Il presidente di tutti
New York
«Sono al servizio di tutti i miei connazionali. Sotto la mia direzione il sodalizio di Flushing intende promuovere la riaggregazione di tutta la comunità italiana del Queens attraverso eventi religiosi, culturali e sociali». Parola del nuovo presidente dell’associazione italoamericana di San Mel, Gerardo Pinto.
Nato a Rapone, vicino Potenza, dopo aver studiato ricamo, taglio e abbigliamento presso la famosa sartoria Pietro Russo di Salerno, in Campania, il 15 luglio del 1973 Pinto è emigrato in America. Ha aperto una splendida boutique ad Astoria, nel Queens, e nel 1983 ha sposato Maria Perrone, con la quale ha avuto tre figli: Donato, Maria e Salvatore. Da sempre coinvolto in vari club della zona metropolitana di New York, Pinto è stato scelto di recente. Sarà affiancato dalla vice presidente Angela Rizzi, dalla tesoriera Stella Conlon, dai segretari per le pubbliche relazioni Maria e Domenico Lo Basso, dalla segretaria di corrispondenza Giuseppina Magliano e dai consiglieri Italo Di Campli, Rosa Piccolo e Rosa Bedosky.
Fondata nel marzo del 1992 da Carlotta Cascio, Maria Gaeta, Maria Pompa e altri, desiderosi di celebrare la festa di san Giuseppe secondo la tradizione italiana, la società ha subito fatto proseliti. Attualmente conta 400 soci, promuove in grande stile feste religiose come l’Epifania, san Giuseppe e sant’Antonio, organizza pellegrinaggi, picnic, banchetti e gite, oltre a prodigarsi in opere caritative a beneficio di chiese, ospedali e centri di solidarietà, per malati anziani e sopratutto bambini, negli Stati Uniti e all’estero.
Abbiamo chiesto al nuovo presidente quale sarà la direzione che l’associazione prenderà sotto la sua guida.
Barozzi. Uno dei suoi detti preferiti è che «bisogna incontrarsi per conoscersi e bisogna conoscersi per stare bene assieme». Quali sono, secondo lei, le ragioni per ritrovarsi assieme?
Pinto. È vero che non siamo più quelli che eravamo ieri quando eravamo in Italia, perché cambiano i problemi e le generazioni. Ma per fortuna ci sono ancora motivi per ritrovarsi assieme: il piacere di incontrare amici e riprendere il dialogo sospeso ma mai interrotto; la soddisfazione di scoprire i valori condivisi che ci uniscono; la voglia di ricordare l’Italia, le sue regioni, i paesi della nostra provenienza, i parenti e gli amici che sono là; il desiderio di mostrare ciò che siamo diventati e ciò che abbiamo realizzato; il bisogno di rivendicare il diritto di sentirsi ancora e sempre cittadini d’Italia ed eredi del suo patrimonio morale, culturale, storico e artistico, nonché del progresso economico conseguito e della ricchezza prodotta; l’esigenza di alimentare l’orgoglio di appartenenza a un popolo e una terra ricchi di storia e protesi verso il futuro; il dovere morale di chiederci che cosa può fare l’Italia per i suoi cittadini all’estero, ma anche che cosa essi possano fare per la loro terra di origine.
Mi sembra che abbia parafrasato la famosa asserzione del presidente americano John Kennedy, quando disse: «Non chiedere ciò che l’America può fare per te, ma piuttosto ciò che tu puoi fare per l’America». Cosa possiamo fare noi italiani d’America per l’Italia?
Chi fa il proprio dovere onora la sua terra. E noi l’abbiamo fatto con abnegazione e costanza. Ci siamo affermati e abbiamo contribuito sensibilmente a fare crescere questa terra e onorare l’Italia. Noi non siamo più stranieri, ma cittadini. Non siamo in esilio, ma in una nuova patria. La terra lasciata non appare più come matrigna, ma come madre che conserva i nostri affetti e può essere amata e desiderata. Possiamo rendere l’Italia presente e viva in America, così come gli italiani che vivono in Italia testimoniano e valorizzano il nostro lavoro e le nostre conquiste. Comunicare le nostre storie è trasmettere un percorso di vita, una capacità di superare gli ostacoli e la voglia di non appiattirsi sul benessere raggiunto.
