USina o CinAmerica? Prove di Superfusion

Italia partner della ripresa americana. Ma il baricentro del potere economico si è oramai spostato sul Pacifico a scapito dell'Europa. Intanto Obama fa i conti con il welfare e sicurezza.
17 Dicembre 2009 | di

New York
Bettero. A poco più di un anno dall’elezione di Obama, che identikit possiamo fare dell’America?
Molinari
. È un’America segnata da forti contrasti. Sicuramente Obama ha portato evidenti innovazioni, a cominciare dall’idea di leadership basata sul dialogo con gli avversari, un modello economico fondato sull’aiuto alle famiglie del ceto medio, un nuovo modello energetico basato sulle fonti rinnovabili, una proiezione americana del mondo che si fonda sul dialogo con le economie emergenti, in primo luogo con la Cina; e una società post-razziale dove sparisce la differenza tra bianco, nero, ispanico e altre minoranze. Tuttavia alcune decisioni perseguite da Obama, ad per esempio in politica economica, non hanno ancora avuto effetto. Il ceto medio continua a soffrire la recessione, la disoccupazione è oltre il 10%, e la pancia dell’entroterra conservatore del Paese contesta a Obama politiche economiche definite stataliste con una presenza dello Stato in economia che risulta insolita nella tradizione americana. Mentre a Sinistra, i Liberal vivono con disappunto le scelte del presidente su alcuni temi come la questione dell’aborto o le azioni militari in Afghanistan.
Nell’azione di Obama sembra che ci sia una dicotomia evidente tra un forte idealismo da una parte, con un’identità politica molto ben definita, e una sorta di real politik dall’altra, cioè una concretezza e un pragmatismo tipicamente americani. Questa dicotomia può, nel tempo, radicalizzare le tensioni all’interno dell’elettorato americano?
Sicuramente questa dicotomia distingue il presidente. Obama è stato eletto sull’onda di una grande mobilitazione idealista. Lui ha vinto perché ha chiesto agli americani di fare la storia eleggendo il primo presidente afro-americano. Inoltre si è proposto come un grande innovatore, come il nuovo Lincoln, con la capacità di sanare la ferita ideologica tra Liberal e Conservatori, frutto delle spaccature del 1968. Poi, però, una volta arrivato, il suo metodo di governo, proprio perché si ispira a Lincoln, è stato segnato da un grande pragmatismo. Tutto questo comporta parecchie tensioni all’interno della società americana: lo sconforto della Sinistra Liberal, l’irritazione da parte della Destra più conservatrice. Nel complesso, il dato di fatto è che la popolarità del presidente tiene, anche se indebolita, e va ben oltre la soglia del 50%. L’impressione, però, è che saranno i prossimi mesi ad essere decisivi. L’America fondamentalmente è un Paese pragmatico. Certo si innamora dei propri leader, come fece per Kennedy, per Reagan, e adesso per Obama; però li giudica sulla base dei risultati, e il prossimo esame per il presidente sarà nel novembre prossimo quando gli americani andranno a votare per il sostanziale rinnovo del Congresso.
L’apertura agli investimenti stranieri, e per quanto riguarda l’Italia, l’entrata di Fiat nell’impero Chrysler, hanno ridato nuovo slancio e fiducia all’economia americana, ma soprattutto hanno dimostrato che anche nei grandi santuari dell’industria, in realtà c’è posto anche per gli investimenti stranieri. Con quali prospettive?
Questo è un pilastro della politica economica del presidente Obama. Anche se, a parole, il ministro del Tesoro americano, Tim Geithner, continua a difendere il dollaro forte, il pensiero economico dominante è quello di Paul Krugman, premio Nobel ed editorialista del New York Times, il quale sostiene che non si deve aver paura dell’indebolimento del dollaro perché la valuta statunitense sostiene le esportazioni e quindi l’economia americana. L’Istituto Peterson per la politica economica di Washington, che è uno dei centri studi che più sostiene ed esprime le politiche dell’amministrazione, teorizza l’indebolimento del dollaro nel lungo periodo come uno strumento per battere o fronteggiare l’impatto della recessione. Questo implica la possibilità di aprire il Paese agli investimenti stranieri ovvero di invitare grandi aziende internazionali come le italiane Fiat e Finmeccanica, a insediarsi nel territorio degli Stati Uniti per creare posti di lavoro americani in loco. È significativo che proprio questa è stata l’espressione che Sergio Marchionne, amministratore delegato della nuova Chrysler, ha usato a Detroit in occasione della presentazione dei nuovi piani dell’azienda. La direzione di marcia dell’amministrazione Obama è soprattutto quella di creare posti di lavoro che ancora mancano.
