In processione per il Santo dello Stretto
A Messina Antonio è una sorta di «cittadino onorario». In suo nome la località siciliana ospita un santuario e due processioni che ogni anno richiamano migliaia di fedeli da ogni dove.
21 Gennaio 2016
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«Più della mezza estate. Di più. Di più. Sant’Antonino è tutto. È il Santo di Messina». Donna Maria avrà poco meno di 70 anni e se ne sta seduta tra i marmi eleganti del santuario di Sant’Antonio nella città dello Stretto. Sorride con occhi felici. E Mario Magro, padre Mario, 48 anni, sa che deve spiegarmi: «La mezza estate è la grande festa dell’Assunta, al 15 di agosto». Centinaia di uomini tirano la vara, il grande carro votivo dedicato alla Madonna. Centomila uomini e donne in una processione spettacolare. È la festa più grande di Messina. Ma se una donna chiamata Maria mi dice che il giorno di sant’Antonio è più «grande», corro il rischio di crederci.
Ora è padre Mario a sorridere e a scuotere la testa. Mario è nato in questa terra, è il rettore del santuario rogazionista di Sant’Antonio, nel pieno centro di Messina, e sa che la festa dell’Assunta è l’identità messinese. La Madonna protegge la città, la sua statua dorata, con in mano la lettera che scrisse ai messinesi nell’anno 42, si alza dal mare all’ingresso del porto, ma Antonio – non sorridete –, dal 1995 è cittadino onorario di Messina. Quasi otto secoli dopo la sua morte e con tanto di bollo dell’ufficio gabinetto del sindaco. E Maria, a suo modo, ha ragione: sant’Antonino, qui, sulla meraviglia di due mari che si incrociano tra le coste siciliane e calabresi, è fede di un popolo, devozione di folla, santo delle grazie. Ogni anno a Messina quasi mezzo milione di pellegrini visita il piccolo santuario a lui dedicato. Privo di sagrato e piazza, l’edificio è un isolato dell’antico quartiere di Avignone. Cinquantamila persone si affollano nelle strade attorno alla chiesa nel giorno della processione rogazionista di sant’Antonio. Che non avviene il 13 giugno. O, per chiarire, qui, caso unico al mondo, vi sono due processioni.
Il Santo, sullo Stretto, è storia dei rogazionisti, congregazione messinese, fondata alla fine dell’Ottocento da sant’Annibale Maria Di Francia, figlio di una famiglia nobile della città, santo degli orfani e della carità. Il santuario ad Antonio fu la prima chiesa in muratura ricostruita dopo il terremoto del 1908. Sant’Antonino di Messina, così è chiamato in città, è la metamorfosi del Santo padovano nel culto siciliano. In città vi sono i francescani: custodiscono la reliquia del Santo, una mattonella con tracce del suo sangue. È poggiata su un altare nell’immensa chiesa di San Francesco all’Immacolata. Antonio ha vissuto qui. Due congregazioni per sant’Antonio. Per questo, per rescritto vescovile, le processioni a Messina sono due: i francescani escono dalla chiesa nel giorno dovuto, il 13 di giugno. La domenica successiva è la volta del grande corteo sacro dei rogazionisti: un carro-mappamondo, attorniato da bambini vestiti da marinai e sormontato dalla statua del Santo attraversa il centro della città. E la folla dilaga in ogni strada. Alcuni sono insonni: hanno vissuto una «notte bianca» attorno al santuario. Una notte di artisti di strada, preghiere e concerti. Tutti per sant’Antonio di Messina.
Antonio e Annibale
Antonio è un migrante. Dal Portogallo parte per l’Africa, ma nel 1221, ammalato, la deve abbandonare. Una tempesta devia la rotta della sua barca. Il Santo si salva, ma si ritrova sulle coste settentrionali della Sicilia. Salvato da pescatori. Antonio sa che a Messina vi è un convento di frati. Viene accolto, si ferma alcuni mesi prima di risalire l’Italia per raggiungere Assisi. Fa in tempo a far scavare un pozzo in una terra arida. Quasi un miracolo. Ma compiuto senza autorizzazione di fra Leonardo, il severo padre guardiano che punisce Antonio. Il Santo si disciplina. Si batte e il suo sangue è una macchia su una mattonella. Raccontano anche che abbia fatto piantare il primo albero di arance amare dell’isola. Anche qui in molti lo ricordano come il Santo degli «oggetti perduti».
