trattava di una disciplina assolutamente tranquilla e festosa: non vi erano distinzioni tra le curve né gabbie di separazione, i tifosi non venivano scortati dalla stazione allo stadio, non esistevano quei treni speciali che oggigiorno vengono sistematicamente rovinati. In poche parole, la domenica non veniva vissuta in maniera così bellicosa. Al giorno d’oggi gli stadi italiani sono tra i più angoscianti del mondo perché i loro steccati, i loro muri e le loro divisioni ricordano un carcere, un luogo di segregazione». Ora siamo all’inizio di un nuovo campionato: non è forse giunto il momento di cambiare?
Aprile 2014, papa Francesco firma il decreto sull’eroicità delle virtù di Luigi Rocchi, di Tolentino (MC), dichiarandolo ufficialmente «venerabile». Il suo nome non dovrebbe essere nuovo per i lettori di più lunga data: infatti, Rocchi tenne su queste pagine un’apprezzatissima rubrica, dal 1974 al 1978, rivolta in particolare ai malati.
Ma chi è stato Luigi (Luigino) Rocchi? Così lui stesso si presentava, nel primo articolo pubblicato sul «Messaggero di sant’Antonio»: «Sono nato con un brutto male che mi ha presto ridotto alla completa immobilità. Muovo un po’ il capo e per scrivere uso una macchina elettrica della quale batto i tasti con uno speciale strumento che tengo e controllo con la “bocca-testa”. (…) Sono riuscito a far fruttare la sofferenza. Ma non ci sono riuscito di botto da un giorno all’altro. E soprattutto non ci sono riuscito da solo. All’inizio fu dura, mi sono perfino disperato quando vedevo il mio corpo disfarsi sotto i miei occhi. Anch’io ho detto: “Ma perché proprio a me?”. (…) Ho trovato chi mi ha teso la mano, chi mi si è avvicinato con amore. (…) Si chiamava Giulio. (…) Fu lui a farmi capire e scoprire che quello che guasta davvero un uomo, che riduce la sua dignità, non è la malattia, ma la sterilità di certi dolori arrabbiati e piagnucolosi o pieni di invidia per il prossimo. (…) Compresi la Parola di Gesù: “Chi vuole salvare la propria vita la perderà”: chi vuol pensare solo al proprio dolore si perderà in quel dolore. (…) Vidi bene che il mio vero male non era quello che mi impediva di muovermi fisicamente, ma quello che mi impediva di muovermi in soccorso degli altri. Per questo, durante un “treno bianco” a Loreto, chiesi alla Madonna: “Non mi importa che io guarisca fuori, guariscimi dentro. Fa’ che io non sia un uomo-per-me, ma un uomo-per-gli-altri. Toglimi da questa mia sterile disperazione, da’ uno scopo
al mio soffrire”».
La sua fiducia in Dio e il suo amore per la vita, da vero «uomo-per-gli-altri», contagiarono tanti, anche da queste pagine. E oggi è una festa, per tutti noi del «Messaggero» e per i lettori, avere Luigino al fianco di sant’Antonio, a proteggerci e sostenerci nella strada verso la santità.
Lettera del mese
Maternità
«Questo è il mio posto»
La vita è un miracolo troppo grande per essere sprecato. Anche quando capita in modo inaspettato e sconvolge tutti i piani. Qui di seguito la commovente testimonianza di una giovane mamma che si è lasciata guidare dall’amore e ora non è più sola.
«Ricevo ogni mese il “Messaggero di sant’Antonio”. Sono di Roma, ma molte volte ho preso il treno per venire a trovare il Santo. Mi piacerebbe che leggeste la mia testimonianza e spero che la mia storia sia d’esempio per molte persone.
Quella che vedete nella foto è la mia meravigliosa bambina, Maria Stella, e tra quattro giorni avrà cinque mesi. Ho amato questa figlia dal primo istante in cui ho visto e ascoltato battere il suo cuore in quella ecografia. È stato sconvolgente, lei era viva, era dentro di me, minuscola, quasi invisibile, ma il suo cuore batteva... e voleva me. Avevo solo 18 anni e tanti progetti. Certo, un figlio non era contemplato nel presente, neanche nel futuro. Ma è capitato. Lei era già lì... e ho detto sì. È vero, c’è voluta tanta forza, ma ci vuole tanto coraggio anche ad affrontare una malattia, una perdita, una gara... Perché non un figlio?
