LA CITTÀ DEI TOTEM

Punto strategico del Pacific Rim, da questa multietnica città canadese
05 Novembre 1997 | di

Prince Rupert

Il nome di questa cittadina di circa 16 mila abitanti deriva, come quelli di molte altre località  della Columbia Britannica, da un principe della casa reale inglese: Rupert, figlio di Federico di Boemia e della regina Elisabetta, antenata e omonima dell'attuale sovrana d'Inghilterra e capo di stato del Canada. Prima di chiamarsi Prince Rupert - dal 1906, quando tale nome fu scelto fra dodicimila concorrenti - questa era solo Kaien, una piccola isola del territorio dei Tsimshian, che significa 'gente dello Skeena', il fiume che nasce dai ghiacciai del nord e, dopo aver valicato le catene montuose di Hazelton, si dirige a occidente, lungo l'omonima valle, per sfociare nelle acque dell'oceano Pacifico.

I nativi della zona non avevano insediamenti stabili: vivevano nelle caratteristiche case di tronchi, alternativamente in villaggi costieri e dell'interno, a seconda delle stagioni della caccia, della pesca, della raccolta di bacche e vegetali che conservavano per i lunghi inverni. Gente creativa e laboriosa, hanno lasciato negli artistici totem - molti dei quali nello stile degli Haida Gwaii delle vicine isole - l'impronta della loro civiltà  e cultura.

Oltre a essere conosciuta come la città  dell'arcobaleno, per il ricorrente fenomeno atmosferico dovuto all'alta piovosità  anche in presenza del sole, Prince Rupert è nota come la città  dei totem: ce ne sono a ogni angolo di strada, piazza e giardino. Sono repliche recenti delle migliaia di pali totemici che sorgevano lungo i numerosi insediamenti costieri. Gli archeologi indicano nel desiderio di tramandare origine e genealogia delle famiglie, la motivazione che ha portato a scolpire, intagliare e dipingere i totem che avevano funzione simbolica e pratica: elementi distintivi della casa di abitazione, segni di dignità  e rango nelle cerimonie comunitarie, espressioni di fedeltà  e riverenza nella memoria dei defunti.

La popolazione di Prince Rupert è come altrove multietnica, con una visibile presenza di indiani nativi, circa un terzo, e vi sono anche diversi italiani. La pesca costituisce l'attività  principale: il soprannome di questo luogo è stato a lungo Halibutropolis (metropoli dell'halibut, di cui sono ricchissime queste acque, peraltro abbondanti anche di salmoni, granchi e gamberetti). Il commercio e il turismo vi sono fiorenti: il porto di Prince Rupert, con la sua moderna appendice di Port Edward, è punto strategico per lo scambio di merci nell'area del Pacific Rim, e da qui partono le crociere per l'Alaska, le Queen Charlottes e Vancouver Island. Qui, sul 54° parallelo nord, a 1700 chilometri dalla città  di Vancouver e a 650 miglia marine dal suo porto, tra i primati vantano anche quello di essere più vicini all'oriente di qualsiasi altro porto commerciale e turistico del Canada.

Nel Pacific Mariners' Memorial Park, dedicato al ricordo dei marinai dispersi e a tutti coloro che hanno lavorato una vita intera sul mare, è conservato il piccolo vascello 'Kazu Maru', partito dodici anni fa dalla città  gemella di Owase, in Giappone, naufragato e recuperato su queste coste. Il nome del proprietario disperso, Kazuki Sakamoto, è inciso sulle lapidi insieme a decine di altri di origine europea, tra i quali i giovani fratelli Giacomo e Walter Colussi, morti il 1° luglio 1938. Altri nomi che leggiamo: Thomas Balducci, Mario Finella, Victor Colussi, Mickey Nordio, Russel Rose, Susan Pagan: arrivati qui come emigranti o figli di emigrati italiani.