Lo sa bene Annibale Maria Di Francia, ordinato sacerdote nel 1878, che deve al frate di Padova il rinvenimento di un suo libretto di preghiere e delle fibbie in argento delle sue scarpe. Annibale è carismatico e intransigente, è uomo rigido, aristocratico e popolare allo stesso tempo. La sua fede non ammette compromessi. Sceglie i poveri. Va a vivere nel quartiere di Avignone, il peggiore di Messina. Si dedica ai piccoli, nel 1882 fonda il primo orfanotrofio per bambine. Nel 1887, un’epidemia di colera scoppia in città. Una donna, Susanna Consiglio, fa voto al Santo: se la sua famiglia fosse stata risparmiata, avrebbe aiutato gli orfani di padre Annibale. Mantiene la sua promessa: dona «sessanta lire» per «comprare il pane» a quei bambini.
Il pane di sant’Antonio qui nasce così. Annibale è uomo «moderno». Conosce il valore dei segni. Ottiene dalla curia di Messina un documento in cui si riconosce che la devozione del pane è nata nella città dello Stretto. Nel suo piccolo oratorio, i bambini pregano un modesto quadro del Santo. La fama delle opere di questo prete messinese si diffonde per il Sud Italia. E lui ha già inaugurato una tipografia: stampa santini, libretti. Ai primi del Novecento fa una rivista da 700 mila copie. Annibale intuisce la forza popolare del Santo padovano: nel 1897 fonda la sua congregazione e Antonio ne sarà il «celeste provveditore».
Da Padova a Messina
«Il culto di sant’Antonio a Messina è legato a sant’Annibale. È lui ad averlo reso così grande» mi dice Giorgio Nalin, 64 anni, direttore della casa madre dei rogazionisti. Ci devo credere: padre Giorgio è padovano. Nel 1907, Annibale riesce a far arrivare a Messina una statua del Santo, sdoganata proprio alla vigilia del 13 giugno e portata in processione con un gran seguito di folla. Poi è l’anno del terremoto. Alba del 28 dicembre, 37 secondi, scossa del settimo grado, muoiono 80 mila persone, metà della popolazione della città. Annibale organizza i soccorsi. La statua del Santo viene ritrovata intatta tra le macerie. La fama del prete cresce, è il prete santo di Messina, «città magico-sacrale, legata a tradizioni intoccabili» mi dice Tonino Perna, 68 anni, assessore alla cultura. «Qui il cristianesimo arriva con Paolo, in tempi apostolici e i messinesi vanno a trovare la Madonna in Palestina. È una storia di millenni» spiega Giacomo Sorrenti, 34 anni, presidente delle Confraternite della provincia.
Passo due giorni nel santuario di Sant’Antonio. Migranti e donne rom davanti agli ingressi. Via vai incessante di gente. Si prega davanti al corpo di Annibale, ci s’inginocchia a sant’Antonio. Quaderni su cui scrivere voti, richieste, ringraziamenti. Ci sono bambini, mamme. Ragazzi cingalesi. Gruppetti di filippini. «Nei tredici martedì che precedono la festa di sant’Antonio, raccogliamo i biglietti con le richieste delle grazie – racconta il rettore Mario –. L’ultimo martedì benediciamo queste parole e poi bruciamo tutto». «Questa chiesa è un pronto soccorso aperto giorno e notte» avverte Elena Donato, albergatrice messinese, vicepresidente dell’associazione dei volontari del santuario, centotrenta persone che danno una mano ai sacerdoti. «Non riuscirò ad andare a Padova – mi dice una donna –. È troppo lontana, ma qui posso venire. Questo è il mio pellegrinaggio».
Il pane di sant’Antonio oggi è una mensa a fianco del santuario. Ogni giorno dispensa quasi quattrocento pasti alle famiglie bisognose. Sono i nuovi poveri in una città affaticata, dall’aria malandata. Troppi i disoccupati, i senzatetto, gli immigrati... Il cibo c’è, ogni pomeriggio. Per tutti. Ai tempi di Annibale vi era la caldaia, il pentolone in mezzo alla strada: «Chista è a casa du padri Di Francia, cu arriva si setta e mancia». Correva l’anno 1891 e il prete di Messina era furente contro i poliziotti che incarceravano i mendicanti, «come se la povertà fosse un delitto».
Per alcuni giorni ho camminato per Messina: 250 mila abitanti, un traffico aggrovigliato, marciapiedi sconnessi. Cumuli di rifiuti. Un prete mi accompagna nelle periferie di Scala Ritiro, favela di fango e baracche accanto a ville da boss, borgata cresciuta in un vallone, sotto un cruciverba osceno di viadotti e sopra, raccontano, la minaccia di discariche di amianto. Una Messina invisibile e disgraziata. Ma poi torno verso il mare: la bellezza e lo stupore dello Stretto, le lunghe barche dei cacciatori di pesce spada, le luci della Calabria. Che città è questa? Comune e curia hanno finanze disastrate; il vescovo, a sorpresa, si è dimesso lo scorso settembre; nello stesso periodo i carmelitani, dopo sette secoli, hanno chiuso il loro convento, il primo d’Europa dopo la fuga dalla Palestina.
