L’odissea del vecchio e del giovane migrante

Cronaca di un incontro, nella redazione del «Messaggero di sant'Antonio», tra chi è partito dall'Italia e chi ha fatto il percorso inverso quarant'anni dopo. All'insegna dell’accoglienza.
20 Maggio 2014 | di
Non potrebbe essere il protettore dei migranti, sant’Antonio, lui, proveniente dal Marocco, sbattuto dal mare in tempesta sugli scogli della Sicilia? Sia come sia, andare a salutare il Santo in Basilica è stato il primo desiderio di due ospiti speciali invitati in redazione, per «dire la loro» su un tema che conoscono bene: la fuga dalla propria terra e dalla povertà, la navigazione perigliosa con la prospettiva di un nuovo inizio altrove. Loro sono Valerio Rizzardo ed Erion Kullaj, ospiti, oltre che speciali, anche simbolici perché rappresentano due generazioni di migranti, con il primo che ha lasciato il Veneto per l’Australia nel 1960 e il secondo approdato qui dall’Albania, quasi quarant’anni dopo.

«Facciamoli incontrare» è stata l’idea del direttore fra Fabio, «vediamo cosa succede mettendo a confronto il “vecchio” e il “nuovo” migrante. Siamo sicuri che siano così diversi?».

Una foto in bianco e nero uscita dal taschino della giacca di Valerio riporta d’un colpo al 1960. «Questa è la mia famiglia – attacca nel suo dialetto trevigiano –, io sono il più piccolo. Avevo 12 anni quando siamo partiti da Volpago del Montello (TV) per raggiungere i miei due fratelli in Australia. Ricordo mio papà che non voleva prendere il treno. La mamma invece era contenta, perché stava per riu­nire la famiglia».

Altre foto ingiallite ci conducono a Genova, all’imbarco: la famiglia Rizzardo si appresta a salpare per Melbourne, dove si stabilirà. Il viaggio durerà trenta lunghi giorni. «In nave eravamo tutti migranti, ma non conoscevamo nessuno. Per me era tutto un gioco, la mamma invece aveva paura. “Speremo che no se rabalta” (capovolga), diceva della nave quando c’era burrasca». E l’accoglienza degli australiani? «Se non avevi i documenti, tornavi indietro. È così ancora oggi. Però poi le persone erano gentilissime. Gli australiani ci trattavano come uno di loro, anzi meglio. Dove si abitava noi erano tutti inglesi, ma già il primo giorno venivano là a salutare e a chiedere se si aveva bisogno di qualcosa».

In breve tutta la famiglia trova un impiego, compreso il più piccolo, che dopo un anno di scuola va a fare il cromatore. Ma la nostalgia per l’Italia è troppa. «Il papà diceva: “Questa no l’è tera mia” (non è la mia terra)». Per tre volte va fino al porto con l’intento di ripartire, frenato dai figli più grandi che lo convincono a restare «ancora un altro anno». Alla lunga, il capofamiglia ce la farà a rientrare, con la moglie e i figli più piccoli, e a riprendere a vivere nel trevigiano, in un’Italia che in pochi anni ha creato nuove opportunità economiche. A Valerio resterà sempre il desiderio di tornare in Australia, dove sono rimasti i fratelli: ce la farà solo da pensionato, con la moglie, in aereo, con qualche rimpianto per quello che sarebbe potuto essere vivere dall’altra parte del mondo.
 
Dall’Albania a 14 anni
È un’altra Italia quella che incontra Erion nel 1997: ha appena 14 anni quando scappa di casa e, da Tirana, raggiunge Valona per attraversare l’Adriatico. Racconta il giovane albanese, oggi trentunenne: «Conservo ancora la foto che avevo dato a un amico, perché la consegnasse ai miei genitori nel caso in cui non avessi raggiunto l’Italia. A guardarla mi vedo tanto piccolo, ma quel giorno mi sentivo grande, non avevo paura di nulla». Dal tono di voce e dal racconto della sua odissea emerge la tempra di Erion: una forte personalità e una determinazione mai doma che gli hanno permesso di raggiungere nel giro di pochi anni traguardi impensabili. Come per Valerio, decisivo è il rapporto col padre, ex generale dell’esercito, caduto in disgrazia dopo il crollo del regime comunista. Erion si scontra con lui proprio sulla gestione della nuova fase di insicurezza che coinvolge la famiglia: da qui la decisione di «prendere la situazione in mano», come dice oggi. «Mi misi in tasca gli unici spiccioli rimasti in casa e andai a imbarcarmi. Per evitare le motovedette della Finanza ci si muoveva solo col mare grosso. Eravamo una trentina di persone per gommone, di tutte le età. Ho visto morire alcuni di loro tra le onde. Alla fine riuscimmo a sbarcare in Puglia. Avevo sentito che al Nord c’era più lavoro, così presi un treno fino a Bologna. In stazione i barboni e la sporcizia mi fecero una cattiva impressione, allora ripartii e arrivai a Treviso: stazione ben tenuta, in ordine. Decisi di fermarmi».

Oltre alla determinazione, nella vicenda di Erion c’è un’altra costante: gli incontri con persone positive. Come l’albanese che gli indica dove poter dormire, in una casa abbandonata senza acqua né luce, abitata da altri clandestini. «Cominciai a cercare lavoro, ma ero troppo piccolo sia per l’agricoltura che per l’industria, che per i cantieri. Passarono sei mesi. Giunto allo stremo, implorai un fabbro di darmi un impiego, e finalmente ottenni un “sì”». Nel 1998 arriva la sanatoria per i migranti irregolari, ma Erion è troppo piccolo, servirebbe un tutore. Le cose si complicano con l’arrivo dell’inverno e di una litigata in casa. Il ragazzo scappa in mezzo alla neve, trova rifugio a Castelfranco Veneto (TV) da un amico, poi torna a riprendere le sue cose per andarsene in cerca di fortuna. È in bici, in mezzo alla tormenta, quando incontra un’anziana a cui chiede l’ora: «Povero ragazzo, come sei conciato...» si impietosisce la donna, e lo porta a casa, per un minestrone caldo e un’indicazione preziosa, l’indirizzo di don Luigi, a Badoere (TV), che ha già accolto altri ragazzi albanesi. Sarà il sacerdote a fare da padre a Erion, a garantire per lui presso il tribunale dei minori, a sostenerlo finché non sarà in grado di trovarsi un lavoro regolare e quell’appartamento in affitto che gli permetterà di chiedere il ricongiungimento famigliare.

Ma Erion brucia le tappe: lavora in fabbrica e nei fine settimana in pizzeria, usa le sere per studiare e diplomarsi, poi si iscrive anche all’università, ingegneria meccanica, dove ottiene ottimi voti, compra casa, si sposa. L’abitazione è grande, ci stanno la sua famiglia, quella dei suoi e quella del fratello, e c’è posto ancora. «La sofferenza mi ha insegnato a tendere la mano, così abbiamo ospitato per qualche tempo una coppia romena con una bambina piccola, che non sapeva dove andare. Aiuto, perché a mia volta sono stato aiutato». L’accoglienza si impara dalla propria storia: vale per quella personale di Erion e Valerio, può valere anche per l’Italia intera.
 

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017