Altro segno visibile della presenza italiana, all'entrata della città , è il bellissimo Jim Ciccone Civic Centre, sede di sport acquatici ma anche centro di eventi culturali. Jim Ciccone, un giovane atleta italocanadese, morì tragicamente qualche anno fa. Ma quanti altri, sicuramente meno celebri, hanno segnato lo sviluppo di Prince Rupert? Nel locale Museum of Northern British Columbia, con i reperti archeologici e i manufatti indigeni, è anche documentato l'inizio dell'insediamento europeo agli inizi del secolo scorso. In una vecchia pellicola cinematografica ho riconosciuto operai italiani impegnati nella costruzione della ferrovia, la Grand Trunk Pacific Railway, arrivata qui nel 1910: era l epoca dei pionieri, lavoravano senza tutela alcuna, vivevano del solo necessario in accampamenti di fortuna, sognavano e risparmiavano per finanziare il viaggio di mogli e figli lasciati in Italia, o di fidanzate intrepide che un giorno li avrebbero raggiunti per condividerne la vita dura, ma costruttiva e significativa. Qualche nome? Amadio, De Cicco, Pettenuzzo, Rototi, Silvestri... E più tardi i tre fratelli Zille, ricordati come 'i taxi-drivers'...

Con l'ondata migratoria degli anni Cinquanta, altri italiani arrivarono nel British Columbia, e quindi anche a Prince Rupert, dove nel 1959 fu organizzato un Italo-Canadian Club, 'con l'aiuto dei primi pionieri - leggo in un dattiloscritto di trent'anni fa - ma con enfasi nella gioventù, nell'allegria e nell'iniziativa'. E ancora: 'Tra la soddisfazione dell'intera cittadina, il club sponsorizza cene di gala, balli in costume, caffè per via, una squadra di calcio, feste natalizie con doni ai bambini, borse di studio per universitari, corsi di preparazione alla cittadinanza canadese seguiti da corsi di lingua italiana, e ha anche costruito una fontana'. La 'fontana del giubileo', a lato della casa municipale, fu donata dagli italocanadesi alla loro città  adottiva nel 1960, per celebrare i cinquant'anni di vita e di presenza comunitaria.

Cosa succede oggi? Esiste ancora il club degli italocanadesi? Come si identifica la presenza italiana? Lo chiedo all'impresario Gian Mario Marogna, agente consolare onorario, giunto da Asiago negli anni Sessanta, immediatamente dopo aver conseguito il diploma di geometra. Era venuto a far visita a un fratello qui residente: rimase affascinato dall'esperienza canadese, ma anche da una splendida ragazza ucraina, Shirley, divenuta sua moglie e madre dei loro due figli, Paolo e Aronne. I due ragazzi, che si dichiarano canadesi puro sangue, parlano anche la lingua italiana e sono particolarmente affezionati al paese d'origine del padre.

Proprio del ritorno dei giovani mi parla 'John' Marogna, che a ragione del suo ufficio sta sperimentando la sempre più frequente richiesta del passaporto italiano da parte degli oriundi: 'Ora siamo alla terza generazione, gli italiani sono completamente integrati, anche se gli anziani purtroppo risentono della mai superata frattura nord-sud... I giovani si dimostrano interessati ai valori italiani: dipende da noi motivarli'. È in corso tra l'altro un tentativo di ricostituire la scuola d'italiano, un tempo fiorente.

'Paisano!' sento esclamare gioiosamente mentre con mio marito stiamo facendo la spesa in un grosso supermercato alimentare: è Nando Sorbara, terza generazione, manager di uno dei reparti. Dopo la schietta tipica espressione meridionale, prosegue la conversazione in corretto italiano. Dal rispetto e dalla cordialità  di colleghi e clienti, mi rendo conto che gode di un'ottima considerazione. La stessa che, a Prince Rupert, si sono guadagnati tutti gli italiani e i loro discendenti.

La chiesa cattolica dell'Annunciazione, recentemente ricostruita e ampliata, contiene un'altra importante testimonianza italiana, questa volta artistica e religiosa: quattordici preziose tele di Luigi Morgari (1857-1935), pittore torinese appartenente alla 'dinastia' dei Morgari. Si tratta di una Via Crucis, quasi sicuramente importata dal Piemonte o dalla Francia dai missionari Oblati di Maria ad ornamento dell'originaria Annunciation Church, costruita nel 1909 dal vescovo Bunoz per richiamarvi la devozione di credenti e neofiti. Anche questo è un filo ideale e reale che congiunge due mondi solo apparentemente lontani.

 

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017