Torno dai francescani, vado nell’orto, al pozzo di sant’Antonio. Cerco un po’ di pace. Qui c’è la statua in pietra bianca del Santo. E c’è un giardiniere: Angelo. Mangio i suoi pomodori dalla pianta. Lui annaffia. E mi dice: «Alla sera, prima di andare a casa, chiacchiero un po’ con Antonio».
Ora è padre Mario a sorridere e a scuotere la testa. Mario è nato in questa terra, è il rettore del santuario rogazionista di Sant’Antonio, nel pieno centro di Messina, e sa che la festa dell’Assunta è l’identità messinese. La Madonna protegge la città, la sua statua dorata, con in mano la lettera che scrisse ai messinesi nell’anno 42, si alza dal mare all’ingresso del porto, ma Antonio – non sorridete –, dal 1995 è cittadino onorario di Messina. Quasi otto secoli dopo la sua morte e con tanto di bollo dell’ufficio gabinetto del sindaco. E Maria, a suo modo, ha ragione: sant’Antonino, qui, sulla meraviglia di due mari che si incrociano tra le coste siciliane e calabresi, è fede di un popolo, devozione di folla, santo delle grazie. Ogni anno a Messina quasi mezzo milione di pellegrini visita il piccolo santuario a lui dedicato. Privo di sagrato e piazza, l’edificio è un isolato dell’antico quartiere di Avignone. Cinquantamila persone si affollano nelle strade attorno alla chiesa nel giorno della processione rogazionista di sant’Antonio. Che non avviene il 13 giugno. O, per chiarire, qui, caso unico al mondo, vi sono due processioni.
Il Santo, sullo Stretto, è storia dei rogazionisti, congregazione messinese, fondata alla fine dell’Ottocento da sant’Annibale Maria Di Francia, figlio di una famiglia nobile della città, santo degli orfani e della carità. Il santuario ad Antonio fu la prima chiesa in muratura ricostruita dopo il terremoto del 1908. Sant’Antonino di Messina, così è chiamato in città, è la metamorfosi del Santo padovano nel culto siciliano. In città vi sono i francescani: custodiscono la reliquia del Santo, una mattonella con tracce del suo sangue. È poggiata su un altare nell’immensa chiesa di San Francesco all’Immacolata. Antonio ha vissuto qui. Due congregazioni per sant’Antonio. Per questo, per rescritto vescovile, le processioni a Messina sono due: i francescani escono dalla chiesa nel giorno dovuto, il 13 di giugno. La domenica successiva è la volta del grande corteo sacro dei rogazionisti: un carro-mappamondo, attorniato da bambini vestiti da marinai e sormontato dalla statua del Santo attraversa il centro della città. E la folla dilaga in ogni strada. Alcuni sono insonni: hanno vissuto una «notte bianca» attorno al santuario. Una notte di artisti di strada, preghiere e concerti. Tutti per sant’Antonio di Messina.
Antonio e Annibale
Antonio è un migrante. Dal Portogallo parte per l’Africa, ma nel 1221, ammalato, la deve abbandonare. Una tempesta devia la rotta della sua barca. Il Santo si salva, ma si ritrova sulle coste settentrionali della Sicilia. Salvato da pescatori. Antonio sa che a Messina vi è un convento di frati. Viene accolto, si ferma alcuni mesi prima di risalire l’Italia per raggiungere Assisi. Fa in tempo a far scavare un pozzo in una terra arida. Quasi un miracolo. Ma compiuto senza autorizzazione di fra Leonardo, il severo padre guardiano che punisce Antonio. Il Santo si disciplina. Si batte e il suo sangue è una macchia su una mattonella. Raccontano anche che abbia fatto piantare il primo albero di arance amare dell’isola. Anche qui in molti lo ricordano come il Santo degli «oggetti perduti».
Lo sa bene Annibale Maria Di Francia, ordinato sacerdote nel 1878, che deve al frate di Padova il rinvenimento di un suo libretto di preghiere e delle fibbie in argento delle sue scarpe. Annibale è carismatico e intransigente, è uomo rigido, aristocratico e popolare allo stesso tempo. La sua fede non ammette compromessi. Sceglie i poveri. Va a vivere nel quartiere di Avignone, il peggiore di Messina. Si dedica ai piccoli, nel 1882 fonda il primo orfanotrofio per bambine. Nel 1887, un’epidemia di colera scoppia in città. Una donna, Susanna Consiglio, fa voto al Santo: se la sua famiglia fosse stata risparmiata, avrebbe aiutato gli orfani di padre Annibale. Mantiene la sua promessa: dona «sessanta lire» per «comprare il pane» a quei bambini.