Nel lungo periodo, questa politica non rischia di sfavorire proprio l’Europa che adesso vede solo come una ghiotta occasione di crescita il fatto di investire negli Stati Uniti?
Chiaramente c’è una preoccupazione in Europa per quello che sta avvenendo sul fronte economico. Si pensi, ad esempio, al libro dell’economista Zachary Karabell sulla «Superfusion» cioè sul processo di progressiva integrazione tra le economie vicine agli Stati Uniti che si basa sul fatto che la Cina detiene 800 miliardi di buoni del tesoro americani: sostanzialmente sostiene il sistema americano mentre gli Stati Uniti acquistano i prodotti cinesi. Quello americano è il mercato più grande per i prodotti cinesi, e con i suoi acquisti garantisce la crescita del Paese asiatico. Quindi le due economie si integrano. L’equilibrio dollaro e yuan, al centro di un braccio di ferro tra i due Paesi, è in realtà la cornice che consente proprio la «Superfusion». E questa «Superfusion» fra le due maggiori economie del pianeta – che messe assieme assommano scambi annuali per 410 miliardi di dollari, cioè una cifra stratosferica –, lascia intravvedere il rischio di marginalizzazione dei capitali così come degli scambi del mercato europeo.
Sui temi della vita e della ricerca scientifica si sono registrate delle iniziali tensioni tra Obama e il mondo cattolico americano che vanta comunque un peso politico di primo piano. Fino a che punto Obama ha bisogno dei cattolici per consolidare la propria politica?
I cattolici sono la più grande religione organizzata d’America, dal punto di vista numerico. Anche se i protestanti sono la maggioranza, in realtà sono divisi in più chiese. I cattolici sono stati decisivi nelle ultime elezioni perché Obama ha conquistato il 54% di questo elettorato. Un risultato molto importante perché nel 2004 era stato George W. Bush, sul tema dell’aborto, a strappare ai Democratici lo storico vantaggio nell’elettorato cattolico. Il voto cattolico è stato importante anche perché ha consentito a Obama di raccogliere il sostegno di gran parte degli ispanici che secondo alcuni, invece, non avrebbero votato per un afro-americano in ragione delle tensioni inter-razziali. Quindi il voto cattolico è strategico per Obama. Non è un caso che nel processo di riforma della sanità ci sia stato un compromesso con la Conferenza episcopale americana: Obama aveva bisogno dei voti dei Democratici antiabortisti, e alla Camera dei rappresentanti una quarantina di deputati sono dichiaratamente antiabortisti. Quindi ha fatto precedere il voto finale sulla riforma, dall’approvazione di un emendamento che impedisce l’uso di fondi pubblici per finanziare o sostenere l’interruzione della gravidanza se non in casi estremi come la violenza, l’incesto e il pericolo grave per la salute della madre. La Conferenza episcopale americana, immediatamente dopo l’approvazione dell’emendamento, ha applaudito, e quindi la Legge è stata approvata. E questa è la riprova del peso dell’elettorato cattolico e dell’importanza che Obama dà a questi valori.
Il mondo cattolico potrà essere determinante anche nelle scelte di politica estera di Obama: in Africa, in Medio Oriente e in Asia, in particolare nella decisione di prolungare la guerra in Afghanistan e nel consolidamento della lotta al terrorismo in Iraq?
Ci sono molti terreni di convergenza tra Obama e i cattolici. Uno è la difesa del pianeta. Obama ci arriva attraverso un approccio ecologista, i cattolici ci arrivano attraverso l’idea che l’ambiente sia una creazione divina e che quindi debba essere tutelato. In politica estera, il maggior terreno di incontro fino a questo momento, fra Obama e i cattolici, è stato l’impegno in Africa. Lo sviluppo, la lotta contro le grandi malattie sono un ambito nel quale vedremo delle novità nei prossimi mesi in questo dialogo parallelo fra Obama e la Santa Sede. Sul piano militare, va ricordato che Obama è un guerriero pragmatico, non ideologico, quindi è contrario allo «scontro di civiltà»: non usa più la guerra al terrorismo ma combatte contro quelli che ritiene essere i nemici dell’America, soprattutto Al Qaeda nelle sue basi in Medio Oriente o in Pakistan, oppure i Talebani in Afghanistan. È sostanzialmente, come dice Obama, una guerra di necessità e non di scelta. E in questo c’è un diverso approccio alla guerra rispetto al predecessore, George W. Bush, e un passo verso le posizioni dei cattolici americani.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017