Maria Stella è nata da un grande amore, ma nessun amore, per quanto grande, è sicuro. E si resta sole, come qualunque altra donna che abbia concepito il proprio figlio in una sera in discoteca, o in un’avventura senza importanza, o con un uomo di cui non ricorda neanche il nome. Non buttate i vostri bambini per chi non c’è più, non buttateli in cambio dell’amore o delle promesse di un uomo. Non buttateli per i divertimenti, le feste, l’università, la libertà o per la prospettiva di una vita migliore. Non buttate questo dono per il mondo, la gente, le chiacchiere, la vergogna, la paura di rovinarvi il corpo, la paura della solitudine. Un figlio vale più di tutto questo, vale anche più di noi stessi.
È vero, all’inizio ci saranno genitori sconvolti, arrabbiati, delusi, amici che rideranno, vicini che spettegoleranno, persone che vi isoleranno come lebbrose. Ma avrete il vostro bambino: non sarete mai più sole e questo, credetemi, basta. Basta una tuta vecchia con un cuore che vi scoppia di gioia nel petto mentre guardate il vostro bambino spegnere le candeline, piuttosto che avere venti paia di scarpe, una bella macchina e tanti vestiti, ma non riuscire a trattenere le lacrime al pensiero che il vostro bambino quelle candeline non le spegnerà mai. L’aborto devasta per sempre e devasta te, non i tuoi amici, il tuo ragazzo o i tuoi genitori. E invece il miracolo è questo: un sorriso bellissimo, due manine grassocce e un amore indescrivibile.
Ho avuto tanto affetto, tante mani tese ad aiutarmi, incoraggiarmi, darmi forza, persone impensabili che magari prima neanche mi salutavano e dopo facevano a gara per offrirmi il loro aiuto. Questo fanno i bambini: trasformano ciò che è buio in una luce bellissima e diventano i figli e i nipoti di tutti, professori compresi. Restano i cuori duri, ma quelli non fanno storia. Certo, adesso nella mia borsa, insieme con il cellulare e i trucchi, ci sono pannolini, biberon, salviettine e ciucci, ma (Maria Stella e io) siamo belle lo stesso, anzi siamo belle due volte. Le notti sono ancora abbastanza movimentate: latte, pagine da studiare, compiti da finire, tanta stanchezza, ma anche tanti sorrisi. A volte lei si sveglia impaurita, allunga la manina a cercare i miei capelli o le mie guance e mi guarda come a dire “Mamma dove sei?”. E io la guardo e le dico: “Amore, mamma è qui”. Lei mi sorride, chiude gli occhi e dorme. Sono qui, questo è il mio posto, accanto a te, abbracciata a te. Madre Teresa di Calcutta diceva: “Le difficoltà della vita non si risolvono eliminando la vita, ma superando insieme tutte le difficoltà”. È vero. Non buttate i vostri bambini».
Benedetta e Maria Stella
Grazie, Benedetta! Grazie di questa bella testimonianza, vera, controcorrente, emozionante. Posso dirlo? Evangelica. Immagino anche faticosa. Ne abbiamo bisogno, io per primo, per arginare le tenebre che sembrano averla vinta sulla luce. Solo un rammarico. Dove sono in queste belle storie gli uomini, il papà di Maria Stella?! La natura ha dotato noi maschietti in modo da potercela cavare a poco prezzo, senza colpo subire. Facciamo i macho, ma poi non siamo capaci di assumerci le nostre responsabilità, banalizzando sesso e amore a ore. Donne, non permettetelo! Uomini, siamo seri! E su tutti noi scenda la benedizione del Dio della vita, per intercessione di Antonio di Padova! Del quale si racconta un miracolo in cui il Santo avrebbe fatto parlare un bimbo appena nato, perché confermasse la paternità del padre, che invece la metteva in dubbio accusando ingiustamente la moglie.
Lettere al Direttore, scrivere a: redazione@santantonio.org