Il pane di sant’Antonio qui nasce così. Annibale è uomo «moderno». Conosce il valore dei segni. Ottiene dalla curia di Messina un documento in cui si riconosce che la devozione del pane è nata nella città dello Stretto. Nel suo piccolo oratorio, i bambini pregano un modesto quadro del Santo. La fama delle opere di questo prete messinese si diffonde per il Sud Italia. E lui ha già inaugurato una tipografia: stampa santini, libretti. Ai primi del Novecento fa una rivista da 700 mila copie. Annibale intuisce la forza popolare del Santo padovano: nel 1897 fonda la sua congregazione e Antonio ne sarà il «celeste provveditore».
Da Padova a Messina
«Il culto di sant’Antonio a Messina è legato a sant’Annibale. È lui ad averlo reso così grande» mi dice Giorgio Nalin, 64 anni, direttore della casa madre dei rogazionisti. Ci devo credere: padre Giorgio è padovano. Nel 1907, Annibale riesce a far arrivare a Messina una statua del Santo, sdoganata proprio alla vigilia del 13 giugno e portata in processione con un gran seguito di folla. Poi è l’anno del terremoto. Alba del 28 dicembre, 37 secondi, scossa del settimo grado, muoiono 80 mila persone, metà della popolazione della città. Annibale organizza i soccorsi. La statua del Santo viene ritrovata intatta tra le macerie. La fama del prete cresce, è il prete santo di Messina, «città magico-sacrale, legata a tradizioni intoccabili» mi dice Tonino Perna, 68 anni, assessore alla cultura. «Qui il cristianesimo arriva con Paolo, in tempi apostolici e i messinesi vanno a trovare la Madonna in Palestina. È una storia di millenni» spiega Giacomo Sorrenti, 34 anni, presidente delle Confraternite della provincia.
Passo due giorni nel santuario di Sant’Antonio. Migranti e donne rom davanti agli ingressi. Via vai incessante di gente. Si prega davanti al corpo di Annibale, ci s’inginocchia a sant’Antonio. Quaderni su cui scrivere voti, richieste, ringraziamenti. Ci sono bambini, mamme. Ragazzi cingalesi. Gruppetti di filippini. «Nei tredici martedì che precedono la festa di sant’Antonio, raccogliamo i biglietti con le richieste delle grazie – racconta il rettore Mario –. L’ultimo martedì benediciamo queste parole e poi bruciamo tutto». «Questa chiesa è un pronto soccorso aperto giorno e notte» avverte Elena Donato, albergatrice messinese, vicepresidente dell’associazione dei volontari del santuario, centotrenta persone che danno una mano ai sacerdoti. «Non riuscirò ad andare a Padova – mi dice una donna –. È troppo lontana, ma qui posso venire. Questo è il mio pellegrinaggio».
Il pane di sant’Antonio oggi è una mensa a fianco del santuario. Ogni giorno dispensa quasi quattrocento pasti alle famiglie bisognose. Sono i nuovi poveri in una città affaticata, dall’aria malandata. Troppi i disoccupati, i senzatetto, gli immigrati... Il cibo c’è, ogni pomeriggio. Per tutti. Ai tempi di Annibale vi era la caldaia, il pentolone in mezzo alla strada: «Chista è a casa du padri Di Francia, cu arriva si setta e mancia». Correva l’anno 1891 e il prete di Messina era furente contro i poliziotti che incarceravano i mendicanti, «come se la povertà fosse un delitto».
Per alcuni giorni ho camminato per Messina: 250 mila abitanti, un traffico aggrovigliato, marciapiedi sconnessi. Cumuli di rifiuti. Un prete mi accompagna nelle periferie di Scala Ritiro, favela di fango e baracche accanto a ville da boss, borgata cresciuta in un vallone, sotto un cruciverba osceno di viadotti e sopra, raccontano, la minaccia di discariche di amianto. Una Messina invisibile e disgraziata. Ma poi torno verso il mare: la bellezza e lo stupore dello Stretto, le lunghe barche dei cacciatori di pesce spada, le luci della Calabria. Che città è questa? Comune e curia hanno finanze disastrate; il vescovo, a sorpresa, si è dimesso lo scorso settembre; nello stesso periodo i carmelitani, dopo sette secoli, hanno chiuso il loro convento, il primo d’Europa dopo la fuga dalla Palestina.
Torno dai francescani, vado nell’orto, al pozzo di sant’Antonio. Cerco un po’ di pace. Qui c’è la statua in pietra bianca del Santo. E c’è un giardiniere: Angelo. Mangio i suoi pomodori dalla pianta. Lui annaffia. E mi dice: «Alla sera, prima di andare a casa, chiacchiero un po’ con Antonio».
Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017