A dire il vero la nostra collaborazione non è sempre stata capita, accolta e sfruttata da parte dell’Italia. Non le pare?
Certo. Però è importante rammentare a noi e all’Italia che non è ricco chi possiede beni e tempo, ma chi ne fa dono agli altri. Questo vuole essere il messaggio della nostra associazione. Essa opera per coinvolgere in questo intento tutti gli italiani, ovunque risiedano e operino, per farli sentire un solo popolo e per far loro condividere soddisfazioni e sfide. Solo uniti possiamo dare valore alla vita religiosa, economica, politica e sociale della terra di origine e della terra di adozione.
Pensa che questo valga anche per le nuove generazioni?
Assolutamente sì. Moltissimi giovani che io conosco non sono mai stati in Italia, però esprimono il desiderio di conoscere meglio la lingua e le tradizioni della terra dei loro genitori e nonni. Sono proprio i giovani la nostra scommessa più grande. Proprio sui giovani dobbiamo investire, raccogliendo anche i suggerimenti che loro esprimono, in occasione degli incontri e delle feste che organizziamo nei vari club. Sostenere le iniziative culturali e la conoscenza della lingua italiana, accrescere gli scambi con le varie università d’Italia, rafforzare gli strumenti di comunicazione, sopratutto informatici e incoraggiare i soggiorni all’estero e gli scambi culturali dall’America verso l’Italia e viceversa. Questo deve essere un rapporto autenticamente paritario. Sappiamo che noi italoamericani abbiamo qualcosa da dare, ma anche molto da imparare.
Cosa pensa che gli italiani d’Italia possano imparare da noi italoamericani?
La grande lezione dell’immigrazione. Il dibattito oggi è aperto in tutto il mondo. L’Italia non deve dimenticare che, in questo campo, gli italoamericani possono dare un importante contributo attraverso la memoria di un fenomeno che li ha toccati da vicino. Quanti italiani, specialmente giovani, sanno, per esempio, che gli italiani emigrati sono stati anche linciati? In Italia esiste, attualmente, il timore di un’ondata xenofoba e razzista, sovente messa in risalto da una stampa spesso irresponsabile, che può creare situazioni di rigetto e di intolleranza. Noi italiani d’America vogliamo ricordare agli italiani d’Italia che la storia della nostra nazione di origine mostra un Paese sempre pronto a mescolarsi con altre culture, altri popoli, anche per le antiche esperienze degli emigranti. Noi italiani d’America siamo in completa sintonia con i migliori italiani d’Italia nel cercare di far conoscere meglio le culture ospiti, per farle accettare o comunque trovare un modo di convivenza basato sulla reciproca comprensione e il reciproco rispetto.
E cosa possono imparare da noi gli americani?
La nostra cultura, la nostra lingua e le nostre tradizioni. L’ansia dell’integrazione ha spesso forzato la cancellazione della memoria delle radici. Ma questa oblazione fa male a chi la compie su se stesso. Rimane qualcosa in sospeso nelle storie delle famiglie degli emigranti. Spesso, infatti, sono i figli dei figli, anche se hanno perduto la memoria della lingua materna, a tornare con curiosità verso il passato, trascurato o volutamente dimenticato dai genitori e dai nonni.
Gli esperti di affari dicono che occorrono tre cose per conquistare un mercato: un prodotto di qualità, un territorio ricettivo e la persona adatta. Per il prodotto, nessuno può dubitare che la lingua e la cultura italiane rappresentino un capitale unico. Quanto al territorio: c’è. Siamo in America, un Paese amico che tendenzialmente ci vuole bene. Gli americani sono venuti due volte a tirarci fuori dalle guerre, dalle invasioni e dalle cattive scelte. D’altra parte i nostri connazionali hanno costruito una buona parte di questo Paese e non c’è famiglia italiana che non abbia un parente lontano in America. Ma ovviamente tutto questo non basta. Non si può avere un prodotto bellissimo e tenerlo in casa. Bisogna portarlo sugli scaffali. Attraverso il sodalizio di cui sono presidente, io voglio fare questo.